Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 15° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di power rock, post punk visionario e altre meraviglie.
Sono davvero felice di essere, con Sounds & Grooves, a fianco di tutti voi per la 15° stagione di www.radiorock.to. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura. Una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Continuiamo orgogliosamente a cercare quella libertà in musica che nell’etere sembra essere diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia, ogni cosa sembra essere letta dietro ad una lente distorta. La politica non è mai stata così squallida e così divisiva, qualsiasi scelta, anche di marketing, sembra essere fatta da una parte per guadagnare consensi e likes (il vero e proprio denaro dei nostri giorni) , dall’altra per scatenare consensi o sdegno sui social o su programmi televisivi di infima lega, facendo azzannare persone comuni che non vedono l’ora di dire la propria per sentirsi fuori dell’anonimato. C’è tanta ignoranza, solitudine, paranoia, paura, frustrazione, competizione sfrenata tra persone piccole piccole… Il livello della politica e del giornalismo negli ultimi anni è sprofondato in maniera clamorosa, non solo in Italia, basti vedere quello che sta succedendo con i vaccini anti Covid. Il mio pensiero va alle persone che sono colpite duramente dal lockdown: a chi non c’è più, a chi ha combattuto e sta combattendo questo nemico silenzioso in prima linea con grandi sacrifici, a chi sta lottando davvero con forza per riappropriarsi della propria vita, a chi è stato costretto a reinventarsi. Spero davvero che stavolta lo stato (utopia, lo so, vista la “statura” morale della nostra classe politica) possa riuscire a far ritrovare la propria identità ad un popolo così duramente colpito negli affetti, nelle strutture, nel lavoro e nel quotidiano. In questo mondo dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e amore, noi proviamo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone non omologate che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva.
Nel sesto viaggio della stagione troverete le meraviglie visionarie tra punk e new wave di inizio anni ’80 di Wall Of Voodoo e The Flesh Eaters, il punk “sofisticato” dei The Stranglers, l’attitudine punk-hop dei velenosi Sleaford Mods, il post rock spigoloso dei 90 Day Men e quello più dinamico degli A Minor Forest, la potenza evocativa e spirituale dei Wovenhand. Ma ci sarà spazio anche per il power pop scintillante e meraviglioso di Teenage Fanclub e The Replacements, l’equilibrio straordinario tra tradizione e sperimentazione di Chris Forsyth insieme alla sua The Solar Motel Band, il ricordo della penna triste e rabbiosa capace di scaldare il cuore di Scott Hutchison dei Frightened Rabbit, la grande arte tra sogno ed incubo senza compromessi di Scott Walker, il ritorno dei maestri del blues 15-60-75 The Numbers, per concludere con una delle band più interessanti uscite ultimamente: i King Hannah di Liverpool. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con una band molto particolare. I Wall Of Voodoo di Stan Ridgway, come altre band coeve, sono stati capaci di inserire nel corpo di una tradizione musicale riscoperta le soluzioni adottate dal punk. Il loro utilizzo dei synth e di alcuni mirati e precisi effetti elettronici li resero una della band più originali ed interessanti dell’epoca. Dopo il primo, notevolissimo album Dark Continent pubblicato nel 1981, la band riuscì ad ottenere un certo successo anche di pubblico grazie alla “Mexican Radio” inserita in scaletta che apriva come meglio non si potrebbe il secondo Call Of The West. Il testo ossessivamente reiterato, il ritmo psicotico e ballabile ed il suono che va dal sentire desertico alle influenze cinematiche e Morriconiane riuscirono ad avere un notevole appeal.
Un anno più tardi Ridgway, il batterista Joe Nanini ed il tastierista Bill Noland lasciarono la band nelle mani del chitarrista Marc Moreland e dell’altro tastierista Chas T. Grey che pubblicarono tra il 1985 ed il 1987 due album non all’altezza dei primi due. Ridgway invece già con lo splendido Big Heat inaugurò nel 1986 una fortunata e splendida carriera solista.
Sempre in quel meraviglioso inizio di anni ’80 si muoveva un personaggio meraviglioso come Chris Desjardins. Cantante, poeta, critico musicale, capace di una prosa ossessionata dalla morte ma di grande valenza visionaria. Chris D. ha sempre usato la musica punk come veicolo per mettere in pratica le sue oscure visioni. Nel 1977 crea i The Flesh Eaters che hanno, come The Gun Club o gli stessi Wall Of Voodoo, l’enorme merito di innestare nel corpo punk lo spirito delle radici della musica tradizionale americana. A Minute To Pray, A Second To Die esce nel 1981, ed è album fondamentale da aggiungere alle migliori uscite degli X e dei già citati Gun Club per capire il genere chiamato “tribal psychobilly blues”.
Chris D nell’album viene accompagnato da John Doe e D.J. Bonebrake (entrambi membri fondatori degli straordinari X) e dal sax di Steve Berlin (Los Lobos) in un viaggio all’inferno e ritorno. Ascoltate “Satan’s Stomp” per credere. L’album contiene anche il brano “Cyrano de Berger’s Back”, scritto da Doe e recentemente registrato di nuovo dagli X nel recente (ottimo) Alphabetland. Dopo altri due album che proponevano un suono più aggressivo e meno interessante, Chris D passò a registrare dietro al moniker di Divine Horseman. La rinascita della vecchia sigla negli anni ’90 non porterà i frutti sperati, ma A Minute To Pray… rimarrà un assoluto capolavoro.
Loro sono stati uno dei gruppi più atipici usciti nel periodo del punk. I The Stranglers sono nati nel 1974 grazie al cantante e chitarrista Hugh Cornwell, il bassista Jean-Jacques Burnell e il batterista Brian John Duffy più conosciuto come Jet Black. Al gruppo si unì l’anno successivo il tastierista Dave Greenfield, inserimento fondamentale per definire il loro suono. Sebbene siano inseriti nel calderone punk, il gruppo sfuggiva ad una vera e propria definizione grazie al background diverso di ognuno dei componenti, dal blues al jazz passando dal progressive e dal suono psichedelico dei sixties. Dopo un tour di supporto ai Ramones ed un primo giro di date d headliners, la band fa il suo esordio nel 1977 con l’album Stranglers IV (Rattus Norvegicus).
la voce cavernosa del leader e la perizia tecnica dei musicisti si differenzia e molto dall’immaginario punk, e le accuse di misoginia derivate da alcuni testi non propriamente edificanti procurarono alla band qualche problema. Nel 1979 gli andrà anche peggio visto che alcuni riferimenti alla mitologia nordica presenti nell’album The Raven, uno degli apici della loro discografia, gli procurerà anche accuse di fascismo. In ogni caso il disco è notevole e di grande atmosfera, e “Hanging Around” è uno dei brani di maggior impatto, trascinante e sfacciato al punto giusto.
Sulla forza rabbiosa degli Sleaford Mods mi sono espresso più di una volta su queste pagine. Nel 2017 era molto atteso il loro esordio sulla lunga distanza per la storica etichetta britannica Rough Trade. Il primo disco del “dopo Brexit” del duo punk-hop di Nottingham formato da Jason Williamson e Andrew Fearn, non ha tradito le aspettative, risultando devastante. Il solito concentrato di invettive feroci condite da una base musicale sempre all’altezza della situazione. English Tapas (leggi la recensione) descrive in maniera rabbiosa il declino di una nazione che si sente superiore alle altre. Williamson sputa fuori i suoi dardi in un flusso inarrestabile che non sempre è facile da capire per chi non è madrelingua. I due spiattellano con cruda onestà le piaghe non solo inglesi ma sociali in generale. Lanciano frecciate avvelenate agli appassionati della cucina biologica, ai cultori del fitness, alla dipendenza da droga e alcool, al tessuto sociale, non risparmiando nessuno.
Il singolo “B.H.S.” narra la storia di Sir Philip Green. Questo “signore” nel 2000 comprò la catena di montaggio e magazzinaggio BHS per 200 milioni di sterline rivendendola 5 anni dopo per 1 sola sterlina, ma lasciandola con un drammatico deficit di 571 milioni di sterline. Così facendo ha mandato per strada tutti i suoi dipendenti: donne, uomini, ragazzi, madri e padri di famiglie. Dimenticavo, il pover’uomo dopo aver fatto questa porcata si è rifugiato in crociera a bordo del suo “piccolo” yacht da 300 milioni di sterline. La loro formula è ormai facilmente identificabile, ma la semplicità con cui i due l’hanno fatta evolvere rimanendo fedeli a loro stessi è meravigliosamente spaventosa come ha dimostrato il recente Spare Ribs. Nessun gruppo incarna meglio di loro la vera essenza del punk, pochi sono in grado di rimanere a livelli così qualitativamente alti al giorno d’oggi.
Siamo agli albori del nuovo millennio quando una band appena trasferita a Chicago, culla del post-rock nel decennio precedente, Dopo uno split con i GoGoGoAirheart, i 90 Day Men registrano nel marzo del 2000 il loro primo album intitolato (it (is) it) Critical Band, un album in bilico tra post hardcore e math-rock, “Dialed In” è il perfetto brano di apertura che dimostra l’equilibrio compositivo e le capacità strumentali del quartetto che oltre ai membri fondatori Robert Lowe (basso e voce), Brian Case (chitarra) e Cayce Key (batteria) vede l’innesto di Andy Lansangan alle tastiere.
Due anni dopo To Everybody cambierà il corso stilistico del gruppo, che dalle spigolose fattezze math-rock diventerà sempre più una sorta di art-rock tendente alla psichedelia e al prog, perdendo molta della loro dinamica che aveva reso il loro esordio un album di riferimento del genere. Il gruppo si scioglierà definitivamente nel 2004.
Un gran personaggio David Eugene Edwards. Circondato da un’aura di spiritualità sin dalla nascita, essendo figlio di un pastore metodista. Il giovane David Eugene ha deciso di esprimere la propria concezione religiosa in modo completamente diverso da quello del genitore. Trasferitosi in California da Denver all’inizio degli anni ’90, non perde tempo creando una band dove poter convogliare le sue esperienze musicali e religiose. I 16 Horsepower, già dal debutto avvenuto nel 1995, mostrano un personale e viscerale impasto di folk e blues mescolato con l’oscura spiritualità del leader. Dopo 5 album che hanno saputo mantenere un ottimo livello qualitativo, Edwards crea un side project che in breve tempo diventa il suo progetto principale visto il quasi immediato scioglimento della sigla 16 Horsepower nel momento della creazione dei Wovenhand.
L’inizio della nuova sigla non è propriamente indimenticabile, ai più sembra che il nuovo progetto non abbia la stessa intensità emotiva e la stessa profondità musicale della band precedente. Ma dopo due album di rodaggio Edwards riprende a fare sul serio da Consider The Birds del 2004, trovando la quadratura del cerchio con il suo personale mix tra il recupero delle radici folk, la sperimentazione, le atmosfere scure e quasi gotiche e il suo profondo credo religioso. The Laughing Stalk esce nel 2012 e mantiene tutta la potenza evocativa e l’intensità di un uomo che conosce come pochi la magia di evocare un’emotività epica capace di mostrare l’oscurità dell’animo umano, come nella meravigliosa “Long Horn”.
Gli A Minor Forest sono stati un gruppo formato nel 1993 da Erik Hoversten a San Francisco, ma legati poi alla scena di Chicago grazie alla collaborazione con Steve Albini e Bob Weston. Sotto le mentite spoglie di Creeping Death Erik Hoversten (chitarra e voce) John Benson (basso) e Andee Connors (batteria) hanno suonato cover dei Metallica. Proprio a Chicago la band ha registrato il suo album migliore, Inindependence, uscito nel 1988 e che contiene splendidi esempi della loro visione musicale come la prima traccia del disco The Dutch Fist che si snoda attraverso un inizio slow-core alla Codeine per poi esplodere in una strepitosa e incandescente progressione strumentale. Il trio si è riunito per alcuni show nel corso del 2013 e per il Record Store Day del 2016 la Thrill Jockey ha fatto uscire delle ristampe dei loro 3 album in vinile.
Purtroppo queste ristampe hanno fatto la fine di molte altre uscite del genere, destinate prima a pochi eletti, poi ad essere vendute a prezzi improponibili. Anno dopo anno sono sempre più convinto che il RSD è l’ennesima occasione persa, ma questa è un’altra storia…
Il power pop sotto la bandiera con la croce di Sant’Andrea ha senza alcun dubbio come gruppo di riferimento i Teenage Fanclub di Glasgow. E’ il 1986, quando Norman Blake e Raymond McGinley si uniscono al batterista Francis MacDonald e al bassista e cantante Gerard Love dando vita ad un gruppo che continua a sfornare dischi anche ai giorni nostri con il medesimo entusiasmo e con grande coerenza artistica. Un gran giorno il 4 novembre 1991 per la storica Creation Records fondata da Alan McGee. Nello stesso giorno l’etichetta pubblica Loveless dei My Bloody Valentine e quello che probabilmente resta il vertice della band scozzese: Bandwagonesque.
Quattro anni dopo, nel 1995, esce Grand Prix, l’ennesimo disco composto da frizzanti melodie e equilibrato songwriting tra rock e pop, ad inseguire Neil Young e Big Star, come nella splendida “Don’t Look Back” a firma Gerard Love. Passano gli anni e scorrono le mode, ma il combo scozzese non ha mai rinunciato ad incidere meraviglie scintillanti come, ne sono certo, succederà anche con il prossimo Endless Arcade.
I The Replacements sono stati una band fondamentale nel traghettare l’hardcore verso un autentico e viscerale power rock alternativo. Nati a Minneapolis durante i primi anni ’80, hanno inscenato un meraviglioso derby cittadino a colpi di spartiti con i concittadini Hüsker Dü. Dalla loro i Replacements avevano una innata empatia capace di colpire al cuore un’intera generazione, ed il sensazionale talento melodico oltre al grande carisma e alla capacità di scrittura del cantante Paul Westerberg. Spavaldi e grezzi, hanno avuto l’abilità nel corso degli anni di smussare i propri angoli e di affinare il loro sound, fino a pubblicare un “uno due” micidiale che ha marchiato a fuoco la storia del rock americano degli anni ’80: Let It Be (1984) e Tim (1985).
I due dischi si dividono spesso e volentieri la palma di migliore pubblicato dal quartetto. Tim è stato l’ultimo album a vedere la formazione originale. Poco dopo la pubblicazione del disco, il chitarrista Bob Stinson è stato infatti cacciato per la sua dipendenza da droga e alcool che lo portarono ad una morte prematura dieci anni più tardi. Ma il gruppo era sempre capace di scrivere meraviglie, come dimostra la ballata generazionale di “Here Comes A Regular” inserito in questo podcast. Dissidi interni provocati dalla leadership sempre più marcata di Westerberg porteranno la band al collasso di li a poco, ma le loro melodie e la loro arte nello scrivere anthem trascinanti li pongono senza dubbio tra gli immortali del rock.
Il podcast prosegue con un disco che nel 2016 è riuscito a conquistare la vetta della mia personalissima classifica. Chris Forsyth, il chitarrista dei fantasiosi Peeesseye (un trio di pazzi furibondi che amavano celebrare arditi baccanali dedicati all’improvvisazione e all’avant-rock), dopo lo scioglimento della band ha intrapreso un percorso estetico diametralmente opposto. Il suo Solar Motel del 2013 è stata la scintilla che gli ha fatto venire l’idea di creare una vera band, chiamata proprio The Solar Motel Band, con cui poter definitivamente accantonare le asprezze del suo precedente progetto e approdare ad un suono che bilancia l’amore per il suono chitarristico trascendente degli anni ’70 con la sperimentazione dei giorni nostri. Questo doppio album chiamato The Rarity Of Experience è diviso idealmente in due parti, con la prima più di impatto sonoro, un maestoso monumento allo strumento principe del rock che viene portato in trionfo da una ritmica sostenuta su centinaia di chilometri di strade blu, mentre la seconda va a privilegiare la bontà del suono, l’elevazione dell’elegia, gli stimoli cerebrali.
Anche “Anthem”, primo brano in scaletta, è diviso idealmente in due parti: lento all’inizio ma via via più aggressivo, riuscendo ad insinuarsi sotto pelle, come una jam session ben congegnata che non può non ricordare le modalità di costruzione sonora dei Grateful Dead o dei Quicksilver Messenger Service. Più in generale, il suono si rifà alle band del passato che hanno fatto dello scontro tra chitarre in alta quota, o in un polveroso deserto, il proprio inequivocabile marchio di fabbrica. Non aspettatevi però virtuosismi chitarristici, la psichedelia liquida del musicista di Philadelphia non contempla (fortunatamente) questo aspetto, andando a privilegiare la bontà del suono, l’elevazione dell’elegia, gli stimoli cerebrali.
Scott Hutchison era un artista che possedeva una sensibilità particolare. Quella istintività rabbiosa capace di stemperarsi in un indie rock in bilico tra folk e post-punk, urlato e depresso. Quell’urgenza emotiva triste ed incazzata che sembra essere prerogativa di molti gruppi del nord della Gran Bretagna, dai Mogwai agli Arab Strap. Il 30 luglio del 2008 i Frightened Rabbit si esibiscono in una performance acustica del loro album appena uscito, The Midnight Organ Fight, sul piccolo palco del The Captain’s Rest di Glasgow. Ad ascoltarli c’è l’amico James Graham dei The Twilight Sad, pronto a salire on stage con loro per una splendida, intima ed emozionante versione di “Keep Yourself Warm”. Il concerto finirà su un disco chiamato Quietly Now!. Fatevi un piacere, trovatelo, assaporatelo. Ascolterete un frontman divertente, talentuoso, capace di parlare e cantare con una sincerità spiazzante e quasi brutale davanti ad un pubblico piccolo ma rumoroso e appassionato.
Hutchison non era una rockstar famosa, non era un Chris Cornell e probabilmente tra pochi mesi o anni verrà quasi del tutto dimenticato. I Frightened Rabbit sono sempre stati un piccolo gruppo di culto, quasi sconosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati e dopo la morte di Scott non esistono più. Ma conoscevano eccome l’arte di scaldare il cuore. Le pennate rabbiose, quella voce dolce e rabbiosa, triste e problematica, quella musica che ti entrava nelle ossa come la fitta e fredda pioggia scozzese. Uno sguardo sulle highlands, il mare in tempesta, la solitudine degli spazi, la fragilità che vigliacca ti colpisce, ti morde il cuore, ti prende l’anima, ti porta via in cerca di una ipotetica ed effimera pace.
“It takes more than fucking someone
You don’t know to keep warm
Did you really think that a fuck at half speed
You’ll find your love in a hole?”
Scott non c’è più. I suoi demoni e la sua intima fragilità e sensibilità ce lo hanno portato via tre anni fa. Ne sappiamo qualcosa. Abbiamo amato e abbiamo sofferto nel corso degli anni per i vari Nick Drake, Tim Buckley, Mark Linkous, Elliott Smith, Vic Chesnutt, Jason Molina o David Berman. La canzone che ho scelto per questo podcast è proprio quella “Keep Yourself Warm” che Hutchison e Graham avevano condiviso 10 anni prima in quella festosa serata in un fumoso pub scozzese, ebbri di gioia. Adesso il Captain’s Rest non esiste più. Al suo posto che un altro pub, il Munro’s, mentre dall’altra parte della Great Western Road della grigia città industriale scozzese c’è ancora il The Hug And Pint, locale che ha preso il nome dal disco degli Arab Strap del 2003 Monday at the Hug & Pint. Goodbye mate, I will miss you.
Che parabola artistica incredibile, quella di Noel Scott Engel in arte Scott Walker. Da membro della boy band ante litteram Walker Brothers a cantore dell’oscuro e delle nefandezze della razza umana. Dopo aver sciolto la band, iniziò la sua carriera solista segnata dall’amore per Jacques Brel, sua primissima fonte di ispirazione. Scott 4 esce nel 1969 ed è il suo primo capolavoro. Il disco contiene esclusivamente materiale originale, scritto con ispirazione matura, autentica passione ed infarcito di ricchi arrangiamenti. Dopo molti anni di silenzio Walker reinventerà completamente la sua carriera e la sua poetica regalandoci opere di avanguardia tanto apocalittiche e cerebrali quanto fondamentali.
Undici anni dopo Tilt, album che ha aperto la nuova carriera di Walker, The Drift nel 2006 ne prolunga le atmosfere soffocanti e claustrofobiche, un morboso flusso di coscienza capace di creare un microcosmo scuro e drammatico. La sua profonda voce baritonale racconta in flussi di coscienza alcune tragiche storie umane, tra cui la tormentata storia d’amore tra Mussolini e Claretta Petacci e quella di Jesse Garon Presley, fratello gemello di Elvis. “Psoriatic” è uno specchio di tutte le contrapposizioni dell’album, dove il chiaro e lo scuro si alternano anche violentemente prima di precipitare nell’abisso. Sei anni dopo, Bish Bosch ne concluderà meravigliosamente la fase solista. Due anni dopo Soused, disco registrato in collaborazione con il duo drone-metal Sunn O))), ne ha di fatto chiuso la carriera visto che due anni fa un cancro lo ha portato via. Ci mancherà, e molto, la sua capacità di approfondire l’animo umano, i suoi intensi flussi di coscienza e la profonda voce baritonale.
A pensarci bene è una sorta di cosciente e lucida follia. La pazzia meravigliosa di una band che in 50 anni di attività ha pubblicato una decina scarsa di album senza mai avere un vero contratto discografico. I The Numbers da mezzo secolo tengono alto nella notte il fuoco sacro del blues di cui si vantano (a ragione) di conoscere a menadito la mappa, compresi quegli angoli più nascosti che comunicano con i ripostigli jazz. I fratelli Kidney (Robert, chitarra e voce e Jack, tastiere e armonica) insieme a Terry Hynde al sax, Bill Watson al basso e Clint Alguire alla batteria, dal loro nascosto angolo di Kent nell’Ohio hanno sempre prodotto musica senza inflazionare il mercato. In questo mezzo secolo la band ha dato spettacolo sul palco, collaborato con personaggi del calibro di David Thomas, Anton Fier e partecipato ad alcune delle varie incarnazioni dei Golden Palominos. La loro è una visione singolare ma vera del blues, un’immagine reale dell’America proletaria, interpretata senza inutili tecnicismi e fronzoli (Robert Kidney non è certo un guitar hero), forti di avere dalla loro parte l’ausilio fondamentale del sax di Terry Hynde (fratello della più nota Chrissie dei Pretenders) che, nelle vesti del perfetto guastatore, spazia in ogni angolo creando un memorabile scompiglio.
La band festeggiato il mezzo secolo di attività registrando il nuovo lavoro tutto o quasi in presa diretta, lasciando che la tecnologia avesse il minor impatto possibile. Il risultato, Endure: Outliers On Water Street, è l’ennesimo album autoprodotto (e per questo non di facilissima reperibilità) capace di raggiungere un livello di eccellenza. “Wolf” è un perfetto sottofondo per un noir in bianco e nero, con l’organo capace di creare una atmosfera ombrosa prima che il sax si prenda il centro del palcoscenico per una cavalcata tanto imbizzarrita quanto seducente, senza dubbio una delle tracce migliori del lotto. I The Numbers sono seducenti ma crudi, perfetti messaggeri di una musica che (speriamo) non tramonterà mai. Lunga vita ai fratelli Kidney e ai loro straordinari compagni di avventura.
La chiusura del podcast è affidata ad un duo che a fine 2020 ha pubblicato uno splendido EP. Loro vengono da Liverpool e si fanno chiamare King Hannah. Il suono creato da Craig Whittle e Hannah Merrick si può ricondurre a quello degli Opal e di rimbalzo dei Mazzy Star, permeato da una vena psichedelica e dalla capacità di condire il tutto con echi ipnotici e suggestivi. Se siete orfani della coppia David Roback e Hope Sandoval troverete sicuramente pane per i vostri denti. Ma i due ragazzi non percorrono semplicemente sentieri già battuti. Fortunatamente ci mettono molto del loro. La Merrick ha una voce straordinaria e Whittle, che sembra avesse già intuito le capacità della sodale già molto tempo prima dell’effettiva unione artistica, è capace di pennellare sapienti tocchi di chitarra dove serve per poi lasciarsi andare quando arriva il momento.
I sei brani di Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine per circa mezz’ora di musica sono davvero splendidi ed è stato difficile sceglierne uno. Alla fine ho optato per le atmosfere psichedeliche di “Meal Deal”, brano in continuo crescendo dopo un saliscendi emozionale. Di questi tempi è difficile prevedere il futuro di qualsiasi gruppo, ma se i due di Liverpool sapranno continuare su questi binari e crescere ulteriormente ne sentiremo delle belle.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete due gruppi dall’enorme potenziale ma che per motivi diversi non hanno potuto esprimerlo compiutamente come The Sleepers e Brainiac, gli outsider del post rock tra psichedelia e tensione ritmica come Furry Things e Cul De Sac. La lucida follia di un Julian Cope in stato di grazia, la meraviglia del rock americano con i Built to Spill e i barbuti fratelloni Pontiak, il quasi dimenticato indie rock con il vibrafono degli Aloha. Ci sarà spazio anche per i droni evocatici e spirituali di Jerusalem In My Heart, le meraviglie ritmiche di John Colpitts aka Kid Millions (negli Oneida) e aka Man Forever (da solo), qui in combutta con una straordinaria Laurie Anderson, e per il ritorno, qualche anno fa, di un grande del folk rock come Roy Harper. Il finale sarà dedicato al songwriting raffinato della neozelandese di stanza in Galles Aldous Harding e soprattutto ad una delle canzoni più belle di un cantautorato italiano che (ahimè) naviga in bruttissime acque, “Cara” di Lucio Dalla. Sulla musica italiana torneremo presto…è una promessa! Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. WALL OF VOODOO: Mexican Radio da ‘Call Of The West’ (1982 –
I.R.S. Records)
02. THE FLESH EATERS: Satan’s Stomp da ‘A Minute To Pray A Second To Die’ (1981 – Ruby Records)
03. THE STRANGLERS: Hanging Around da ‘Stranglers IV (Rattus Norvegicus)’ (1977 – United Artists Records)
04. SLEAFORD MODS: B.H.S. da ‘English Tapas’ (2017 – Rough Trade)
05. 90 DAY MEN: Dialed In da ‘(It (Is) It) Critical Band’ (2000 – Southern Records)
06. WOVENHAND: Long Horn da ‘The Laughing Stalk’ (2012 – Glitterhouse Records)
07. A MINOR FOREST: The Dutch Fist da ‘Inindependence’ (1998 – Thrill Jockey)
08. TEENAGE FANCLUB: Don’t Look Back da ‘Grand Prix’ (1995 – Creation Records)
09. THE REPLACEMENTS: Here Comes A Regular da ‘Tim’ (1985 – Sire)
10. CHRIS FORSYTH & THE SOLAR MOTEL BAND: Anthem II da ‘The Rarity Of Experience’ (2016 – No Quarter)
11. FRIGHTENED RABBIT: Keep Yourself Warm da ‘The Midnight Organ Fight’ (2008 – FatCat Records)
12. SCOTT WALKER: Psoriatic da ‘The Drift’ (2006 – 4AD)
13. 15-60-75 THE NUMBERS: Wolf da ‘Endure (Outliers On Water Street)’ (2020 – Self Released)
14. KING HANNAH: Meal Deal da ‘Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine’ (2020 – City Slang)