Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete i consueti balzi temporali per festeggiare l’inizio della nuova stagione.
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 15 stagioni. La settimana scorsa un Ivan Di Maro in gran forma ha aperto la 16° Stagione di radiorock.to. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante Play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori , Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia e delle polemiche ad ogni costo, ogni cosa sembra che venga letta dietro ad una lente distorta. Dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e passione, dove sembrano esserci solo schieramenti ciechi e cattivi, proviamo nel nostro piccolo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che vogliamo seguire.
Nel terzo viaggio della nuova stagione potrete trovare due esempi di straordinario post-punk con due gruppi essenziali come MX-80 Sound e Pere Ubu, il punk inglese di una band da riscoprire come X-Ray Spex e il divertente garage moderno dei caleidoscopici Oh!Gunquit. E ancora: il discorso prematuramente interrotto dai Minutemen e ripreso da Mike Watt e George Hurley nei fIREHOSE, il (dimenticato) funk dinamico e campionato dei Soul Coughing, il lirismo malinconico ed affascinante di Mark Eitzel da solo e con gli American Music Club,le traiettorie sghembe tra pop e psichedelia dei The Monochrome Set, il songwriting sempre mirabilmente messo a fuoco di Kristin Hersh e John Parish e quello fuori dai consueti binari di Tim Presley. La conclusione sarà dedicata a un capolavoro dei The Dream Syndicate e all’omaggio dovuto ad un grande come Mike Chapman che ci ha lasciato a settembre. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con una band di Bloomington, Indiana che sul finire degli anni ’70 si trasferisce a San Francisco venendo a contatto con un’istituzione della scena sperimentale e underground: i The Residents. Nonostante il mezzo passo falso del debutto Hard Attack (che nel 1977 aveva venduto sì e no un centinaio di copie costringendo la Island a licenziarli), i MX-80 Sound vennero accolti dalla Ralph Records di proprietà degli stessi Residents andando a formare con i signori dell’occulto, i Chrome e i Tuxedomoon il cosiddetto “quadrato di San Francisco”, formato dai quattro gruppi più importanti della scena musicale locale dell’epoca.
Bruce Anderson e i suoi compagni d’avventura licenziarono nel 1980 il secondo lavoro Out Of Tunnel che ebbe un impatto superiore all’esordio, diventando presto un disco di culto Ma già dallo sfortunato (solo commercialmente) esordio si intravedevano le coordinate del loro vorticoso art-punk graffiato da geniali intuizioni rumoriste e dalle scorribande del sassofono suonato dal secondo chitarrista Rich Stim. In “Tidal Wave” vengono fuori le influenze del gruppo (Pere Ubu su tutti), ma filtrate da una sensibilità e capacità di scrittura che la rendono una traccia inarrestabile, tumultuosa e entusiasmante. Sono stati una band importantissima per molto alternative rock e hardcore americano negli anni a venire.
E visto che li abbiamo nominati come influenza dei MX-80 Sound, andiamo a riscoprire la storia incredibile dei Pere Ubu. Nati a Cleveland in piena crisi economica, David Thomas e compagni presero il nome dalla pièce teatrale “Ubu Roi” dello scrittore francese Alfred Jarry e convertirono il gusto della satira, l’amore per il grottesco, l’anarchia e la sfrenata verbosità dell’opera in un post-punk che di fatto con le sue nevrosi urbane ed industriali andrà a creare di fatto la new wave. Chi meglio di un personaggio come David Thomas poteva portare in musica il Teatro dell’Assurdo di Jarry? Critico musicale e frontman della band proto-punk Rocket From The Tombs, amava nascondersi dietro al nome di Crocus Behemoth, prima di creare insieme al chitarrista degli stessi Tombs, Peter Laughner (morto prematuramente nel 1977 a soli 24 devastato da una pancreatite dovuta dall’abuso di alcool e stupefacenti), la sua nuova, incredibile creatura.
L’esordio della band è uno di quegli album che non deve mancare negli scaffali dei veri appassionati di musica, una vera e propria pietra miliare del rock intitolata The Modern Dance. Il disco è una perfetta sintesi delle nevrosi che permeavano nella seconda metà dei 70 una città industriale al collasso come Cleveland. Le tastiere ed i synth rivoluzionari ed astratti di Allan Ravenstine, il canto isterico di Thomas, la chitarra tagliente di Tom Herman e la sincopata e tribale sezione ritmica formata dal basso di Tony Maimone e dalla batteria di Scott Krauss, un magma ribollente di isterie ed astrattismo che sarà guida per tantissime band che esordiranno negli anni ’80. L’incipit di “Non-Alignment Pact” è un vero e proprio manifesto sonoro di una delle band più importanti della storia del rock.
Loro sono un gruppo incredibilmente divertente. Rockabilly, surf-punk, garage rock, sono gli ingredienti base di questo irresistibile quintetto che viene dall’est di Londra e che si chiama Oh! Gunquit. Il nucleo del gruppo si forma nel 2010 quando Tina Swasey (voce e tromba) e Simon Wild (chitarra e voce) diventano vicini di casa ed iniziano a condividere le serate in alcuni locali londinesi. Il gruppo prende il nome dalla città del Maine chiamata Ogunquit. Originariamente abitata dagli indiani Abenaki, e diventata una colonia di artisti negli Stati Uniti di fine ‘800.
La formazione del gruppo è il risultato di un incredibile meltin pot culturale, visto che i cinque membri hanno le origini più disparate, tra Italia, USA, Colombia, Spagna e naturalmente Gran Bretagna. L’unione dei due leaders con il sax di Chuchi Malapersona, la batteria di Alex De Renzi e il basso di Veronica Arcila, forma una miscela esplosiva che non vi farà tenere i piedi fermi per terra. Lightning Likes Me è il loro secondo album, un disco che pur non dicendo nulla di nuovo, è un’incredibile esplosione di energia, allegria, potenza e divertimento, il tutto sapientemente amalgamato con una notevole capacità di scrittura. Ascoltate “Fireballs” e lasciatevi trascinare dal coinvolgente tiro del gruppo.
Una delle storie da riscoprire della scena punk è sicuramente quella rapida ma indimenticabile chiamata X-Ray Spex. Poly Styrene (vero nome Marianne Joan Elliott-Said) mise un annuncio sul Melody Maker e sul NME nell’estate del 1976 racogliendo le adesioni del chitarrista Jak Airport (Jack Stafford), della sassofonista Lora Logic (Susan Whitby), del bassista Paul Dean e del batterista Paul ‘B.P.’ Hurding. Il suono del gruppo era fortemente segnato dalle due esponenti femminili: il cantato allucinato della Styrene ed il segno distintivo del sassofono abrasivo della Logic. “Art-I-Ficial” è la prima traccia dell’esordio Germfree Adolescents, pubblicato dalla Virgin nel 1978.
La loro straordinaria carica emotiva era diretta contro la vita moderna: lo sgolarsi di Poly Styrene ed il suo contraltare, il sax allucinato di Lora Logic, hanno contribuito a creare un universo di grande impatto, che purtroppo durò molto poco. Il gruppo si sciolse nel 1979, ma nel 1995 Lora, il bassista Dean e Poly tentarono una nuova riunificazione e produssero un secondo album, Conscious Consumer che non ebbe un grande riscontro. Poly Styrene ha pubblicato tre album solisti prima di morire dopo una lunga malattia il 25 aprile del 2011 a soli 53 anni.
Mondi che si scontrano con fragore: proto-punk, hardcore, free jazz, power pop, musica sperimentale, funk, soul, rock psichedelico e il primo trip di acidi tutto insieme. Il trio più memorabile e creativo a memoria d’uomo, quello formato dalla voce e dalla chitarra di D.Boon, dal basso rutilante di Mike Watt e dalla batteria di George Hurley prendeva il nome di Minutemen. La band ha prodotto un suono caleidoscopico e trascinante, dove la ritmica funk si sposava con il calor bianco dell’hardcore, lasciando un piccolo spazio anche per il folk, in un esplicitare i più disparati generi musicali che non risultava mai ne dispersivo ne disomogeneo.
Sono stati uno dei gruppi più innovativi del rock e chissà dove i tre ci avrebbero portati se la loro parabola non si fosse drammaticamente conclusa con la morte di Boon in un incidente con un furgoncino in Arizona il 22 dicembre 1985, a soli 27 anni. A seguito della morte di Boon, né Watt né Hurley avevano intenzione di continuare a suonare. Ma, incoraggiati da un fan del gruppo formarono i fIREHOSE nel 1986 insieme all’allora ventiduenne Ed Crawford, chitarrista e fan dei Minutemen. Ragin’, Full On è il primo album della band, dedicato (come saranno tutti gli album del trio) a D. Boon. L’approccio è simile al progetto precedente, ed il trio mantiene le stesse dinamiche di sintesi tra punk, funk e (talvolta) free jazz lasciando però più spazio allo sviluppo della forma canzone. “Locked In” mostra un trio già affiatato ed in gran forma. L’avventura fIREHOSE si concluderà nel 1995 dopo cinque lavori in studio.
Loro sono stati un quartetto intelligente, creativo e divertente, durato, purtroppo, solo il tempo di registrare tre album, che in qualche modo hanno segnato un decennio particolare come gli anni 90. I Soul Coughing nascono a New York grazie all’incontro tra il cantante e chitarrista Mike Doughty, il bassista Sebastian Steinberg, il batterista Yavul Dabay dominano il sound con le loro ritmiche e Mark Degli Antoni (collaboratore di John Zorn), pronto a rendere gli arrangiamenti mai scontati con i suoi intelligenti e calibrati campionamenti. Sono stati tra le band di culto più inusuali del decennio, grazie al flusso di coscienza del poeta M. Doughty e all’interplay dei musicisti, capaci di creare raffinate creazioni musicali che prendono il funky innestandolo di ritmiche seducenti e suggestioni jazz e hip-hop.
Dopo l’esordio stratosferico di Ruby Vroom, il compito di sugellare e confermare la bontà della loro ispirazione spetta, nel 1996, a Irresistible Bliss. “Super Bon Bon”, il singolo messo in apertura, è perfettamente rappresentativo del groove dei newyorkesi grazie ad un ritornello effervescente ed efficace, ad una ritmica coinvolgente e mai scontata, e al trascinante flusso di parole di Doughty. Due anni più tardi, El Oso chiuderà con il botto la parabola straordinaria della band.
Mark Eitzel è un autore che andrebbe riscoperto per i suoi grandi meriti di interprete e di scrittore. Le sue liriche sono sempre argute, ispirate e estremamente a fuoco. Eitzel ha fondato gli American Music Club nel 1983 a San Francisco insieme al chitarrista Scott Alexander, al batterista Greg Bonnell ed al bassista Brad Johnson. Ma la formazione della band venne stravolta prima dell’esordio del 1985 The Restless Stranger. Insieme al leader troviamo infatti la chitarra di Mark “Vudi” Pankler, il basso di Danny Pearson, le tastiere di Brad Johnson e la batteria di Matt Norelli.
Il secondo album degli American Music Club, Engine, viene pubblicato nel novembre del 1987 e mostra ancora una volta l’inquietudine del suo leader, un poeta i cui versi ci conducono in un viaggio interiore fatto di tormenti, di piccole scoperte, di letti disfatti, di grandi sconfitte e piccole vittorie. Il loro universo musicale si rispecchia in un suono che parte da una solida impostazione folk-rock che, grazie anche all’innesto del produttore Tom Mallon come secondo chitarrista, riesce ad assecondare al meglio le visioni create dal malessere esistenziale di Eitzel, sia nella ballate più psichedeliche sia nei brani più tirati come la splendida “Nightwatchman”.
E visto che ne abbiamo parlato (giustamente) in termini estremamente lusinghieri, andiamo ad occuparci della carriera solista di Mark Eitzel. Dopo l’uscita di San Francisco, che nel 1994 decretò la fine (momentanea) del progetto American Music Club, il songwriter californiano si concentrò sulla sua carriera solista. Due anni più tardi, in compagnia a San Francisco in compagnia dei fidi Bruce Kapham e Daniel Pearson e di Simon White e Mark Isham, con la supervisione di Mark Needham, Eitzel registrò quello che può essere definito come il suo esordio solista, 60 Watt Silver Lining che si rivela uno scrigno pieno di incredibili e preziose gemme.
Nell’album Eitzel da sfoggio di eleganti atmosfere, splendide melodie e pezzi estremamente trascinanti ed emozionanti. La fantastica “Sacred Heart” mostra l’inquietudine notturna di un autore straordinario. La sua ombrosità è solo nominale, in realtà è facile ritrovarsi nel mood autunnale e nei viaggi interiori del californiano. Un posto dove è bello ritornare e ritrovarsi ogni tanto.
Adesso parliamo di un gruppo che si è affacciato sulla scena alla fine degli anni ’70 e che, mea culpa, non ho passato nei miei podcast come avrebbe meritato. Sto parlando dei The Monochrome Set, band che ha ispirato moltissimi gruppi britannici (tra cui gli Smiths) e che, purtroppo, ha avuto pochissimi riscontri commerciali a fronte di una media qualitativa molto alta espressa fino allo scioglimento avvenuto nel 1986. galeotto fu l’incontro all’inizio del 1978 tra uno strano personaggio nato in India che si faceva chiamare semplicemente Bid (il suo vero nome è Ganesh Seshadri), cantante e songwriter, e il chitarrista Thomas W.B. Hardy, meglio conosciuto come Lester Square.
I due, insieme al batterista John D. Haney (ex Art Attacks) e al bassista Andy Warren (ex Adam & The Ants) trovano uno strano rifugio dalle mode imperanti in quel periodo (il passaggio tra post punk e new wave e le devisazioni industriali) in una sorta di pop sghembo che prendeva a piene mani dall’immaginario degli anni 60, impreziosendolo di influssi orientaleggianti vista l’origine del principale compositore. Lanciati da Majo Thompson, ex leader dei Red Crayola, il gruppo firma per una sussidiaria della Virgin, la Dindisc, ed incide l’album di esordio, Strange Boutique. Il disco è uno dei più originali dell’epoca, e racchiudeva le splendide intuizioni armoniche del gruppo senza le tastiere che invece troveremo negli album successivi. I testi astratti e sarcastici, le melodia raffinate che potete ascoltare nella trascinante “Espresso” non hanno (quasi inspiegabilmente) portato il successo che avrebbero sicuramente meritato.
Nonostante sia rimasta per qualche tempo lontana dalle luci dei riflettori e dal red carpet, Kristin Hersh è sempre stata un’autrice ispirata ed estremamente attiva. Nel 2013 è tornata con i suoi Throwing Muses ee ha pubblicato tre libri: un’autobiografia, un testo per bambini, e “Don’t Suck, Don’t Die: Giving Up Vic Chesnutt”, un libro che racconta la vita tormentata del compianto Vic Chesnutt, sublime songwriter e suo amico fraterno scomparso nel 2009. Proprio il “formato libro” sembrava essere diventato il preferito della prolifica songwriter in quegli anni. Nel 2016 la Hersh ha voluto fare le cose in grande, Wyatt At The Coyote Palace infatti si compone di un libro con copertina rigida composto di ben 64 pagine di storie scritte dalla songwriter, alternate ai testi delle canzoni che fanno parte dei due CD inclusi nella confezione.
La prosa della Hersh è stata ispirata dal suo figlio autistico Wyatt e dalla sua attrazione per un appartamento abbandonato abitato dai coyote che si trovava proprio accanto allo studio di registrazione di Rhode Island. L’esplorazione da parte di Wyatt di quel luogo particolare e dei suoi curiosi abitanti durante le registrazioni della madre, ha influenzato in maniera fondamentale la composizione del nuovo lavoro, andando dietro al flusso di pensieri del figlio e componendo le 24 canzoni che compongono il doppio cd in un flusso inquieto e malinconico. La Hersh ha suonato da sola tutti gli strumenti, partendo dalla semplicità della classica forma cantautorale (voce e chitarra) per costruire le sue mirabolanti variazioni in bilico tra folk, psichedelia e alt country, permettendosi di tanto in tanto dei fendenti elettrici che sarebbe interessante ascoltare con il supporto della sua vecchia bandIl percorso scelto conquista per i suoi cambi di direzione, mai troppo bruschi, che rendono deliziose alcune malinconiche ballate come “Secret Codes”.
Con ogni probabilità John Parish è più conosciuto come produttore che come autore e musicista. Tantissime e di alto livello le sue collaborazioni, da PJ Harvey a Giant Sand, da Sparklehorse a 16 Horsepower, da This is the Kit a Aldous Harding, passando per i nostri Afterhours e Cesare Basile tra i (molti) altri. Tre anni fa il musicista e produttore di Bristol ha fatto uscire uno dei suoi rari album solisti, Bird Dog Dante, pubblicato da una splendida etichetta come la Thrill Jockey. Parish suona una varietà di strumenti e raccoglie, in qualche modo, molte delle influenze raccolte dagli artisti da lui prodotti, passando dalla musica d’avanguardia al folk rock, dai passaggi da colonna sonora alla psichedelia.
Il tutto, naturalmente, filtrato dalla sua grande sensibilità di autore, che gli fa alternare con maestria, passaggi di chiaroscuro a momenti di tensione, paesaggi folk a tirate chitarristiche, il tutto accompagnato da splendidi musicisti come Jean-Marc Butty (batteria), Marta Collica (tastiere), Jeremy Hogg (chitarra) e Giorgia Poli (basso), insieme agli incantevoli cameo vocali di PJ Harvey (che rende ancora più intensa la “Sorry for Your Loss” dedicata a Mark Linkous) e Aldous Harding che con la sua voce rende ancora più eterea la splendida “Rachel” inserita in scaletta.
Il songwriter americano Tim Presley è un personaggio davvero interessante Dopo aver formato e sciolto i Darker My Love, il cantautore ha fatto parte di una delle innumerevoli line-up dei The Fall del compianto Mark E. Smith registrando con la band l’album Reformation Post TLC pubblicato nel 2007. Dopo essersi fatto conoscere dietro al moniker White Fence, con il quale ha pubblicato ben sei album, Presley arriva al debutto con il suo vero nome dando alle stampe uno splendido album intitolato The Wink pubblicato dalla Drag City. L’album è stato registrato con l’aiuto e la produzione della songwriter Cate Le Bon, sua sodale nel progetto Drinks. La sua è una psichedelia declinata in maniera inusuale e deforme interpretata con una scrittura decisa e una forte personalità.
Il disco è suonato in collaborazione con la batterista Stella Mozgawa che mette in evidenza un artista da tenere d’occhio. La sua è una scrittura sghemba, surreale, i suoi quadretti richiamano una serie di personaggi folli e geniali del pop rock psichedelico (da Kevin Ayers a Syd Barrett) con una spiccata sensibilità pop e garage. Divertente come questi pezzi apparentemente sgangherati, anticonvenzionali e arruffati riescano a formare un puzzle in realtà perfettamente compiuto, come dimostra “Long Bow”. Nel 2019 Presley ha rispolverato la vecchia sigla White Fence sfornando un album surreale (ma splendido) già dal titolo: I Have To Feed Larry’s Hawk. Un disco che rimanda alle atmosfere deformi appartenenti a personaggi del passato come Alexander “Skip” Spence.
I The Dream Syndicate sono stati una band fondamentale di quella scena californiana chiamata Paisley Underground, capace di traghettare il recupero delle radici folk e country nel maelstrom del post-punk e della psichedelia. Nel 1978 Steve Wynn e Kendra Smith si incontrano a Davis, California, trasferendosi dopo un paio di anni a San Francisco dove, grazie all’incontro con il chitarrista Karl Precoda e il batterista Dennis Duck, nel 1981 nascono i The Dream Syndicate. Un anno più tardi fanno il loro esordio discografico con un EP composto da 4 pezzi in cui affilano le loro armi fatte da un approccio più scuro e urbano rispetto alla visione più aperta di altri gruppi che facevano parte della stessa scena.
L’esordio sulla lunga distanza The Days Of Wine And Roses ed il successivo Medicine Show si dividono spesso e volentieri la palma di migliore pubblicato dal quartetto. Anche se la mia preferenza, seppur di poco, va all’esordio, disco meno levigato ma più immediato e crudo, Medicine Show è molto più curato negli arrangiamenti, frutto di 5 mesi di duro lavoro in studio. Le chitarre di Wynn e Precoda duettano aspre e abrasive, dipingendo scenari urbani drammatici, il basso, dopo l’abbandono di Kendra Smith è suonato (splendidamente) da Dave Provost si cambia rotta, e il pianoforte di Tom Zvoncheck apre nuovi orizzonti melodici alla band. A distanza di tanti anni l’ipnotico ritornello di “Bullet With My Name On It” colpisce a fondo tra Velvet Underground e Television. La band, senza dubbio tra gli immortali del rock, è tornata qualche anno fa adeguandosi ai nuovi tempi in un modo straordinario.
Un mese fa ci ha lasciato un personaggio enorme che ha attraversato senza sosta 50 anni di musica. Michael Chapman è stato un cantautore e chitarrista che è diventato un eroe di culto alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70 grazie alla sua originalissima fusione di stili jazz, rock, indiano, e ai suoi testi riflessivi e spesso scuri. Nato come chitarrista prevalentemente folk (anche se lui odiava essere definito come folk singer), Chapman ha registrato in carriera quasi 60 album, ritrovando alla fine degli anni ’90 una ritrovata popolarità grazie al supporto di musicisti come Will Oldham e Thurston Moore dei Sonic Youth, da sempre suo grande fan.
Con il suo suono distintivo, ha avuto il merito di sperimentare, passando dal folk alla musica roots, dall’acustica al noise, senza dimenticare la musica strumentale. Il tutto filtrato dalle sue grandi abilità di chitarrista. Il podcast si chiude con un brano tratto da Polar Bear, uscito nel 2014 quando Chapman aveva 74 anni, terzo album di una serie dedicata all’improvvisazione. Serie iniziata nel 2011 con The Resurrection and Revenge of The Clayton Peacock e proseguita con Pachiderm un anno più tardi. Questi album toccavano corde quasi inedite per il chitarrista come il minimalismo e la musica ambient. L’album vede Chapman sperimentare con Thurston Moore, e continuare senza sosta le sue sperimentali avventure in musica, come possiamo ascoltare nella splendida Black Dirt On A Hot Day che chiude il podcast, suonata con l’ausilio della Upstate Dirt Black Band, formata da un altro grande chitarrista come Steve Gunn, Marc Orleans alla steel guitar, Jimmy Sei Tan (dei Rhyton) al basso e Nathan Bowles dietro ai tamburi.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves potrete trovare la nascita della psichedelia dei 13th Floor Elevators nei ’60 e lo sviluppo del suono lisergico con i The Flaming Lips due decadi più avanti, il blues seducente ed autentico dei 15-60-75 The Numbers, la meraviglia dei racconti crudi su New York di uno splendido Lou Reed, il punk blues satanico e voodoo dei californiani The Gun Club, la grande conferma dei Low come una delle band più importanti degli ultimi 30 anni, un David Callahan di annata con il post-rock dei Moonshake e con le sferzate impegnate socialmente dei Wolfhounds. E ancora troverete due cantautori di enorme sensibilità e fragilità come Elliott Smith e Mark Linkous aka Sparklehorse, l’Irlanda dei Chieftains (ricordando Paddy Moloney) da soli e con Van Morrison ed un gran finale onirico con le meraviglie ed i silenzi di Hood e Mark Hollis. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. MX-80 SOUND: Tidal Wave da ‘Hard Attack’ (1977 – Island Records)
02. PERE UBU: Non-Alignment Pact da ‘The Modern Dance’ (1978 – Blank Records)
03. OH! GUNQUIT: Fireballs da ‘Lightning Likes Me’ (2017 – Decapitator Records)
04. X-RAY SPEX: Art-I-Ficial da ‘Germfree Adolescents’ (1978 – EMI)
05. fIREHOSE: Locked In da ‘Ragin’, Full-On’ (1986 – SST Records)
06. SOUL COUGHING: Super Bon Bon da ‘Irresistible Bliss’ (1996 – Slash)
07. AMERICAN MUSIC CLUB: Nightwatchman da ‘Engine’ (1987 – Zippo Records)
08. MARK EITZEL: Sacred Heart da ‘60 Watt Silver Lining’ (1996 – Virgin)
09. THE MONOCHROME SET: Espresso da ‘Strange Boutique’ (1980 – Dindisc)
10. KRISTIN HERSH: Secret Codes da ‘Wyatt At The Coyote Palace’ (2016 – Omnibus Press)
11. JOHN PARISH: Rachel da ‘Bird Dog Dante’ (2018 – Thrill Jockey)
12. TIM PRESLEY: Long Bow da ‘The Wink’ (2016 – Drag City)
13. THE DREAM SYNDICATE: Bullet With My Name On It da ‘Medicine Show’ (1984 – A&M Records)
14. MICHAEL CHAPMAN: Black Dirt On A Hot Day da ‘The Polar Bear’ (2014 – Blast First Petite)