Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete un giusto mix tra pop, folk, cantautorato e sperimentazioni selezionate.
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 16 stagioni. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore e le storture dei nostri tempi come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che Sounds & Grooves vuole seguire.
Nel nono viaggio della nuova stagione, andiamo ad esplorare il potente messaggio degli Algiers, le asperità degli E di Thalia Zedek, le seducenti meraviglie dei Morphine, una delle band che ci manca di più in assoluto e l’eclettismo sonoro degli Elegiac voluti da Graham Lewis dei Wire. Inoltre c’è anche l’atteso primo album solista dell’ex Moonshake David Lance Callahan, l’intensità emotiva dei The Notwist, il citazionismo intelligente dei Field Music, il ritorno del bardo Richard Dawson accompagnato a sorpresa dai finlandesi The Circle ed la meravigliosa classicità pop degli XTC. C’è anche spazio per il folk cantautorale di Anais Mitchell, Bon Iver e AniDiFranco e per la macchina del tempo messa in piedi da uno stratosferico Reverend Horton Heat. Il finale è appannaggio della creatività senza limiti di Josephine Foster. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con un gruppo che già dall’album di esordio autointitolato aveva colpito moltissimo critica e pubblico. Gli Algiers si formano ad Atlanta, Georgia grazie all’unione del cantante Franklin James Fisher con il chitarrista Lee Tesche e il bassista Ryan Mahan. I tre, dividendosi diversi altri strumenti, erano riusciti ad infilare nelle 11 tracce del disco una serie di suoni estremamente interessanti tra battiti di mani e chitarre sferzanti, tra ipnotici e scuri ritmi industrial ed un incedere vocale gospel, tra un impianto new wave e la voce soul dello splendido Fisher che sa essere allo stesso tempo tanto dirompente quanto emozionale. Gruppo multirazziale ed impegnato socialmente, sono riusciti ad associare al loro suono scuro, liriche che esprimevano la preoccupazione per l’elezione di Trump o i possibili sviluppi della Brexit.“Irony. Utility. Pretext.” non è altro che un perfetto manifesto degli intenti artistici della band.
Due anni dopo, l’atteso seguito intitolato The Underside Of Power fortunatamente aveva confermato tutto quello che di buono si era detto della band, che capace di rendere il suo suono ancora più poderoso grazie all’inserimento in pianta stabile dell’ex Bloc Party, Matt Tong, dietro ai tamburi. Anche nel terzo lavoro, quello che doveva darci l’esatta entità di una crescita esponenziale, il quartetto di Atlanta non ha affatto deluso le aspettative, anzi, forse con There Is No Year gli Algiers hanno messo nei solchi la loro versione più matura e consapevole. Il loro mettere in primo piano l’impegno sociale anticapitalista, antirazzista e antifascista li ha resi in qualche modo unici. La potente ed empatica voce soul di Fisher unita ad un impianto musicale che unisce post-punk e gospel con precisi innesti di elettronica ha reso questo gruppo uno dei più importanti degli ultimi anni per emozioni e contenuti.
Una curiosa sinergia tra musicisti ha portato alla creazione di una band chiamata semplicemente E. L’unione tra Thalia Zedek (Come, Uzi, Live Skull), Jason Sanford (Neptune), e Gavin McCarthy (Karate), ha prodotto già tre album. I tre hanno saputo assemblare la forza esplosiva del suono industriale con la calma dei songwriters più esperti. I membri della band hanno suonato in band che hanno esplorato più campi della scena rock, dal noise dei Neptune al post rock dei Karate. Ognuno ha portato in dote le proprie esperienze, e il nome scelto significa che i tre componenti hanno lo stesso peso specifico all’interno della band, come dimostra la lunghezza uguale delle tre “stanghette” della lettera E. Certo, scegliere un nome così è un po’ una cattiveria, non è un’esperienza semplice trovarli sui negozi online o su Spotify…
Tra sperimentazione e maturità espressiva, il trio ha sviluppato un suono che vuole essere tanto meccanico quanto emozionale e che loro stessi hanno descritto come “soul music for machines”. Il secondo lavoro si intitola Negative Work, e se possibile ha migliorato ancora i meccanismi che sembravano già oliati nell’eponimo album di esordio. Ascoltiamo insieme “Hole In Nature” per capire cosa intendono. Il terzo lavoro, uscito nel corso del 2021, ha confermato il trio come una delle realtà più solide del rock alternativo.
Pochi altri gruppi sono stati così incredibilmente innovativi, geniali e importanti come i Morphine. Come è possibile definire il suono di un gruppo che mette da una parte lo strumento principe del rock, la chitarra, e basa il suo suono su un sax baritono ed una sezione ritmica? Il basso a due corde e la voce suadente, profonda ed emozionale di Mark Sandman, il sax di Dana Colley e la batteria di Jerome Deupree hanno generato un sound unico, una formula stilistica che attingeva allo stesso tempo dal blues, dalla new wave, dal jazz, ma senza appartenere a nessuno se non a loro stessi.
Tenebrosi, affascinanti, energici. Cure For Pain è stato il loro secondo lavoro, album che sta in mezzo ad una triade affascinante e quasi senza eguali tra Good e Yes. Like Swimming del 1997 era stato il primo album del gruppo a mostrare una qualche debolezza, prima che un maledetto attacco cardiaco si portasse via Sandman in una calda serata del luglio 1999 a Palestrina, vicino Roma, dove i Morphine si stavano esibendo all’interno del festival Nel Nome Del Rock. “Thursday” riassume in pochi minuti la potente magia che scaturiva da un gruppo davvero unico.
Lo scoppio della pandemia ed il successivo lockdown hanno fatto trovare all’ex leader dei Moonshake (band cardine del post-rock britannico dei ’90) David Lance Callahan il tempo di mettere mano ad una serie di canzoni cui stava lavorando da molto e di scriverne delle nuove. Per dirla con le parole dello stesso autore “durante l’isolamento non c’era molto altro da fare se non recuperare i miei libri, filmare e scrivere canzoni”. Tutto questo ha portato l’inglese a registrare il materiale che compongono English Primitive (previsto in due volumi). A fine 2021 è uscito l’atteso esordio solista, e la prima parte di English Primitive non ha deluso le attese, mostrando un autore maturo e poliedrico, capace di mettere in musica la visione di una Gran Bretagna divisa, una reazione allo snobismo e ai fallimenti all’interno del sistema politico britannico. La scrittura è emozionante, cupa, sincera e schiacciante come non mai.
Il disco non è un concept, ma a Callahan il titolo suonava bene in testa in quanto sembrava adattarsi al suo modo da “non-musicista” di comporre e suonare, e, più in generale, anche alla cultura e alla politica inglese che sembra aver toccato il fondo come nell’epoca post colonizzazione con la controversa gestione della pandemia e gli appalti di parti dell’NHS a compagnie private. “Born Of The Welfare State Was I” con la sua melodia e la perfetta fusione delle voci dell’autore e di Katherine Mountain Whitaker (dei misconosciuti Evans The Death) mostra l’orgoglio di essere nato in un’epoca in cui esiste lo stato sociale, grande conquista che va a beneficiare non più solo i più abbienti ma un’intera società. La visione del mondo di Callahan è un po’ malinconica ma ottimista, espressa da una schiera di musicisti scelti con cura, come il sodale batterista Daren Garratt (Pram, The Fall, The Nightingales) e il trombettista e flautista Terry Edwards (amico di gioventù ed ex collaboratore dei Moonshake). Con questo album Callahan mostra a tutti il proprio talento di musicista e narratore che già avevamo visto ed apprezzato con Moonshake e The Wolfhounds, e il valore di queste sette tracce è talmente alto da farsi (quasi) perdonare l’inspiegabile trentennale silenzio che l’artista ha reiterato prima di rivelarsi come solista.
Buffo che nelle pagine web italiane non ci sia praticamente spazio per Ted Milton. Eppure è un artista attivo già dagli anni ’60, prima come poeta, burattinaio e visionario, poi come sassofonista e fondatore dei Blurt, gruppo anarchico capace di unire post-punk e a no-wave con singulti jazz. Graham Lewis è sicuramente più conosciuto. Anche lui leader e outsider, bassista (e talvolta cantante) dalla mente brillante che ha contribuito non poco a rendere i Wire uno dei più grandi gruppi degli ultimi 50 anni di rock. Per formare una nuova band (che non sappiamo quanto sia un progetto estemporaneo o destinato ad avere un seguito) ai due si è aggiunto il compositore elettronico e sound artist Sam Britton, già capace in passato, insieme al cugino Ollie Bown, di farci rimanere a bocca aperte per le sue costruzioni sonore sotto il nome di Icarus.
Come detto già nello scorso episodio, spesso e volentieri quando musicisti di questo calibro si uniscono, la somma delle parti ha spesso portato a cocenti delusioni se non a flop clamorosi. Ma fortunatamente, come nel caso degli Springtime, l’intelligenza e il talento di Milton, Lewis e Britton ha condotto i neonati Elegiac ad incidere uno dei dischi più interessanti e non allineati del 2021. Beats seducenti, spoken word, interventi di sax, innesti dub, il tutto frullato da tre musicisti dalla enorme personalità che rendono brani come la “One Two” inserita in scaletta come diamanti grezzi e dalla inestimabile suggestione. Il loro album eponimo è senza dubbio uno dei lavori più intriganti usciti negli ultimi anni.
A volte gli anniversari fanno paura perché ci fanno rendere conto all’improvviso di quanto sia veloce lo scorrere del tempo. Quest’anno ha spento ben venti candeline un album che all’epoca girava con insistenza nel mio lettore CD. Il disco si intitola Neon Golden, ed è riuscito, con la sua sapiente miscela di (apparentemente) fredde iterazioni elettroniche e caldi suoni acustici, a creare una breccia indelebile nel mio cuore. In realtà, prima di arrivare a questa mirabile sintesi tra caldo e freddo, pop e sperimentazione, i The Notwist hanno percorso parecchia strada, non sempre riuscendo a trovare la retta via. Markus Acher, suo fratello Micha, Martin Messerschmid formano il gruppo nel 1989 vicino Monaco di Baviera e faticano a trovare delle coordinate musicali solide, passando dalla mistura di metal e grunge delle origini ad un indie rock che faticava a trovare una propria personalità.
Importante nell’imprimere una svolta è stato nel 1997 l’innesto di Martin Gretschmann, con le sue suggestioni elettroniche già sviluppate dietro al moniker di Console. Un anno più tardi Shrink cesella quell’incrocio tra post-rock, elettronica e pop che sarà il loro marchio di fabbrica. Nel 2002 Neon Golden non è altro che il risultato di un percorso importante, il disco giusto uscito nel momento giusto. Elegante e raffinato ma allo stesso tempo emozionale e caldo, le malinconiche composizioni di Markus Acher non hanno faticato a conquistare critica e pubblico. “Pick Up The Phone” è solo una delle tante meraviglie che a distanza di due decenni ancora ci fanno emozionare.
Richard Dawson è un artista che appartiene ad una categoria molto particolare e quasi in via di estinzione, quella dei songwriters un po’ stralunati, poco convenzionali. Basti pensare ad un Richard Youngs, o ad un Kevin Coyne, senza voler scomodare l’enorme talento di Kevin Ayers (Dawson potrebbe montarsi la testa), tanto per farvi capire come poter inquadrare un personaggio come il chitarrista di stanza a Newcastle, città dell’Inghilterra settentrionale non troppo distante dal terreno dove sorgeva Bryneich, regno britannico nato attorno al 420 d.C. che aveva ispirato il bardo nella composizione dell’album Peasant, che nel 2017 mi aveva assolutamente folgorato per l’abilità di Dawson nel raccontare le sue storie con una scrittura tanto potente e affascinante quanto oscura e poetica.
Curiosamente, due anni dopo Peasant, Dawson (descritto dal The Guardian come “Britain’s best, most humane songwriter”) è tornato con un album intitolato 2020 che apparentemente cambia le carte in tavola abbandonando il folk-rock sghembo del disco precedente in favore di un sound che strizza l’occhio ad una sorta di pop-rock (sempre contaminato e in equilibrio precario). In questa sua lucida follia il nostro eroe è tornato nel 2021 con un album in coabitazione con una band che teoricamente non potrebbe essere più distante dal songwriting di Dawson, ovverosia i Circle, gli alfieri dell’heavy metal finlandese. Il risultato è una specie di concept album sulla botanica (!) intitolato Heiki, dove i Circle abbassano i toni producendo una specie di folk rock psichedelico su cui Dawson sguazza producendo un suono più dinamico e diverso del solito. Il risultato è l’ennesimo disco ottimo come dimostra la “Lily” inserita in scaletta.
Quando ero piccolo amavo vedere una delle prime trasmissioni dedicate ai cartoni animati. Si chiamava “Gulp! Fumetti in TV“, ed il mio personaggio preferito era un buffo investigatore privato che si chiamava Nick Carter. Insieme ai fidi Patsy e Ten, Carter era sempre capace di smascherare le malefatte del suo acerrimo nemico: il maestro del travestimento Stanislao Moulinski. I fratelli Peter e David Brewer da Sunderland, attivi da un decennio sotto il nome di Field Music, mi ricordano un po’ il simpatico Moulinsky nel loro essere ironicamente abili trasformisti. ma con una differenza sostanziale, perché i due non fanno nulla per nascondere i loro travestimenti, rendendoci liberi di scoprirli a mano a mano che procediamo nell’ascolto delle loro composizioni.
I primi cinque album, con diverse modalità, hanno permesso ai due di ottimizzare la loro tecnica di fermare lo scorrere del tempo, scattando delle istantanee qua e là, per poi riproporle vestite a nuovo. Così facendo sono riusciti a perfezionare un suono assolutamente distintivo nonostante i molteplici ed evidenti modelli di riferimento. I fratelli si erano presi un bel periodo di silenzio dopo il mezzo passo falso di Plumb, che nel 2012 aveva segnato un piccolo passo indietro, grazie a un leggero cambio stilistico frutto di innesti elettronici non proprio riusciti ed un appiattimento della loro pirotecnica scrittura. Nel 2016 Commontime ha sancito il loro ritorno ad altissimo livello. Uno dei vertici del disco è “Trouble At The Lights”, giustamente messa al centro come perfetto spartiacque dell’album, grazie ai suoi mille poderosi stacchetti, trovate, rallentamenti e cambi di ritmo. Il tutto condito da una chitarra alla Adrian Belew. Album dopo album i fratelli Brewer si sono confermati come uno dei gruppi più dotati e convincenti del panorama pop-rock britannico.
Una delle band pop rock più scintillanti del Regno Unito (e uno dei riferimenti più evidenti dei Field Music) sono senza dubbio gli XTC da Swindon, nella contea del Wiltshire. L’incontro fatale tra Andy Partridge e Colin Moulding avviene alla metà degli anni ’70. I due insieme al batterista Terry Chambers formano gli Helium Kidz, che, dopo l’ingresso del tastierista Barry Andrews si trasformano negli XTC. Uno stile che prende solo in parte dalla new-wave che in quegli anni dettava legge in Gran Bretagna, iniziando la quadratura del cerchio con Drum And Wires nel 1979, primo con Dave Gregory come secondo chitarrista e tastierista al posto del dimissionario Andrews, e trovando la perfezione formale nel 1986 con Skylarking, disco prodotto (non senza dissidi in sala di incisione con la band) da Todd Rundgren.
Nonsuch è il decimo album della band di Swindon, l’ultimo per la Virgin, e nonostante da alcuni sia considerato un disco “minore”, continuo a ritenerlo, al contrario, davvero ottimo. Uscito nel 1992 sembra un lavoro fuori dal tempo considerando gli tsunami grunge e britpop che si stanno per abbattere in America e in Europa. “The Ballad Of Peter Pumpkinhead” è il brano scelto per rappresentare l’album, una trascinante meraviglia firmata Partridge a consolidare una sinergia che ha prodotto il pop rock tra i più intelligenti uscito dalla terra di Albione.
Ci sono dei revivalisti che sono capaci di ripercorrere le polverose strade blu americane con tale forza espressiva da risultare clamorosamente vere ed attuali. Qualche tempo fa avevo parlato di Wayne Hancock, adesso è la volta di Jim Heath aka Reverend Horton Heat. Il menu del suo lavoro del 2018 (e tuttora ultimo album in studio) intitolato Whole New Life è davvero classico: rockabilly, rock ‘n’ roll classico, psychobilly, RNB, varie reminiscenze sixties e la cover finale di un classico di Elvis come “Viva Las Vegas”. Ma credetemi, tutto suona vivo, pulsante, vibrante, emozionante come fosse nuovo di zecca, canzoni scritte in maniera meravigliosa ed interpretate con una passione coinvolgente.
Sembra quasi (e lo è) limitativo chiamarlo semplicemente revivalista, perché insieme al batterista RJ Contreras, al contrabbassista Jimbo Wallace e dal pianista Matt Jordan il Reverendo Jim Heath ci fa perdere lungo le vecchie strade americane come nessun altro. Ascoltate ad esempio la straordinaria “Hate To See You Cry” e riscoprite tutte le meraviglie passate del Reverendo, sperando che a breve possa tornare con un nuovo, scintillante lavoro.
Il barbuto Justin Vernon, in arte Bon Iver è riuscito a diventare da un decennio a questa parte una delle figure cardine del folk a stelle e strisce. Dopo il successo dell’esordio For Emma, Forever Ago non era facile per lui tornare e confermarsi. Il suo secondo album porta il nome da lui scelto come moniker addirittura raddoppiato (Bon Iver, Bon Iver) e vede una decisa sterzata a livello sonoro. Il suo folk rurale si stratifica, viene alimentato e popolato da intrusioni elettroniche, nuove suggestioni, con interventi e collaborazioni misurate ed evocative come quelle del sassofonista Colin Stetson. Un disco onirico, evocativo, che non disdegna alcune sterzate verso ritornelli ed ambientazioni pop di facile presa.
D’altro canto prima di entrare in studio per registrare il disco, Vernon aveva collaborato con Kanye West, e questa avventura in territori inusuali ha sicuramente influito nel processo compositivo. Il disco è un viaggio più all’interno di se stessi che geografico, anche se i titoli delle tracce dell’album stanno ad indicare un percorso specifico, come la splendida “Perth” che apre l’intero lavoro.
Anaïs Mitchell è una delle voci più interessanti della canzone d’autore americana al femminile degli ultimi anni. Qualche anno fa la Mitchell, appassionata d’arte e da sempre affascinata dal mito di Orfeo ed Euridice, aveva deciso di unire musica, letteratura e teatro portando in giro per gli States il suo musical teatrale ispirato al mito. Trova terreno fertile conquistando la fiducia ed il supporto di un’istituzione cantautorale come Ani DiFranco e della sua Righteous Babe per portare il tutto anche su disco. L’album, intitolato Hadestown, esce nel 2010, e vede la presenza come special guests di Justin Vernon (Bon Iver che interpreta Orfeo), della stessa Ani DiFranco (che interpreta Persefone), Greg Brown, Ben Knox Miller (dei Low Anthem) e delle sorelle Haden.
Il risultato è un album splendido per ispirazione e freschezza che si muove sinuoso tra swing, jazz e folk. Nella meravigliosa “Flowers – Eurydice’s Song” è proprio la Mitchell ad interpretare una splendida Euridice. Il disco, che come detto rivisitava in chiave moderna il mito di Orfeo ed Euridice, ha avuto talmente tanto successo da diventare una produzione importante come musical, sceneggiato dalla stessa Mitchell. Il debutto avvenne nell’Off Broadway nel 2016 con la regia di Rachel Chavkin e, dopo numerose revisioni e cambiamenti, nuove produzioni sono andate in scena ad Edmonton (2017), Londra (2018) e Broadway (2019). Al suo debutto a Broadway ha vinto il Tony Award al miglior musical. La Mitchell è appena tornata ad incidere un disco dopo dieci anni. Il suo album autointitolato è stato prodotto dalla major BMG.
Ani DiFranco è ormai da trent’anni un’istituzione vera e propria del songwriting al femminile. Icona della ribellione, apertamente bisessuale e femminista, capace di esprimere una straordinaria energia persino da sola con la sua fida chitarra acustica, Ani da Buffalo, New York, è stata capace di raccogliere intorno a se un enorme e fedele seguito senza mai vendere l’anima al music business, ma riuscendo comunque a piazzare milioni di copie fisiche. Ha creato una sua personale etichetta, la Righteous Babe Records, con cui pubblica dischi dal lontano 1990 con un’invidiabile media qualitativa per la prolificità della produzione.
Se Ani nel 1999 era uscita meravigliosamente dai binari della “semplice” militanza folk con l’album To The Teeth che allargava lo spettro sonoro ad altri generi musicali come jazz e funk grazie anche alle collaborazioni di artisti come Prince e Maceo Parker, due anni più tardi il suo undicesimo lavoro in studio, il doppio album Revelling/Reckoning, ha portato a compimento il lavoro di ristrutturazione del suo suono. L’album mostra diversi aspetti della sua personalità musicale, con il primo disco più aperto e movimentato, mentre il secondo è più lento ed introverso. Il brano che ho scelto (dopo molte indecisioni) è “Subdivision”, brano che mette a nudo tutte le contraddizioni ed i razzismi striscianti (ed evidenti) degli Stati Uniti. Proprio “Subdivision” è il brano che fece rifiutare alla folksinger la partecipazione al noto programma televisivo Saturday Night Live, in quanto i produttori del programma non volevano che lei la cantasse a milioni di americani.
“I’m wondering what it will take
For my country to rise
First we admit our mistakes
And then we open our eyes
Or nature succumbs to one last dumb decision
And America the beautiful
Is just one big subdivision”
“Josephine alza una lampada in vetro colorato e ci guida ad esplorare le profondità dello spirito in questo doppio album in quattro parti. A seguire la celebrità della sua voce troviamo cori di entità alate (e una navetta spaziale) che salgono e scendono in un labirinto di spiritual: preghiere rituali, lamenti blues, inni vestali e benedizioni giubilanti. I confini del mondo naturale sono fondali rotanti da cui la nostra narratrice si posa, affacciandosi su precipizi simbolici o salici desolati dalla foresta imbiancata dalla neve, esplorando temi eterni di mortalità e moralità, sotto la luna e dialogando in maniera quasi occasionale con un misterioso dio dell’amore, figura ambigua e mistica.”
Questo il pomposo proposito del penultimo album di una delle cantautrici più ispirate ed originali dei nostri giorni con cui chiudiamo questo podcast. Lasciando da parte le iperboli ed l’immaginario mistico su cui Josephine Foster si è spesso e volentieri specchiata, sorprende ancora la qualità della scrittura sia pure in un disco così lungo ed ambizioso come Faithful Fairy Harmony: quasi 80 minuti di musica spalmati su quattro facciate. Con la sua chitarra, pianoforte, arpa e organo si fa accompagnare da splendidi musicisti come Victor Herrero (chitarra), Gyða Valtýsdóttir (violoncello), Chris Scruggs (pedal steel), Jon Estes (basso), e vari membri dei The Cherry Blossoms, collettivo folk di Nashville con cui ha collaborato svariate volte. Durante questo ciclo di 18 canzoni la Foster senza sforzo dissolve ogni barriera tra se stessa e gli ascoltatori, con il suo linguaggio incredibilmente vario destreggiandosi tra prewar folk, cantautorato rock classico, psichedelia e armonie jazz. Con i suoi arrangiamenti calibrati e la sua voce incredibile, Josephine colpisce ancora una volta il centro del bersaglio. Ascoltare “Indian Burn” per credere.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves, andremo ad esplorare la sarcastica forza bruta degli Art Brut, il punk-hop sempre in prima linea degli Sleaford Mods, l’esordio coinvolgente dei britannici Yard Act, il caleidoscopio sonoro di due eccellenze del post rock britannico: Laika e Pram, i Gang Of Four con una delle pietre miliari del post punk e le traiettorie lisergiche degli scandinavi Moon Relay e di un grande della 6 corde come Chris Forsyth. E ancora, l’eclettismo sorprendente dei Tropical Fuck Storm, le atmosfere cupe degli Årabrot, il songwriting elegante, pieno ed emozionante di Bill Callahan e Sufjan Stevens, il percorso intrigante di Neneh Cherry e le suggestioni sonore di Eva Pfitzenmaier aka By The Waterhole. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. ALGIERS: Irony. Utility. Pretext. da ‘Algiers’ (2015 – Matador)
02. E: Hole In Nature da ‘Negative Work’ (2018 – Thrill Jockey)
03. MORPHINE: Thursday da ‘Cure For Pain’ (1993 – Rykodisc)
04. DAVID LANCE CALLAHAN: Born Of The Welfare State Was I da ‘English Primitive I’ (2021 – Tiny Global Productions)
05. ELEGIAC: One Two da ‘Elegiac’ (2021 – Upp Records)
06. THE NOTWIST: Pick Up The Phone da ‘Neon Golden’ (2002 – City Slang)
07. RICHARD DAWSON & CIRCLE: Lily da ‘Henki’ (2021 – Weird World)
08. FIELD MUSIC: Trouble At The Lights da ‘Commontime’ (2016 – Memphis Industries)
09. XTC: The Ballad Of Peter Pumpkinhead da ‘Nonsuch’ (1992 – Virgin)
10. REVEREND HORTON HEAT: Hate To See You Cry da ‘Whole New Life’ (2018 – Victory Records)
11. BON IVER: Perth da ‘Bon Iver, Bon Iver’ (2011 – 4AD / Jagjaguwar)
12. ANAIS MITCHELL: Flowers – Eurydice’s Song da ‘Hadestown’ (2010 – Righteous Babe Records)
13. ANI DiFRANCO: Subdivision da ‘Revelling / Reckoning’ (2001 – Righteous Babe Records)
14. JOSEPHINE FOSTER: Indian Burn da ‘Faithful Fairy Harmony’ (2018 – Fire Records)