Il ritorno di Josephine Foster mostra una voglia di cambiamento.
In“Godmother” il prewar-folk dell’artista del Colorado si tinge di elettronica naif e spettrale.
Lei è senza alcun dubbio una delle cantautrici più ispirate e originali degli ultimi anni. Con la sua chitarra, pianoforte, arpa e organo ed il suo singolare virtuosismo vocale Josephine Foster ha più volte accarezzato la sensibilità degli ascoltatori unendo musica, letteratura e poesia. Il suo linguaggio, che si destreggia abilmente tra prewar folk, cantautorato rock classico, psichedelia e armonie jazz, ogni tanto ha rischiato di diventare stucchevole o troppo purista per le sue austere elucubrazioni filosofiche, ma la perfezione degli arrangiamenti e la sua voce fuori dal tempo ci hanno consegnato negli anni un catalogo dalla qualità media impressionante.
Dopo il monumentale Faithful Fairy Harmony e un disco giunto quasi a sorpresa come No Harm Done, la cantautrice è tornata a casa tra le montagne del Colorado per offrirci un nuovo ciclo di canzoni intitolato Godmother. Ennesimo atto esplorativo, questo nuovo lavoro non smentisce la magistrale gestione della varietà stilistica da parte della Foster. Se l’avvio di “Hum Menina” sembra essere il folk ancestrale cui siamo abituati, dopo un minuto ecco apparire una via alternativa, una strada parallela fatta di synth e disturbi elettronici che accompagnerà ogni traccia dell’album. Questi suoni misticheggianti, eterei e a volte inquieti sono la strada scelta per dare corpo alla spiritualità da sempre esplorata dall’artista, questa volta portata fuori da tempo e spazio anche nei brani più distesi come “Gold Entwine” o il primo singolo estratto “Guardian Angel”. Ed è proprio all’apparire nella sequenza di “Guardian Angel” che “Godmother” mette in luce la linea sottile che ne altera il precario equilibrio tra la voce sempre eterea e la linearità delle composizioni, avvicinandosi incautamente al territorio alt-pop di John Grant. Un procedimento in qualche modo rischioso, quello di unire l’acustica neoclassica delle ballate folk psichedeliche innervate dai bassi profondi (l’ibrido di “Sparks Fly”) a questo procedimento quasi ultraterreno.
Allo smarrimento iniziale subentra il fascino trasversale dell’insolita scelta stilistica, incoraggiando l’ascoltatore a soffermarsi su più particolari, sulla corsa parallela e sull’intreccio dei due strati che compongono le canzoni, domate dal sempre straordinario virtuosismo vocale della Foster, capace di innalzare verso il cielo la splendida “Old Teardrop” che dall’incipit sembra una “quasi cover” di “Hurt” dei NIN.
Il non facile percorso ad ostacoli di Godmother assume infine una propria valenza, le moleste sonorità elettroniche sono spettrali e spirituali al pari delle ortodosse trame folk del passato, a volte mettono in crisi l’apparato strutturale delle composizioni, spossando la debole struttura country di brani come “Flask Of Wine”, senza per fortuna intaccare la fiabesca grazia delle voce nella ballata dall’ampio respiro incorporeo di “Dali Rama”.
Nuovi orizzonti, che a volte, non lo nego, risultano inquietanti, per un’artista che ha scelto di guardare oltre confine, ampliando i disturbi sottili che innestavano Faithful Fairy Harmony pur non rinnegando la sua vocazione di folk spirituale, mistico e psichedelico. In quest’ottica le pagine più riuscite sono il folk psichedelico di “Nun Of The Above”, e la profonda nemesi weird-folk di “The Sum Of Us All” dove le ipnotiche incursioni elettroniche gravano fino a renderlo un ipnotico mantra. Arrangiamenti sopraffini, la voce sempre coinvolgente sono segnali evidenti di una poetica che nonostante tutto è rimasta immutata, Godmother è un passo incerto che in ogni caso riesce ad apre nuovi orizzonti nella natura minimale della scrittura di Josephine Foster.
TRACKLIST
1. Hum Menina 3:16
2. Sparks Fly 5:22
3. Guardian Angel 5:48
4. Old Teardrop 5:00
5. Flask Of Wine 4:25
6. Gold Entwine 4:18
7. Dali Rama 5:10
8. Nun Of The Above 3:29
9. The Sum Of Us All 3:36