Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete i consueti balzi temporali per festeggiare l’inizio della nuova stagione.
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 15 stagioni. La settimana scorsa un Ivan Di Maro in gran forma ha aperto la 16° Stagione di radiorock.to. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante Play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori , Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia e delle polemiche ad ogni costo, ogni cosa sembra che venga letta dietro ad una lente distorta. Dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e passione, dove sembrano esserci solo schieramenti ciechi e cattivi, proviamo nel nostro piccolo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che vogliamo seguire.
Nel secondo viaggio della nuova stagione troverete le solite traiettorie sghembe, a partire dal trentennale (!) di quel ponte tra rock psichedelico, soul e dancefloor dei Primal Scream chiamato Screamadelica, e di una pietra miliare dell’hip-hop come The Low End Theory degli A Tribe Called Quest. Ma c’è spazio anche per le destrutturazioni geniali dei Dead Rider, del post rock britannico (era Too Pure) dei Long Fin Killie, della psichedelia australiana di fine ’80 di The Moffs e The Church, della bolla temporale rimasta agli anni ’50 in cui vivono meravigliosi revisionisti come Wayne Hancock e C.W. Stoneking, della magia onirica degli Oiseaux-Tempête e del caos melodico organizzato dei People. Il grande finale è dedicato al prolungamento delle meraviglie dei Talk Talk con gli ‘O’ Rang della sezione ritmica Lee Harris/Paul Webb, agli splendidi ed evocativi suoni dello stesso Webb nascosto dietro al nome di Rustin Man, ai meravigliosi mutaforma The Heliocentrics e alla stagione della etichetta Kranky inaugurata dai paesaggi malinconici dei Labradford. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Questa è la storia di due mondi teoricamente inconciliabili che si scontrano: il rock alternativo da una parte e il dancefloor dall’altra. La collisione è avvenuta esattamente trent’anni fa ed è stata davvero spettacolare, come nei migliori film catastrofici. Stavolta il “colpevole” non è stato un asteroide brutto e cattivo che ha lasciato devastazioni imponenti sul nostro pianeta, ma uno degli album più influenti degli anni ’90: Screamadelica, inciso dai Primal Scream con l’aiuto fondamentale di un “veterano” della scena dance come Andrew Weatherall. Evidentemente Bobby Gillespie non voleva essere ricordato solo come il batterista dei Jesus & Mary Chain in uno dei dischi più influenti usciti negli anni ’80, quello Psychocandy che nel 1985 diede una sferzata clamorosa al pop-rock britannico con il suo far condividere melodie e muri di feedback.
In Screamadelica, che, come la Settimana Enigmistica, vanterà negli anni innumerevoli tentativi di imitazione, c’è un appiccicoso miscuglio tra approcci dub, trance psichedelica ed euforia house. Iconico sin dalla colorata copertina, il disco è una vera esplosione vera di suoni e colori, capace di reinventare di fatto la band di Gillespie ponendola di diritto tra i gruppi più importanti degli anni ’90. La psichedelia che si diverte a far ballare, lo studio di registrazione usato come strumento vero e propria, un’orgia di suoni e di suggestioni che si para davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie come non fosse passato nemmeno un minuto da quel giorno del 1991. Ascoltate “Loaded”: Weatherall mette subito in chiaro le cose con un estratto della voce di Peter Fonda dal film “I Selvaggi”, prima di prendere le linee di basso e pianoforte da “I’m Losing More Than I’ll Ever Have” tratto dal disco precedente degli scozzesi e trascenderlo in un brano appiccicoso e sensuale che potrebbe durare ore senza annoiare. Questo è molto altro è stato Screamadelica, un flusso sonoro cui abbandonarsi con gioia.
Teoricamente “not my cup of tea” ma… In quei puntini di sospensione c’è un mondo, anzi, il microcosmo creato da Q-Tip (Kamaal Ibn John Fareed) e Phife Dawg (Malik Izaak Taylor), due appassionati di musica del Queens, New York cui si aggiunsero Ali Shaheed Muhammad e Jarobi White. Il loro compito era quello di traghettare l’hip-hop in qualcosa di diverso, che non tradisse le origini ma che allo stesso tempo potesse muoversi verso il jazz. Nel 1991, lo stesso anno di Screamadelica, gli A Tribe Called Quest erano ridotti a trio dopo che White aveva lasciato la band amichevolmente, ma questo non gli ha impedito di dare alle stampe il loro capolavoro assoluto: The Low End Theory.
Il disco è una pietra miliare dell’hip-hop, i campionamenti diventano sempre più vari, il flow delle voci di Q-Tip e Phife si fa sempre più dinamico e i sample prendono a piene mani dal gotha della soul music e del jazz. Lo stesso jazz e l’hip-hop non sono mai andati così meravigliosamente a braccetto, in uno scorrere fluido che ha incontrato il parere entusiasta di pubblico e addetti ai lavori. “Check The Rhime” è solo uno degli episodi di un disco consegnato alla storia.
Uno dei due chitarristi degli U.S. Maple (autori di 5 pregevoli album dal 1995 al 2003 e perfetta incarnazione di quel fenomeno che andava sotto il nome di “Now Wave”), Todd Rittmann, nel 2009 ha creato i Dead Rider, un nuovo progetto con cui portare a compimento la sua missione di scomporre e ricomporre vari generi musicali. Rittmann con i suoi nuovi compagni di avventura: Matthew Espy, batteria, Andrea Faugh, tromba e tastiere, e Thymme Jones, elettronica, tastiere, fiati e batteria (questi ultimi due anche nei Cheer-Accident) aveva già convinto tre anni fa con un album intitolato Chills On Glass, che aveva incantato per il gioco degli incastri, e per l’abilità di Rittmann e compagni di creare un’equilibrata alchimia tra ingredienti apparentemente molto diversi.
A tre anni di distanza la band ci riprova, cambiando riferimenti stilistici ma facendo di nuovo centro. Con Crew Licks l’obiettivo del restauro diventa la black music, e il dipanarsi delle nove tracce diventa presto come il gioco della pentolaccia, con i quattro che mettono nella famosa pignatta di terracotta soul, funk, psichedelia anni’70, e poi a turno la colpiscono con violente mazzate. Per il podcast ho preso ad esempio la scura “The Cruise”, forse la traccia che ci ricorda più da vicino il disco precedente, con i ritmi black che sanno flirtare senza pudore con la dark wave.
Simon Reynolds, sulle pagine del prestigioso The Wire, per spiegare il suo neologismo “post rock“, partiva dalle formazioni provenienti dalla Gran Bretagna, e da quello che è stato il suono dell’etichetta di riferimento, ovverosia la Too Pure. L’etichetta era stata fondata a Londra nel 1990 da Richard Roberts e Paul Cox, ed era salita improvvisamente alla ribalta grazie alla pubblicazione di Dry, l’album di esordio di PJ Harvey. Grazie al successo del disco, la label londinese era diventata in breve tempo il punto di riferimento per gli ascoltatori e gli addetti ai lavori meno allineati e usuali. Le band che incidevano per l’etichetta da una parte non si somigliavano affatto, ma dall’altra erano pervase dalla stessa comune voglia di sperimentare, rifacendosi a band come Pop Group o Rip Rig + Panic, ripercorrendo le strade del krautrock, usando lo studio di registrazione come nuovo strumento e delegittimando di fatto il simbolo principe del rock: la chitarra.
In questo filone si inseriscono perfettamente gli scozzesi Long Fin Killie. La band (che prendeva il nome a una famiglia di pesci d’acqua dolce ornamentali noti come killifishes, noti per la loro interessante sopravvivenza alla siccità e le curiose abitudini riproduttive) è stata formata dal polistrumentista Luke Sutherland dopo lo scioglimento dei Fenn, gruppo abbastanza noto nella zona di Glasgow per aver aperto concerti di Ride e Catherine Wheel. Insieme al leader c’erano Colin Greig al basso, David Turner alla batteria ed il chitarrista Philip Cameron. Il loro suono trasfigurava il folk classico (il leader suona mandolino e bouzouki) mischiandolo con jazz, dub e rock e dando vita ad un elettrizzante ibrido. L’incalzante “Matador”, tratta dal loro secondo album intitolato Valentino, ci fa tornare a quell’eccitante periodo della musica britannica.
L’Australia è spesso considerata (a torto e superficialmente) estranea alle grandi direttrici del rock. Così come i The Saints furono uno dei primi (grandi) gruppi punk, così all’inizio degli anni 80 una nuova generazione di musicisti creò un linguaggio che prendeva a piene mani dall’immaginario lisergico degli anni 60 attualizzandolo con la new wave ed una spruzzata di progressive. Una delle band da ricordare di quel periodo così fecondo si formò dall’incontro al liceo tra il chitarrista e cantante di origine greca Tom Kazas e il bassista David ‘Smiley’ Byrnes. Entrambi vivevano a Maroubra, periferia balneare di Sidney. i due amavano fare cover di Yardbirds, Hendrix o dei primi Pink Floyd, ma la decisione di mettere su una band vera e propria arrivò prima con l’arrivo del tastierista e armonicista Nick Potts, poi con l’incontro con il più esperto batterista Alan Hislop.
Come nome i quattro scelsero The Moffs (storpiatura di moths, falene), prima di intraprendere una lunga serie di concerti e una prima volta in studio che fece drizzare le antenne dell’etichetta Citadel, che aveva già sotto contratto molte di quelle straordinarie band dell’epoca come Died Pretty, Sacred Cowboys, Lime Spiders, New Christs, The Stems e molti altri. Ma il successo tarda ad arrivare, Potts e Hislop se ne vanno, sostituiti da Andrew Byrnes (fratello minore di David, e Damon Giles. Un altro singolo e anche Giles sbatte la porta, ma il sostituto, Scott Barnes, ha entusiasmo da vendere ed il risultato è lo splendido Labyrinth che, paradossalmente, sarà anche il loro canto del cigno. La loro musica che mescolava riflussi acidi a meraviglie folk con riflessi ipnotici e melodici è da ripescare con entusiasmo, la “Touch The Ground” inserita in scaletta è l’apertura di quel loro unico, imperdibile gioiello.
E se siamo in pochi a ricordaci dei Moffs e di molti altri gruppi di quello splendido periodo australiano, sono sicuro che molti ricordano un gruppo coevo, nato a Sydney agli albori degli anni 80: The Church, Il loro suono era tanto lisergico quanto etereo, pervaso da un grande istinto melodico e da un’atmosfera spesso decadente. Il bassista, cantante e autore Steve Kilbey incontra il suo vecchio amico e chitarrista Peter Koppes ed insieme al batterista Nick Ward forma nel 1980 il primo nucleo della band. Un mese più tardi un secondo chitarrista, Marty Willson-Piper inglese di Liverpool (una città, una garanzia) si aggiunge al trio formando la prima e (quasi) stabile formazione. Dopo un primo, poco fortunato, album, Ward lascia la band sostituito da Richard Ploog.
Altri due lavori, Seance e Remote Luxury, senza troppa fortuna prima di registrare l’ottimo Heyday, in cui la band finalmente trova, insieme al navigato produttore Peter Walsh, la perfetta miscela del proprio atmosferico pop psichedelico. Un anno dopo, stufi del mancato successo nelle loro terre, la band si trasferisce armi e bagagli negli States, ospiti del noto produttore e turnista Waddy Wachtel per registrare Starfish, che resta il loro più grande successo commerciale. Aiutati da altri splendidi turnisti come Russ Kunkel e David Lindley, il disco offre la sfaccettatura più pop del gruppo, azzeccando la melodia straordinaria e senza tempo di “Under The Milky Way” che ho voluto riprodurre all’interno del podcast.
Lui è un personaggio che sembra essere rimasto incastrato in un particolare microcosmo temporale. Wayne “The Train” Hancock è così: prendere o lasciare. Un artista che si è volontariamente voluto fermare sul pianerottolo del rockabilly a metà degli anni ’50, poco prima che l’ultima rampa di scale lo portasse a travestirsi da rock’n’roll per andare a conquistare il mondo. Hank Williams III ha detto di lui: “L’unico altro uomo al mondo che ha dentro più Hank Williams di me è Wayne ‘The Train’ Hancock. Pochissimi artisti possono definirsi veri puristi, ma Wayne lo è senza ombra di dubbio.” Questo per farvi capire la caratura dell’artista e il mondo in cui si muove con estrema naturalezza.
Dal 1995, Hancock cammina instancabile con la chitarra a tracolla all’interno del suo piccolo-grande universo, percorrendo le mille strade blu della tradizione americana e rivisitando country, rockabilly, honky-tonk, western swing, hillbilly boogie con passione ed abilità, sfornando dischi di semplici canzoni scritte ed eseguite con passione, sangue, sudore, illuminate dalle luci al neon. I suoi vecchi stivali polverosi non vengono intaccati dalle mode, lui se ne infischia di tutto e di tutti, non ci sono messaggi profondi, non c’è ricerca intellettuale, ci sono solo le piccole-grandi storie quotidiane della gente comune. Il suo album del 2013 si intitolava Ride, un album on the road che ci scaraventa di peso a ritroso nel tempo. E se non ci credete, ascoltate senza indugi lo splendido blues country di “Get The Blues Low Down”.
A proposito di musicisti fuori dal tempo, andiamo fino in Australia per andarne a trovare un altro. C.W. (Christopher William) Stoneking, figlio d’arte (il padre è stato poeta e regista), prende dall’illustre genitore la passione per l’arte declinandola alla musica. Ama passare dalla chitarra al banjo e suonare qualsiasi cosa che passi dal blues al prewar folk, senza disdegnare variazioni calipso e piccole deviazioni verso New Orleans. Il tutto accompagnato da una piccola sezione fiati chiamata Primitive Horn Orchestra.
Dopo aver esordito in maniera stupefacente nel 2006 con King Hokum, il nostro raddoppia due anni più tardi dando alle stampe il più maturo Jungle Blues, album che sin dalla copertina ci scaraventa di nuovo indietro nel tempo, addirittura con il finto fruscio dei vecchi 78 giri in sottofondo. Un mondo virato seppia, impolverato, talmente ben fatto da risultare straordinariamente credibile. Un disco che sembra essere una ristampa, scovato chissà dove nel passato, e che invece è godibile, appassionante, tra folk, blues e calypso come nella splendida melodia di “The Love Me Or Die”.
Gruppo assai intrigante quello dei francesi Oiseaux-Tempête. Frédéric Oberland (chitarra e piano) e Stéphane Pigneul (basso e synth) facevano parte dei Farewell Poetry prima di creare questo che, da side project, è diventato il loro progetto principale. Coadiuvati dalla batteria di Ben Mc Connell (Beach House, Rain Machine, Marissa Nadler) e dal clarinetto basso di Gareth Davis, giungono nel 2015 a pubblicare il loro secondo album intitolato ÜTOPIYA?. Il disco è la seconda parte di una trilogia che è una sorta di viaggio nelle tradizioni dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo. Qui, in particolare, il racconto di incentra su Turchia e Sicilia, riempiendo le quattro facciate del disco con un post-rock malinconico, raffinato ed elegante.
Il disco è quasi interamente strumentale, se si esclude proprio la “Ütopiya / On Living” inserita in scaletta, condotta magistralmente dalla voce di G.W. Sok (The Ex). Nel viaggio da Istanbul alla Sicilia, il quartetto dispiega magistralmente tutto il proprio arsenale, tra psichedelia liquida e accenni di krautrock, evocando ora i Bark Psychosis, ora i GY!BE, (senza l’ausilio delle chitarre). Una navigazione visionaria ed affascinante. La trilogia del Mediterraneo si chiuderà due anni più tardi quando gli Oiseaux-Tempête approderanno a Beirut con l’altrettanto splendido AL-‘AN!.
Che batterista Kevin Shea! Polipo di estrazione jazzistica, è uno dei musicisti più conosciuti ed apprezzati nella scena sperimentale e di improvvisazione musicale di New York City. Shea ha prestato le sue mani tentacolari e i suoi poliritmi ad alcune delle più interessanti mutazioni jazz e rock degli ultimi anni come gli Storm & Stress con Ian Williams dei Don Caballero, i Talibam! insieme a Matt Mottel, Puttin On The Ritz, Mostly Other People Do The Killing e molti altri musicisti. Nel 2005 Shea ha creato il progetto People con Mary Halvorson, straordinaria chitarrista che vanta numerose collaborazioni tra avanguardia e jazz con artisti del calibro di Anthony Braxton, Trevor Dunn, Marc Ribot, Susan Alcorn, Yo La Tengo, Tomas Fujiwara, e Michael Formanek.
Il loro terzo lavoro insieme è arrivato nel 2014 a sette anni di distanza dal precedente, si intitola 3x a Woman – The Misplaced Files e vede il duo ampliato a trio grazie all’ingresso del bassista Kyle Forester. In realtà, grazie anche alla presenza di una piccola sezione di fiati composta da Peter Evans (tromba), Sam Kulik (trombone) e Dan Peck (tuba), il gruppo agisce come una piccola orchestra miscelando jazz e improvvisazione in modo intelligente, una sorta di crossover mutante dove l’improvvisazione si fonde con la forma canzone, dando vita ad una musica sempre in cambiamento ma stranamente orecchiabile, come dimostra la splendida “A Song With Melody And Harmony And Words And Rhythm” inserita in scaletta.
La prima volta che ho sentito parlare di Rustin Man è stato nel 2002, quando uscì quella meraviglia chiamata Out Of Season firmata insieme alla cantante dei Portishead, Beth Gibbons. All’epoca ero in fissa con la band di Bristol e pronto ad accaparrarmi qualsiasi cosa che aveva la collaborazione di uno dei componenti del gruppo. Solo più tardi mi ero accorto che, nascosto dietro quello pseudonimo, si nascondeva il bassista di un’altra delle band che più mi aveva fatto battere il cuore: i Talk Talk. E poco importava che Paul Webb non aveva partecipato alla registrazione di Laughing Stock, canto del cigno della creatura di Mark Hollis. Webb, insieme al compagno di sezione ritmica Lee Harris, aveva già dato prova di grandi abilità compositive, non troppo dissimili da quelle di Hollis e compagni, come dimostra il disco con Beth Gibbons.
A sorpresa, diciassette anni dopo l’uscita di Out Of Season, Webb ha rispolverato il moniker di Rustin Man dando alle stampe uno splendido lavoro intitolato Drift Code, album in cui si ritrova, in qualche modo, quella cifra stilistica unica che ci ha fatto amare così tanto i Talk Talk. Nel suo studio privato nella campagna dell’Essex, Webb insieme ad altri musicisti, tra cui spicca di nuovo il fido Lee Harris, ha dipinto un universo malinconico incentrato sullo scorrere implacabile del tempo, nove emozionanti tracce che nella loro profondità, non possono lasciarci indifferenti. “The World’s In Town” è una ballata delicata e suadente, che ci fa entrare, in punta di piedi, nel delicato mondo del suo autore, capace di confermarsi anche lo scorso anno con l’altrettanto evocativo Clockdust.
Abbiamo parlato qui sopra degli ultimi anni dei Talk Talk e di come la visione sempre più eterea di Mark Hollis avesse portato la band a fare a meno nell’ultimo capitolo laughing Stock del proprio bassista paul Webb. Ma il legame di Webb con il batterista della band Lee Harris risaliva fin dai tempi dell’università, e con lui Webb, parallelamente agli ultimi respiri dei Talk Talk, fondò il collettivo .O.Rang, band che sviluppava l’ultimo percorso musicale della loro ex band aggiungendo innesti tribali a base di world music e improvvisazione. I due musicisti, lontani dalla leadership di Hollis, sono riusciti a creare una propria visione sonora, prendendo a piene mani dalle loro influenze più etniche.
L’album di esordio si intitola Herd Of Instinct, e vede, insieme ai due, l’apporto di moltissimi collaboratori provenienti dalle più diverse estrazioni musicali: Graham Sutton (Bark Psychosis e Boymerang), Beth Gibbons (Portishead), Mark Feltham (Talk Talk), Matt Johnson (aka The The) e molti altri. Un apporto enorme e disparato di varie influenze, con percussioni, archi e fiati a scolpire il suono e a renderlo sempre più tribale e ossessivo. Uno splendido affresco sonoro che possiamo ascoltare nella trascinante danza di “Mind On Pleasure” con la voce dell’ospite Noreen Deen. Due anni più tardi Fields And Waves ne approfondirà le velleità elettroniche e sperimentali, senza però colpire a fondo come il predecessore. Il disco sarà anche l’ultimo di un collettivo che è rimasto un vero e proprio oggetto di culto.
È sempre un viaggio emozionante quello del collettivo The Heliocentrics guidato dal batterista Malcom Catto. Il combo britannico continua nel loro percorso evolutivo, un flusso estatico, ipnotico, che l’ha portato ad unire in uno straordinario melting pot jazz, psichedelia, funk, afro, dub e musica etnica. Nel loro lavoro in studio del 2017, A World Of Masks, gli innesti del violino di Raven Bush, di una nuova sezione addizionale di fiati, e soprattutto della voce della cantante d’origine slovacca Barbora Patkova, hanno dato un’ulteriore poderosa spinta al suono del gruppo.
La voce della Patkova diventa un nuovo strumento e una nuova base su cui il collettivo può costruire le proprie uniche e caleidoscopiche alchimie sonore, sempre più multiformi, in un groove trascendente che riesce incredibilmente ad abbracciare tutte le possibili latitudini, come dimostra la stratosferica title track. I due album pubblicati nel corso del 2020, Infinity Of Now e Telemetric Sounds, pubblicati dall’etichetta di Madlib, hanno confermato l’enorme statura del collettivo britannico.
Un duo di Richmond composto da Carter Brown (tastiere) e Mark Nelson (chitarre, nastri e voce) chiamato Labradford ha inaugurato nel 1993 con un album meraviglioso come Prazision LP la stagione della Kranky, etichetta di culto e riferimento del genere tra elettronica e post-rock. C’è molto nei gruppi della Kranky dell’estetica post-rock codificata da Simon Reynolds e di cui abbiamo parlato più di una volta su queste pagine: il recupero del krautrock tedesco, del folk britannico, della psichedelia più chitarristica, dell’elettroacustica, e, più di tutto, dell’elettronica analogica e del minimalismo.
I droni elettronici di Brown e Nelson sono lenti ma inesorabili, le chitarre spesso mandate in loop, i riferimenti ai Tangerine Dream molto chiari, con pochissimo rumorismo e molto ambient. Uno dei brani capaci di sublimare la loro trance sonora è senza dubbio l’onirica e scura “Splash Down” che chiude questo podcast come meglio non si potrebbe. Mark Nelson abbandonerà il progetto Labradford nel 2000 proseguendo però fino ai giorni nostri la strada inaugurata nel 1998 sotto il nome di Pan•American.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves potrete trovare due esempi di straordinario post-punk con due gruppi essenziali come MX-80 Sound e Pere Ubu, il punk inglese di una band da riscoprire come X-Ray Spex e il divertente garage moderno dei caleidoscopici Oh!Gunquit. E ancora: il discorso prematuramente interrotto dai Minutemen e ripreso da Mike Watt e George Hurley nei fIREHOSE, il (dimenticato) funk dinamico e campionato dei Soul Coughing, il lirismo malinconico ed affascinante di Mark Eitzel da solo e con gli American Music Club,le traiettorie sghembe tra pop e psichedelia dei The Monochrome Set, il songwriting sempre mirabilmente messo a fuoco di Kristin Hersh e John Parish e quello fuori dai consueti binari di Tim Presley. La conclusione sarà dedicata a un capolavoro dei The Dream Syndicate e all’omaggio dovuto ad un grande come Mike Chapman che ci ha lasciato a settembre. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. PRIMAL SCREAM: Loaded da ‘Screamadelica’ (1991 –
Creation Records)
02. A TRIBE CALLED QUEST: Check The Rhime da ‘The Low End Theory’ (1991 – Jive)
03. DEAD RIDER: Too Cruise da ‘Crew Licks’ (2017 – Drag City)
04. LONG FIN KILLIE: Matador da ‘Valentino’ (1996 – Too Pure)
05. THE MOFFS: Touch The Ground da ‘Labyrinth’ (1988 – Citadel)
06. THE CHURCH: Under The Milky Way da ‘Starfish’ (1988 – Arista)
07. WAYNE HANCOCK: Get The Blues Low Down da ‘Ride’ (2021 – Bloodshot Records)
08. C.W. STONEKING: The Love Me Or Die da ‘Jungle Blues’ (2010 – King Hokum Records)
09. OISEAUX-TEMPÊTE: Ütopiya / On Living da ‘Ütopiya?’ (2015 – Sub Rosa)
10. PEOPLE: A Song With Melody And Harmony And Words And Rhythm da ‘3 X A Woman: The Misplaced Files’ (2014 – Telegraph Harp)
11. RUSTIN MAN: The World’s In Town da ‘Drift Code’ (2019 – Domino)
12. ‘O’RANG: Mind On Pleasure da ‘Herd Of Instinct’ (1994 – Echo)
13. THE HELIOCENTRICS: A World Of Masks da ‘A World Of Masks’ (2017 – Soundway)
14. LABRADFORD: Splash Down da ‘Prazision LP’ (1993 – Kranky)