Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete i consueti balzi temporali per festeggiare l’inizio della nuova stagione.
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 15 stagioni. La settimana scorsa un Ivan Di Maro in gran forma ha aperto la 16° Stagione di radiorock.to. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante Play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori , Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia e delle polemiche ad ogni costo, ogni cosa sembra che venga letta dietro ad una lente distorta. Dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e passione, dove sembrano esserci solo schieramenti ciechi e cattivi, proviamo nel nostro piccolo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che vogliamo seguire.
Il primo viaggio della nuova stagione dura quasi 80 minuti ed inizia con un commosso ricordo di un artista straordinario come Charlie Watts, che trovate in una delle sue straordinarie performance con i Rolling Stones. Inoltre potete trovare la meraviglia senza tempo di Ry Cooder, il post-punk britannico di due band con diversi punti di interesse come Squid e Dry Cleaning, il post-rock epico e scuro dei GY!BE e quello storico dei Karate, le magie improvvisative dei Can dal vivo, l’ennesimo esempio dell’incredibile livello qualitativo della carriera dei R.E.M., la follia sghemba del bardo Richard Dawson, il suono di Canterbury attualizzato dagli Ultramarine, il “pop” di gran classe e le melodie solo apparentemente semplici di Todd Rundgren e degli Steely Dan, il cuore e la leggenda Sarah Records portata avanti dai Trembling Blue Stars e l’ultimo atto di una parabola straordinaria e unica che ha portato i Talk Talk da bruco a farfalla. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Seguite il nostro hashtag: #everydaypodcast
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.

“Quasi tutti i batteristi scandiscono il tempo sul charleston, ma sulla seconda e la quarta battuta, e cioè sul back-beat, componente fondamentale del rock’n’roll. Charlie, anziché battere il colpo, solleva il piatto superiore. Finge di suonare e si ritrae. Affida tutto il suono al rullante invece di lasciare un’interferenza in sottofondo. A guardarlo puoi rischiare un’aritmia cardiaca. In quelle due battute si concede un altro gesto del tutto inutile, e in questo modo tira indietro il tempo, perché è costretto a fare uno sforzo in più. Così, la sensazione di languore generata dalle percussioni di Charlie è in parte dovuta a quel gesto gratuito che ricorre ogni due battute. E’ molto difficile da imitare – interrompere il flusso per una sola battuta e poi reinserirsi. E ha qualcosa a che vedere con la conformazione articolare di Charlie, con il punto esatto in cui percepisce il tempo. L’impronta di ogni batterista è data dallo scarto tra charleston e rullante. Charlie è molto in ritardo sul primo e in anticipo sul secondo. E il modo in cui allunga ogni misura, combinato con ciò che noi vi costruiamo sopra, è il segreto del sound degli Stones. Charlie è essenzialmente un batterista jazz, e questo, in un certo senso, fa di noi una jazz band.” Keith Richards
Credo non ci sia altro da dire sul batterista di uno dei gruppi più importanti della storia, un batterista unico per stile, che dimostra quanto, a volte, non ci sia bisogno di dimenarsi come un forsennato sui tom per poter creare inimitabili pattern ritmici e per essere parte integrante e fondamentale di una band leggendaria come The Rolling Stones. “Rip This Joint”, tratto da un album fantastico come Exile On Main St., è la dimostrazione di quanto mancherà all’universo della musica un uomo ed un musicista incredibile come Charlie Watts.

Un’altro musicista leggendario come Ry Cooder, è riuscito incredibilmente, pochi anni fa, a sorprenderci ancora pur essendo in attività da quasi 10 lustri. Partendo da un amore infinito per la tradizione folk, il chitarrista californiano ha deviato la sua traiettoria più volte, riuscendo a scrivere colonne sonore magistrali come Paris, Texas o sbancando i botteghini creando quasi dal nulla il fenomeno Buena Vista Social Club. Ma Cooder è un musicista che non deve dimostrare più niente a nessuno, ed eccolo tornare nel 2018 a sette anni di distanza dallo splendido Pull Up Some Dust And Sit Down con un album che attinge a piene mani dal repertorio della musica con cui è nato.
The Prodigal Son è un esemplare ed emozionante compendio di musiche folk, gospel e blues prese in prestito, impreziosito da alcune nuove canzoni scritte per l’occasione che non sfigurano affatto accanto ad autentici capolavori della musica tradizionale americana: una tra tutte “Nobody’s Fault But Mine” di Blind Willie Johnson. Un ritorno al passato guardando al futuro, un disco magistrale. Se volete ascoltare la differenza tra un artista che suona folk blues ed uno che con quella musica nel sangue c’è nato, mettete semplicemente la puntina sui solchi di questo meraviglioso album e lasciatevi travolgere dalle emozioni di canzoni meravigliose come la “Harbor Of Love” inserita in scaletta, originariamente scritta nel 1954 dall’artista bluegrass Carter Stanley e pubblicata a nome The Stanley Brothers And The Clinch Mountain Boys.

Cosa si può dire degli R.E.M. che non sia già stato detto? Una carriera trentennale, quindici album in studio, tutti, nessuno escluso (anche se gli ultimi due nella fase di minore ispirazione), di grande coerenza ed onestà artistica. Michael Stipe e compagni hanno portato con classe, sensibilità ed enorme capacità di scrittura, l’indie rock nel mainstream, vendendo quasi 90 milioni di dischi. New Adventures In Hi-Fi è il loro decimo album in studio, l’ultimo registrato dal batterista Bill Berry dopo l’aneurisma che lo aveva colpito due anni prima durante un concerto a Losanna. L’album viene registrato in un momento delicato per le sorti della band. Anche se, fortunatamente, Berry non ha conseguenze permanenti dopo l’operazione al cervello, nello stesso periodo anche Mike Mills e Michael Stipe devono fare i conti con problemi di salute che sembrano aver preso di mira la band di Athens.
Non bastasse, a complicare ulteriormente la situazione, giunge l’inaspettata rottura con il loro manager storico Jefferson Holt. Il disco è una sorta di rinascita, concepito on the road e registrato su un otto piste tra un soundcheck e l’altro. Ed è il viaggio il filo conduttore che lega le 14 tracce dell’album, dalla copertina (una foto in bianco e nero scattata da Stipe dal finestrino del tour bus), alla composizione che è capace di spaziare tra le molte anime della musica popolare americana. Dall’ossessiva sirena della lunga e potente “Leave” alla “E-Bow The Letter” registrata insieme a Patti Smith, da sempre musa di Stipe. La mia scelta alla fine è caduta sulla trascinante “So Fast, So Numb”, brano in cui Stipe avverte qualcuno di non rischiare di bruciarsi. Pochi come loro sono riusciti a fare il salto tra il mondo indie e quello mainstream senza perdere un briciolo della loro integrità artistica e della loro qualità compositiva.

Questa nuova ondata di post-punk proveniente dalla Gran Bretagna sta raccogliendo allo stesso tempo consensi e critiche. Tre gruppi sembrano essere sotto l’occhio del ciclone per la loro proposta complessa e strutturata: Black Midi, Black Country New Road e Squid. Se per i primi la forma e la tecnica sembrano aver (purtroppo) sovrastato la parte emozionale, per Black Country, New Road e soprattutto Squid le cose sembrano essere diverse. Il quintetto capitanato dal batterista-cantante Ollie Judge nasce a Brighton nel 2017 ed il loro suono prende forma dall’amore per gruppi non certo convenzionali come This Heat, Talking Heads e Wire. Dopo alcuni singoli ed un EP usciti per la piccola etichetta Speedy Wunderground, è la Warp ad interessarsi a loro e a metterli sotto contratto.
Il gruppo si trasferisce a Londra e fa uscire 5 interessantissimi singoli che acuiscono l’interesse degli addetti ai lavori, prima di pubblicare nel maggio 2021 l’attesissimo esordio Bright Green Field, prodotto magistralmente da Dan Carey. La band non mette affatto da parte il loro lato più emozionale. I saliscendi emotivi, le parti inquietanti e distopiche, i cambi di tempo repentini, tutto sembra (e probabilmente è) studiato alla perfezione ma quello che esce fuori dall’amplificatore ha la capacità di non risultare mai troppo tecnico, freddo e distante. “Global Groove” è il brano scelto per rappresentare una delle band più interessanti uscite nel 2021.

Il collettivo di Montreal Godspeed You! Black Emperor, dopo qualche anno di pausa, è fortunatamente tornato ad incidere con frequenza quasi regolare. Anche per quanto riguarda il settimo lavoro in studio G_d’s Pee At State’s End!, uscito da pochi mesi, non viene certo a mancare il fascino ipnotico, epico, senza compromessi di una band che sin dall’indimenticabile esordio F#A#∞ del 1997 ha saputo trovare una formula unica composta da cavalcate eroiche che si innalzano al cielo come la bandiera che i GY!BE riescono a tenere sempre alta incuranti del vento che cambia.
Il loro suono senza compromessi non cambia di una virgola, mantenendo sempre la stessa evocativa potenza. Stavolta, registrando a distanza in piena pandemia, il collettivo canadese ha anche voluto stilare una sorta di agenda sociale che ha come (quasi) unico obiettivo il capitalismo. L’introspettiva, tormentata e e claustrofobica “Our Side Has To Win (For D.H.)” è la traccia che rappresenta all’interno del podcast questa sorta di concept politico e sociale. Un disco che consolida l’enorme potenza e l’indomita classe dei canadesi.

Abbiamo parlato in precedenza della scena post-punk inglese, mettendo l’accento soprattutto su alcuni collettivi che fanno dell’abilità strumentale e della complessità strutturale i loro punti di forza. Come molte bands coeve (Goat Girl, Shame, Fat White Family), i Dry Cleaning nascono nel sud di Londra dall’incontro alla Royal College of Art tra il chitarrista Tom Dowse e la cantante Florence Shaw. Qualche anno più tardi la formazione si consolida grazie all’innesto di Lewis Maynard (basso) e Nick Buxton (batteria) e alla pubblicazione di due EP ottimamente recepiti da pubblico e critica. La forza del collettivo si misura nelle scorribande chitarristiche che richiamano nomi importanti del passato come Gang Of Four, e nel cantato recitativo e apparentemente abulico di Florence Shaw.
L’attesissimo album di esordio si intitola New Long Leg ed è prodotto da un personaggio importante come John Parish. Se il modo di cantare quasi recitativoe della Shaw risulta in qualche modo spiazzante, il modo in cui si integra con le taglienti intuizioni del resto del gruppo risulta estremamente interessante e fornisce al quartetto un passaporto di quasi unicità all’interno del movimento post-punk britannico. La title track inserita nel podcast è una delle tracce in cui questo meccanismo funziona meglio, ma la conclusiva “Every Day Carry”, con i suoi synth e le ambientazioni quasi krautrock, potrebbe fornire nuovi sbocchi estetici alla band. Staremo a vedere cosa ci riserverà il futuro e se i quattro ragazzi riusciranno a non deludere le aspettative.

Nel 1968, Jaki Liebezeit, Michael Karoli, Holger Czukay e Irmin Schmidt hanno dato vita ad una delle band più influenti e seminali della storia del rock, i Can. La band divenne in breve uno dei gruppi più importanti della scena tedesca, con il suo suono innovativo e visionario, che coraggiosamente andava a pescare dal minimalismo contemporaneo (Czukay e Schmidt erano entrambi allievi di Stockhausen) alla psichedelia, incastrandosi meravigliosamente con i Velvet Underground e una certa musica etnica. La loro avanguardia si celebrò con l’uscita del seminale Tago Mago nel 1971. La loro libera sfrontatezza e anarchica purezza è stata fonte di ispirazione per tantissimi artisti degli anni settanta e ottanta, tra cui David Bowie, Joy Division, Stone Roses e Talking Heads.
A fine maggio 2021 è stato pubblicato Live In Stuttgart 1975, primo volume dei cinque che comporranno Can Live, serie che ha preso il meglio di alcuni bootleg e, sotto la supervisione del membro fondatore Irmin Schmidt e del produttore-ingegnere Rene Tinner, ne ha analizzato le fonti sonore attraverso gli strumenti della tecnologia del 21° secolo per poter pubblicare questi documenti storici vitali nella migliore qualità sonora possibile. “Vier” dimostra l’incredibile alchimia tra i componenti della band e la loro capacità di prendere il vecchio materiale e ricrearlo di nuovo sul palco per rivelare una prospettiva completamente diversa della band. Il 3 dicembre uscirà il secondo volume della serie, Live In Brighton 1975, e siamo sicuri che ne sentiremo ancora delle belle.

Geoof Farina, studente del prestigioso Berklee College of Music di Boston, nel 1993 decide di dare un seguito al suo primo progetto Secret Stars formando una vera band insieme al bassista Eamonn Vitt e al batterista Gavin McCarthy. I Karate esordiscono come trio per poi assoldare Jeff Goddard come bassista spostando Vitt alla seconda chitarra e a esordire sulla lunga distanza nel 1996 con un album autointitolato uscito per la Southern Records. Il disco, con la sua alternanza di momenti rallentati ed esplosioni violente, è diventato presto un esempio di incontro tra vari generi musicali, tra slow-core e un ruvido indie rock, suonato da musicisti che hanno una dimestichezza lampante con il jazz.
Il loro slancio intimista e raffinato raggiungerà probabilmente con il seguente In Place Of Real Insight la perfezione formale, ma l’esordio rimane una produzione assolutamente notevole come dimostra la splendida “If You Can Hold Your Breath” inserita in scaletta. Il gruppo si è sciolto nel luglio del 2005 a causa dei problemi all’udito di Farina, che non era più in grado di sopportare il rumore sul palco. Fortunatamente, vista la difficile reperibilità dei primi lavori, da tempo fuori catalogo, la benemerita etichetta Numero Group ha ristampato i primi due lavori di Farina e compagni.

Personaggio intrigante Todd Rundgren, a volte, a torto, bistrattato, come se comporre musica pop fosse una sorta di marchio infamante. Ma questo stregone polistrumentista è sempre stato capace di difendersi benissimo dalle “accuse” proprio con la sua capacità di scrittura, che spazia con disinvoltura dal pop d’autore al soul, dal rock al folk. Nato come chitarrista prodigio nei garage-rockers Nuzz, Rundgren inizia nel 1970 la sua carriera solista che diventa via via sempre più ambiziosa per arrivare, nel 1972, alla pubblicazione di quello che probabilmente rimane il suo capolavoro, il monumentale doppio album Something / Anything?.
L’album, composto da 25 brani, è un trionfo dell’ego del musicista che suona tutti gli strumenti creando uno zibaldone in cui manipola con abilità tutti i generi che ama, spaziando a 360 gradi, divertendosi e facendo divertire. Le sue doti di compositore sono messe in primo piano e la sua abilità di gigioneggiare e di creare melodie memorabili è davvero notevole come dimostra la “I Saw The Light” che apre quello che rimane, a distanza di anni, come il suo disco meglio riuscito. La sua smania di eccedere spesso lo porterà a sbagliare completamente bersaglio, ma quando è riuscito a mettere i suoi eccessi al servizio delle canzoni si è sempre dimostrato un signor artista.

E a proposito di musica considerata “facile” ma suonata e composta con un notevole peso specifico di abilità e classe. Come non inserire in scaletta l’impeccabile maestria degli Steely Dan, creati da Walter Becker (chitarra e basso) e Donald Fagen (tastiere e voce) alla fine degli anni ’60. La svolta avviene quando, nel 1971, il duo incontra Gary Katz, produttore dell’etichetta Abc Records in cerca di nuovi talenti da lanciare sul mercato americano. I due, che hanno preso il nome dal romanzo Pasto Nudo di W.S. Burroughs, fanno il loro esordio discografico un anno più tardi con Can’t Buy A Thrill, che, seppure acerbo, mostra già lo stile elegante tra pop e jazz che ne caratterizzerà la carriera. Piano piano Fagen padroneggia sempre meglio la parte canora e i due si circondano dei più rinomati e bravi sessionmen in circolazione per esprimere al meglio il loro suono.
La perfezione formale, sempre cercata da Becker e Fagen, probabilmente viene trovata al sesto tentativo. Nel 1977 esce infatti Aja, disco incredibilmente e maniacalmente studiato in tutti i particolari, dove i due si fanno aiutare da straordinari musicisti su cui spiccano Wayne Shorter, Larry Carlton, Lee Ritenour e Steve Gadd. Il disco, che esce in piena era punk, si estranea dalla quotidianità per esprimere tutto l’arsenale di classe tra pop e jazz di cui dispone la premiata ditta Fagen-Becker. E’ un disco che incanta ad ogni ascolto, maturo e levigato, dove la perfezione formale non vai mai ad intaccare le emozioni. Un disco che traccerà un’impronta importante su chi, di li a poco, dovrà mettere le mani sulla materia “pop”. “Deacon Blues” (che ispirerà qualche anno più tardi un gruppo scozzese niente male alla ricerca del nome) è una delle tracce fondamentali del disco.

Negli anni novanta, un duo britannico formato da Paul Hammond e Ian Cooper, decide di lasciarsi alle spalle l’ensemble industriale A Primary Industry per crearsi una nuova identità sonora. Ribattezzati Ultramarine, i due provano la curiosa e non facile unione tra la scena che negli anni ’70 ha marchiato in maniera importante la città di Canterbury e la scena elettronica e techno degli anni ’90. Dopo due album in cui il duo cerca di mettere a fuoco questa esplosiva miscela tra pop, elettronica e progressive, finalmente mel 1993 arriva la quadratura del cerchio con la pubblicazione di un lavoro intitolato United Kingdoms.
Le fonti sonore sono quelle già elencate, con spruzzate di dub e jazz a rendere l’alchimia sonora ancora più interessante. Gli arrangiamenti sono calibrati a puntino ed effervescenti al punto giusto, e, a rendere il tutto ancora più vicino alla scuola di Canterbury, ecco che i due chiamano a collaborare in alcune tracce proprio uno dei personaggi più rappresentativi di quella scena. Ascoltare Robert Wyatt in “Kingdom” (una delle tre tracce in cui appare l’ex Soft Machine) è come tornare indietro nel tempo con un suono attualizzato, una vera e propria goduria per le orecchie. Il duo è tornato sulle scene due anni fa con ben due album usciti quasi in contemporanea, entrambi di notevole fattura.

Richard Dawson è un artista che appartiene ad una categoria molto particolare e quasi in via di estinzione, quella dei songwriters un po’ stralunati, poco convenzionali. Basti pensare ad un Richard Youngs, o ad un Kevin Coyne, senza voler scomodare l’enorme talento di Kevin Ayers (Dawson potrebbe montarsi la testa), tanto per farvi capire come poter inquadrare un personaggio come il chitarrista di stanza a Newcastle, città dell’Inghilterra settentrionale non troppo distante dal terreno dove sorgeva Bryneich, regno britannico nato attorno al 420 d.C. che aveva ispirato il bardo nella composizione dell’album Peasant, che quattro anni fa mi aveva assolutamente folgorato per l’abilità di Dawson nel raccontare le sue storie con una scrittura tanto potente e affascinante quanto oscura e poetica.
Curiosamente, due anni dopo Peasant, Dawson (descritto dal The Guardian come “Britain’s best, most humane songwriter”) è tornato con un album intitolato 2020 che apparentemente cambia le carte in tavola abbandonando il folk-rock sghembo del disco precedente in favore di un sound che strizza l’occhio ad una sorta di pop-rock (sempre contaminato e in equilibrio precario). In questo disco Dawson abbandona la vita degli abitanti di un villaggio medievale per tornare alla stretta attualità e mostrarci le inquietudini e le ansie dei cittadini britannici sull’orlo di una crisi di nervi al tempo della Brexit. Ogni brano è una sorta di microstoria narrata in prima persona, dalla vita quotidiana di un impiegato pubblico a quella di un senza tetto, passando per la follia dei social e dei percorsi motivazionali. Il tutto permeato da un cupo sarcasmo, marchio di fabbrica del bardo inglese. Il brano scelto è “Black Triangle”, un lungo e tirato brano in cui il nostro si immedesima in un uomo il cui matrimonio sta andando in pezzi.

C’era una volta un’etichetta britannica che si chiamava Sarah Records. Creata a Bristol nel 1987, le sue pubblicazioni hanno accompagnato i nostri sogni più romantici, popolato la parte più pop e malinconica del nostro cuore, abbracciato le nostre lacrime e le nostre gioie. Un mondo sognante ed incantevole popolato da band di culto tra cui The Orchids, Blueboy, Brighter, The Field Mice e molte altre. Poco importa che il sogno creato dai visionari Clare Wadd e Matt Haynes sia in qualche modo finito nel 1995, il mondo della Sarah Records sarà sempre presente nel nostro immaginario. Bob Wratten era il leader proprio dei The Field Mice, esperienza chiusa insieme alla Sarah Records ed in contemporanea alla fine della sua storia d’amore con Anne Mari Davies, sua partner nella vita e sul palco.
Così Wratten nel 1996 con il cuore spezzato forma una nuova entità, i Trembling Blue Stars, e la affida all’etichetta che prende il testimone e l’eredità della Sarah, quella Shinkansen Recordings voluta da Matt Haynes. Her Handwriting non è stato solo il primo album della nuova band ma anche il primo sulla lunga distanza ad uscire per la neonata label inglese. In questo disco troviamo tutte le coordinate che hanno reso celebre la Sarah Records, un indie-pop malinconico e romantico lontanissimo dalle logiche di mercato, e formato da ritornelli appiccicosi al punto giusto. Alive To Every Smile, uscito nel 2001, è il quarto album della band, distribuito in USA addirittura dalla Sub Pop. Come i precedenti (e come i successivi) è pervaso di quello spleen e quello stato d’animo malinconico che ci hanno fatto tanto amare i dischi della Sarah Records. Esempio lampante è la trascinante e crepuscolare malinconia british chiamata “The Ghost Of An Unkissed Kiss” .

Chiudiamo il podcast con la band che, forse, è stata capace di effettuare la più incredibile mutazione da bozzolo a farfalla che si sia vista nella storia della musica. I Talk Talk di Mark Hollis, hanno vissuto alcune stagioni mischiati, non per colpa loro, nel calderone synth-pop anni ’80 insieme a Spandau Ballet o Duran Duran grazie a hit singles come “It’s My Life” o “Such A Shame”. Ma il quartetto aveva, fortunatamente, dalla sua parte una notevole e superiore capacità di scrittura e, passo dopo passo, è riuscito a reinventare il proprio stile portando la loro evoluzione al climax sonoro ed emotivo. Così nel 1988, il sublime Spirit Of Eden e le sei meravigliose e lunghe tracce di cui era composto, è riuscito a portarci felicemente lontani dai sentieri già percorsi dal gruppo.
Quelle tracce lasciavano intravedere parte dell’estetica che, 6 anni dopo, il critico musicale Simon Reynolds mise su carta prima su Mojo e poi su The Wire definendo, o provando a farlo, un nuovo termine chiamato post rock. Il suono, non più radiofonico e tutto tranne che commerciale, mandò su tutte le furie i vertici della EMI, portando le due parti ad una sbrigativa risoluzione del contratto. Ma ormai il gruppo era proiettato verso nuovi lidi. I Talk Talk, ormai ridotti a trio dopo l’abbandono del bassista Paul Webb con Hollis, Lee Harris (batteria) e Tim Friese-Greene (piano e tastiere), si lasciano circondare da archi e fiati, capaci di creare le atmosfere eteree e dilatate su cui il canto di Hollis diventa liquido, psichedelico e ispirato. Laughing Stock è il canto del cigno della band, e un album che, a posteriori, è stato giustamente considerato tra i precursori di quel suono che troverà compimento in Gran Bretagna nella prosecuzione degli anni ’90. “Ascension Day” è la perfetta dimostrazione della raggiunta perfezione sonora del gruppo ed il brano perfetto per chiudere il podcast.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete le solite traiettorie sghembe, a partire dal trentennale (!) di quel ponte tra rock psichedelico, soul e dancefloor dei Primal Scream chiamato Screamadelica, e di una pietra miliare dell’hip-hop come The Low End Theory degli A Tribe Called Quest. Ma c’è spazio anche per le destrutturazioni geniali dei Dead Rider, del post rock britannico (era Too Pure) dei Long Fin Killie, della psichedelia australiana di fine ’80 di The Moffs e The Church, della bolla temporale rimasta agli anni ’50 in cui vivono meravigliosi revisionisti come Wayne Hancock e C.W. Stoneking, della magia onirica degli Oiseaux-Tempête e del caos melodico organizzato dei People. Il grande finale è dedicato al prolungamento delle meraviglie dei Talk Talk con gli ‘O’ Rang della sezione ritmica Lee Harris/Paul Webb, agli splendidi ed evocativi suoni dello stesso Webb nascosto dietro al nome di Rustin Man, ai meravigliosi mutaforma The Heliocentrics e alla stagione della etichetta Kranky inaugurata dai paesaggi malinconici dei Labradford. Il tutto naturalmente sulle onde sonore di Radiorock.to The Original. Buon weekend, download & enjoy Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE ROLLING STONES: Rip This Joint da ‘Exile On Main St.’ (1972 –
Rolling Stones Records)
02. RY COODER: Harbor Of Love da ‘The Prodigal Son’ (2018 – Fantasy/Perro Verde)
03. R.E.M.: So Fast, So Numb da ‘New Adventures In Hi-Fi’ (1996 – Warner Bros. Records)
04. SQUID: Global Groove da ‘Bright Green Field’ (2021 – Warp Records)
05. GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR: Our Side Has To Win (For D.H.) da ‘G_d’s Pee At State’s End!’ (2021 – Constellation)
06. DRY CLEANING: New Long Leg da ‘New Long Leg’ (2021 – 4AD)
07. CAN: Stuttgart 75 Vier da ‘Live In Stuttgart 1975’ (2021 – Spoon Records/Mute)
08. KARATE: If You Can Hold Your Breath da ‘Karate’ (1995 – Southern Records)
09. TODD RUNDGREN: I Saw The Light da ‘Something / Anything?’ (1972 – Bearsville)
10. STEELY DAN: Deacon Blues da ‘Aja’ (1977 – ABC Records)
11. ULTRAMARINE: Kingdom da ‘United Kingdoms’ (1993 – Blanco Y Negro)
12. RICHARD DAWSON: Black Triangle da ‘2020’ (2019 – Domino)
13. TREMBLING BLUE STARS: The Ghost Of An Unkissed Kiss da ‘Alive To Every Smile’ (2001 – Shinkansen Recordings)
14. TALK TALK: Ascension Day da ‘Laughing Stock’ (1991 – Verve Records)