Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 15° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di post-rock, wave, songwriting, indie-folk e altre meraviglie
Sono davvero felice di essere, con Sounds & Grooves, a fianco di tutti voi per la 15° stagione di www.radiorock.to. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura. Una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Continuiamo orgogliosamente a cercare quella libertà in musica che nell’etere sembra essere diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia, ogni cosa sembra essere letta dietro ad una lente distorta. La politica non è mai stata così squallida e così divisiva, qualsiasi scelta, anche di marketing, sembra essere fatta da una parte per guadagnare consensi e likes (il vero e proprio denaro dei nostri giorni…) , dall’altra per scatenare consensi o sdegno sui social o su programmi televisivi di infima lega, facendo azzannare persone comuni che non vedono l’ora di dire la propria per sentirsi fuori dell’anonimato. C’è tanta ignoranza, solitudine, paranoia, paura, frustrazione, competizione sfrenata tra persone piccole piccole… Il livello della politica e del giornalismo negli ultimi anni è sprofondato in maniera clamorosa, non solo in Italia, basti vedere l’indecorosa reazione di Trump dopo la sconfitta elettorale. Il mio pensiero va alle persone che sono state colpite duramente dal lockdown: a chi non c’è più, a chi ha combattuto e sta combattendo questo nemico silenzioso in prima linea con grandi sacrifici, a chi sta lottando davvero con forza per riappropriarsi della propria vita, a chi è stato costretto a reinventarsi. Spero davvero che stavolta lo stato (utopia, lo so, vista la “statura” morale della nostra classe politica) possa riuscire a far ritrovare la propria identità ad un popolo così duramente colpito negli affetti, nelle strutture, nel lavoro e nel quotidiano. In questo mondo dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e amore, noi proviamo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone non omologate che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva.
Nel quarto viaggio della stagione trovate la follia irrequieta e colorata dei Lightning Bolt, l’energia dei redivivi Rocket From The Tombs, il ripescaggio dei meravigliosi Human Switchboard, l’art rock glaciale dei seminali This Heat e quello più aperto dei nostrani Lovexpress, lo shoegaze dei Ride, il post rock americano dei Rodan e quello inglese dei Moonshake. E se non vi basta ci sarà spazio per il ritorno degli energici Wolfhounds di Dave Callahan e della psichedelia da camera dei Manyfingers, il cantautorato delicato di Laura Veirs e quello quasi dimenticato del canadese Hayden, i 50 anni di un capolavoro assoluto come Moondance di Van Morrison e l’elettronica notturna di Aidan Moffat nascosto dietro il moniker di Nyx Nótt. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con i Lightning Bolt, un duo che da sempre produce un’energia diabolica difficile da contrastare. Brian Chippendale (batteria e voce) e Brian Gibson (basso) si incontrano a metà anni ’90 quando entrambi frequentano la Rhode Island School of Design a Providence. Il loro è un approccio senza compromessi tra noise rock, punk, hardcore, strizzando l’occhio da una parte a gruppi noise giapponesi come Boredoms e Ruins, dall’altra addirittura a Sun Ra. Dopo l’esordio acerbo nel 1997 hanno imparato a macinare riff come pochi, aumentando considerevolmente la qualitrà dei dischi in studio ed alimentando la loro fama con i loro epocali guerrilla-gigs, concerti eseguiti non sul palco ma direttamente sul pavimento insieme al pubblico.
Fantasy Empire, uscito nel 2015, è il loro sesto album in studio, il primo per la Thrill Jockey. Illustrato come sempre dai disegni di Chippendale (attivo anche da solo dietro al moniker di Black Pus), mostra l’abilità dei due di incanalare il loro muscolare noise-punk in direzioni ben precise. Incredibile ascoltandoli che tutto l’impianto sonoro venga prodotto da sole due persone. In “Horsepower” troverete anche piccole sfumature country che delizieranno i vostri padiglioni auricolari.

David Thomas, folle, paranoico e schizofrenico cantore dell’alienazione industriale con i Pere Ubu, ha riformato agli inizi degli anni 2000 una della band cardine per la deflagrazione del punk, i Rocket From The Tombs, in cui dirigeva i lavori sotto la falsa identità di Crocus Behemoth. Quando la band decise di sciogliersi nel 1975, paradossalmente un anno prima dell’esplosione del punk, il chitarrista Euene “Cheetah Chrome” O’ Connor e il batterista Johnny “Blitz” Madansky si unirono al cantante Stiv Bators per formare i Frankenstein, che in seguito cambiarono nome in Dead Boys, mentre il chitarrista Peter Laughner e David Thomas formarono i Pere Ubu con il bassista Tim Wright (ex tecnico audio dei Rocket From The Tombs). Entrambe le bands usarono le vecchie canzoni dei RFTT che nei due anni di attività negli anni ’70 non erano riusciti ad incidere nemmeno un singolo. La reunion, che vedeva Thomas, Cheetah Chrome, il bassista Craig Bell, il batterista Steve Mehlman (anche lui nei Pere Ubu) e l’altro chitarrista Richard Lloyd, non aveva riportato risultati apprezzabili.
Ma nel 2015, Thomas, Bell e Mehlman hanno deciso che era ora di riportare in alto il nome di una band storica del proto punk. Dopo aver svecchiato la squadra inserendo due giovani chitarristi della scena di Cleveland, Gary Siperko e Buddy Akita, al posto di Cheetah Chrome e di Richard Lloyd ecco che finalmente la pubblicazione di Black Record è riuscita nell’intento di ritrovata un’ispirazione ed un’energia che sembravano ormai spente. Otre ad includere nell’album la versione (finalmente) definitiva dell’inno proto-punk “Sonic Reducer”, o la cover di “Strychnine” dei Sonics, la band stupisce anche con le nuove canzoni che brillano di luce propria come dimostra la “Hawk Full Of Soul” inserita nella scaletta del podcast.

Ogni tanto è necessario fare un passo indietro e andare a trovare artisti che hanno lasciato un segno indelebile pur nella brevità della loro carriera artistica. Era il 1981 quando un trio di Cleveland, Ohio (città famosa per aver dato i natali a entità luminose nel firmamento del rock come Pere Ubu o The Residents), attivo da qualche anni, gli Human Switchboard, dava alle stampe il suo primo ed unico lavoro intitolato Who’s Landing In My Hangar? Bob Pfeifer (chitarra e voce) appassionato da sempre del lavoro di Lou Reed aveva conosciuto Myrna Marcarian (organo e voce) si erano conosciuti presso l’Università di Syracuse e avevano deciso di condividere le loro passioni musicali creando una band che potesse esprimere gli amori passati e presenti dei componenti. Prendevano un po’ dai Velvet Underground, un po’ dal post punk, l’uso dell’organo dai Doors.
Amavano la psichedelia ed il punk, e ne hanno creato una versione quasi unica, con l’organo Farfisa che riempiva il varchi lasciati aperti dalla chitarra e dalla batteria del terzo componente del gruppo, Ron Metz. Who’s Landing In My Hangar? è un album meraviglioso da riscoprire, pubblicato all’epoca dalla Faulty Records, sussidiaria della nota I.R.S. di Miles Copeland. Precede di poco l’esplosione del Paisley Underground e si pone come man in the middle tra quella riscoperta della psichedelia da una parte, e le ultime propaggini del punk già mutato in new wave dall’altra. “Don’t Follow Me Home” è una delle perle di un disco e una band assolutamente da riscoprire visto che sono stati ristampati recentemente da un’etichetta come la Fat Possum.
Fortunatamente a popolare il panorama, spesso di una tristezza epocale, della musica italiana ci sono anche realtà piccole ma capaci di suscitare notevole interesse come i Lovexpress di Pavia. Il trio formato da Luca Collivasone (voce, synth e chitarra preparata), Lorenzo Chiesa (synth e voce) e Daniele La Barbera (batteria e voce), tre anni fa aveva stupito i miei padiglioni auricolari con un album di esordio intrigante ed originale intitolato Stars. I 35 minuti di musica di cui era composto mi avevano lasciato semplicemente senza fiato per la capacità del trio di spaziare da momenti orchestrali a suggestioni psichedeliche, utilizzando suoni di deriva noise e industrial ed affiancandoli a parti di chitarra e sintetizzatore limpide e seducenti. Non era così scontato che i tre riuscissero a ripetere il miracolo (il notoriamente difficile sophomore album…), ma fortunatamente The Million Year Girl, il loro secondo lavoro, ne conferma appieno lo slancio di divertiti e divertenti sperimentatori in perenne equilibrio tra new wave e pop.
I tre mostrano una solidissima ritmica squarciata da alcuni pericolosi ed avventurosi incroci tra la chitarra accordata in maniera non convenzionale e i synth lasciati a briglia sciolta (come non ricordare le scorribande di Allan Ravenstine nei primi album dei Pere Ubu). In questa modalità, i Lovexpress riescono a tracciare delle coordinate sonore che rimandano a grandi creatori di suono come i This Heat o i King Crimson reinventati da Robert Fripp negli anni ’80. Istinto e ragione, melodia e ardite digressioni sonore trovano spesso e volentieri il loro punto di incontro. Come nell’andatura rallentata e noir della splendida “Do What To Do”. e vi piacciono gli intrecci mai banali, i ritmi solidi e fantasiosi ma pensate che una band italiana non sarebbe mai in grado di fare qualcosa del genere, ascoltate i Lovexpress e rimarrete piacevolmente sorpresi.

Visto che li abbiamo nominati prima, dobbiamo assolutamente tornare indietro nel tempo. Era il 1975 quando a Camberwell, quartiere della South London Charles Hayward (batteria, nastri, voce) incontra Charles Bullen (chitarra, clarinetto, viola) e Gareth Williams (tastiere, basso, nastri) dando vita al progetto This Heat. I tre decisero di sviluppare il rock in opposition di alcune band di Canterbury portandolo verso la strada della sperimentazione, smontando e rimontando le tracce in studio giocando con i nastri.
Il loro album autointitolato esce nel 1979, e colpisce subito per la ricerca formale di un gruppo che cerca l’unione di un certo progressive con l’elettronica, la classica contemporanea, il minimalismo. Una musica che pur mantenendo freddezza e distacco risulta stranamente empatica e con un’anima. Ascoltate la stratosferica “Twilight Furniture” per entrare subito nelle atmosfere scure del gruppo. I tre album dei This Heat sono stati (e sono tuttora) manifesto e nave scuola per chi vuole provare ad unire alcuni dettami di rock e jazz all’elettronica e al minimalismo.

Agli albori degli anni ’90 c’era un’etichetta che stava raggiungendo il culmine del suo successo. La Creation Records, fondata da Alan McGee nel 1983 partita in sordina stava ottenendo un grande successo grazie a gruppi di indie rock come Pastels, Biff Bang Pow!, Primal Scream, Jesus And Mary Chain, Felt, House Of Love, My Bloody Valentine, Ride, Slowdive, Swervedriver, The Boo Radleys per poi raggiungere il culmine con la pubblicazione nel 1991 di Loveless dei My Bloody Valentine e di Screamadelica dei Primal Scream, poco prima dell’esplosione degli Oasis pochi anni più tardi. Grande successo nel 1990 ebbe anche Nowhere, album di debutto dei Ride, band di Oxford in bilico tra le personalità di Andy Bell e Mark Gardener, entrambi chitarristi e autori.
L’album è rappresentato perfettamente dall’onda che campeggia sulla copertina, un’onda che spesso è capace di travolgere grazie al feedback della due chitarre e ad una sezione ritmica solida. Prima di lasciarsi andare definitivamente al power pop dal terzo album in poi, in Nowhere i Ride hanno saputo trovare l’equilibrio perfetto tra melodia e rumore, lasciandosi andare in brani dal sapore epico come la “Paralysed” inserita in scaletta, che dopo la lunga coda strumentale ci lascia esausti ma felici sulla battigia. Incredibile ma vero, Nowhere ha appena compiuto 30 anni.

Come vi ho detto molte (troppe) volte, negli anni ’90 i due poli del post rock a stelle e strisce erano senza dubbio Chicago e Louisville. In particolare, nel suono dei gruppi che venivano dalla cittadina del Kentucky era preponderante la ritmica spigolosa dei Can o la spinta motoristica dei Neu!. La scena era estremamente vitale e comprendeva svariate collaborazioni tra musicisti, che portarono alla creazione di diversi side projects. Molti degli album registrati in quel periodo non ebbero all’epoca la meritata dimensione mediatica solo per la quasi contemporanea esplosione del movimento grunge che, almeno a livello mainstream, ne oscurò la visibilità. Fortunatamente il tempo si è rivelato galantuomo e con il passare degli anni ha reso giustizia a gruppi come i Rodan.
I Rodan erano formati da Jeff Mueller (chitarra/voce), Jason Noble (chitarra/voce), Tara Jane O’Neil (basso/voce) e Kevin Coultas (batteria). Il loro unico album, Rusty è una delle pietre miliari del post rock statunitense, con l’evocativa alternanza di melodie lente e strappi violenti. Nel 2013, 19 anni dopo Rusty, i Rodan sono riemersi dall’oblio con la pubblicazione di una splendida compilation intitolata Fifteen Quiet Years. L’album comprende alcune tracce inserite all’epoca solo in raccolte varie e delle splendide registrazioni fatte per le famose BBC Sessions del leggendario John Peel. I brani registrati per lo storico e compianto speaker radiofonico britannico sono uno specchio fedele del suono della band, mostrando spesso la loro capacità di sviluppare un perfetto equilibrio tra paesaggi ammalianti e tempeste travolgenti. Purtroppo la band si sciolse subito, ma Rusty rimane una delle stelle più brillanti di quel periodo irripetibile. Ascoltate brani come “Gauge” per credere.

Sui Moonshake ho scritto un lungo articolo che ne ripercorre tutti i passi dagli esordi allo scioglimento. La band è stata formata da David Callahan e Margaret Fiedler nel 1990 scegliendo un nome che ne sancisse in maniera inequivocabile il legame con il krautrock (come abbiamo ascoltato prima, “Moonshake” non è altro che uno dei brani che compongono il seminale Future Days dei Can). I due leader trovano presto un loro equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa.
Eva Luna è il loro splendido esordio che si snoda in tredici meravigliose tracce dove Pop Group, Can, Public Image Ltd. e My Bloody Valentine si stringono in un caleidoscopico girotondo. I quattro mettono a fuoco un disco che, nei suoi tratti scarni e scheletrici, colpisce con le sue schegge new wave, con le sue argute bizzarrie, le poliritmie kraut, i fiati jazz e i suadenti innesti dub. Gli intricati ritmi di “Mig” Moreland e l’ipnotico basso dub di John Frenett, sono la migliore base possibile su cui possono partire brani fantastici come la torrenziale “Seen & Not Heard”, I Moonshake, inseriti nel filone post-rock britannico, sono stati semplicemente uno dei gruppi più originali degli anni novanta il cui unico torto è stato di essere stati troppo facili per l’avanguardia e troppo intellettuali per la massa.

Nella seconda metà degli anni 80 una band chiamata The Wolfhounds aveva pubblicato una manciata di album e numerosi singoli che avevano ottenuto un discreto successo grazie al loro pop abrasivo fondato sulle chitarre e legato alla scena C86. Dopo lo scioglimento della band avvenuto nel 1990 dopo l’uscita di Attitude, il cantante e chitarrista David Callahan aveva deciso di formare una nuova band, si, proprio quei Moonshake di cui abbiamo parlato in precedenza. Dopo lo scioglimento di questi ultimi Callahan si prese qualche anno sabbatico trasferendosi negli USA.
Ma il richiamo di casa era troppo forte, e Callahan, tornato in patria, prima formò insieme alla cantante Anja Buechele i The $urplus!, poi nel 2005 rimise insieme i The Wolfhounds per alcuni concerti. Evidentemente i concerti erano stati una splendida scintilla, abbastanza forte per far tornare la band qualche anno più tardi in sala di incisione e pubblicare nel 2016 l’album Middle Aged Freaks. L’attuale formazione vede oltre a Callahan, Andy Golding (chitarra e voce), Peter Wilkins (batteria) e Richard Golding (basso). Il terzo lavoro della nuova vita della band è uscito pochi mesi fa e si intitola Electric Music, un disco dove Callahan e Golding mostrano con le loro chitarre affilate, la visione di una Gran Bretagna divisa, una reazione allo snobismo e ai fallimenti all’interno del sistema politico britannico. La scrittura è emozionante, cupa, sincera e schiacciante come non mai e “Like Driftwood” un brano davvero trascinante.

Chris Cole, dopo le sue collaborazioni con Matt Elliott sia nei Movietone che nei Third Eye Foundation, è tornato nel 2015 dopo dieci anni di silenzio, ripescando la sua vecchia sigla Manyfingers. Il terso lavoro pubblicato con questa ragione sociale si intitola The Spectacular Nowhere ed è un disco estremamente affascinante nel suo usare un linguaggio di classica contemporanea “sporcato” da sonorità di folk oscuro e dedicato in qualche modo ad un vero stravagante outsider della scena musicale come Louis Thomas Hardin in arte Moondog. Cole per questo lavoro ha avuto il merito di ripescare proprio quel David Callahan di cui abbiamo parlato abbondantemente in precedenza. E chissà se proprio questa esperienza è stata fondamentale per riaccendere il fuoco nell’anima dell’ex Moonshake che canta in alcuni brani.
Il risultato è un album intrigante, affascinante, decadente, dove gli archi incrociano le loro direttrici sonore con jazz e trip-hop senza perdere fascino, anzi, guadagnando spessore sonoro traccia dopo traccia. Ascoltate nella splendida “It’s All Become Hysterical” come l’elettronica si mescola perfettamente con le atmosfere decadenti, il risultato è tanto scuro quanto intrigante. Peccato che dopo aver raggiunto la maturità sonora, Cole sembra di nuovo caduto nell’oblio.

Nonostante sia rimasta sempre lontana dalle luci dei riflettori e dal red carpet, Laura Veirs negli ultimi anni si è dimostrata autrice sempre ispirata ed estremamente attiva. Dopo aver esordito nel 1999, la Veirs ha pubblicato 11 album in studio, creando una sua personale etichetta, la Raven Marching Band, anche se i suoi dischi sono distribuiti dalla Bella Union in Europa. Un’autrice di rara eleganza, la cui scrittura è sempre misurata e sensibile, ogni suo album raccoglie la sufficienza piena e talvolta va anche oltre. Il suo ultimo album è uscito poche settimane fa, si intitola My Echo ed esplora con delicatezza e sensibilità il divorzio dal batterista/produttore/marito Tucker Martine.
Warp And Weft è il suo nono album in studio, uscito nel 2013 dove, condotta proprio da Martine, esplora tra folk, indie rock e country la serenità della sua seconda maternità. L’ennesima prova superlativa di un’artista non troppo celebrata come avviene per alcune sue colleghe ma che mostra disco dopo disco un livello qualitativo elevatissimo. Al disco collaborano KD Lang, Jim James dei My Morning Jacket e Neko Case, che impreziosiscono le sue notevoli doti narrative. Il delicato afflato jazz di “White Cherry” chiude il disco come meglio non si potrebbe.

Come ho detto più di una volta, uno dei (pochi) lati positivi di questa situazione che stiamo vivendo è il maggior tempo che possiamo dedicare alla riscoperta di album che abbiamo a casa e che non ricordavamo proprio di avere. Così mi sono imbattuto di nuovo nell’album di esordio del canadese Hayden Desser, un album che aveva in copertina il solo nome di battesimo intitolato Everything I Long For, uscito nel 1995 nel suo paese d’origine e solo un anno più tardi nel resto del mondo. Il disco uscì in piena epoca grunge e ne rispecchia in qualche modo l’estetica musicale.
Un disco che mostra in primo piano la voce roca dal cantautore, che con un accompagnamento scarno ma efficace, mostra un talento non indifferente nella composizione e nella interpretazione. Se il successo arrivò all’epoca soprattutto per merito dell’iniziale “Bad As They Seem”, brano spesso in heavy rotation su MTV omaggio al più celebre dei songwriters canadesi, il disco trova un inaspettato apice nella lunga e sofferta “Skates” inserita nel podcast. Hayden continuerà a scrivere musica senza trovare l’ispirazione del disco di esordio.

Tanti i dischi importanti che in questo infausto 2020 compiono il mezzo secolo. Dopo aver abbandonato i Them e dopo la delusione dell’album d’esordio, Van Morrison, aveva finalmente ottenuto il successo che meritava con il monumentale jazz-folk acustico di libero impatto espressivo che permeava Astral Weeks. Due anni dopo l’artista irlandese si trova ancora in uno stato di grazia artistica e decide di non fotocopiare l’album precedente ma di comporre brani dall’atmosfera più rilassata innestandogli un’anima soul che troveremo spesso nella sua discografia. Il risultato si intitola Moondance, un album diverso ma egualmente straordinario inciso da un’artista al culmine della sua ispirazione artistica.
Il disco è un viaggio straordinario dove Van The Man mette in un angolo la psichedelia e mette più in risalto i fiati rispetto agli archi che avevano riempito di stelle il cielo del lavoro precedente. Per registrarlo Van Morrison si era trasferito a Woodstock per respirare l’aria della comunità artistica del luogo cui aveva fatto parte anche Bob Dylan fino a qualche settimana prima. Alcuni dei musicisti incontrati a Woodstock saranno suoi compagni di avventura ancora per molti anni come il chitarrista John Platania, il sassofonista Jack Schroer, ed il tastierista Jeff Labes. Il disco, più rilassato e accessibile ma non per questo meno bello del precedente, ebbe un enorme successo e la rivista Rolling Stone all’epoca definì il lato A dell’album come “la facciata più bella storia del rock”. A parte questa definizione (che lascia il tempo che trova) ed il successo di Michael Bublé in tempi recenti (sigh) con la cover della title track, il disco presenta dei picchi straordinari come la “Brand New Day” inserita in scaletta, un brano meraviglioso impreziosito dallo straordinario sax di Schroer.

La chiusura del podcast è affidata ad un artista particolare. Un bel personaggio Aidan Moffat. Scozzese di Falkirk, è stato il cantante degli Arab Strap (e lo è tuttora vista la recente reunion del duo) prima di intraprendere una sfaccettata carriera solista. Dopo alcuni album firmati con il nome di Lucky Pierre, Moffat ha pubblicato da poco un lavoro interamente strumentale a nome Nyx Nótt. L’album si intitola Aux Pieds De La Nuit, ed è stato pubblicato dalla Melodic Records. Come facilmente intuibile dal titolo, l’ispirazione principale del musicista scozzese è stata la notte: “Ci ho lavorato quando tutti erano a casa a letto. Non dormo molto bene e sono un nottambulo, così la musica che ho fatto è naturalmente notturna.”
L’essenza stessa della notte e il gironzolare di Moffatt sotto la luce della luna hanno avuto un ruolo fondamentale nel processo creativo dell’album e nella scelta del suo nuovo moniker. “All’inizio avevo deciso di pubblicare il disco in maniera completamente anonima e stato pensando ad un nome che risultasse convincente e si adattasse completamente ai temi notturni dell’album. Nyx e Nótt erano due dee della notte della mitologia, Nyx da quella Greca e Nótt da quella antica scandinava.”
Si tratta, come avrete capito, di un album crepuscolare, i cui ritmi pulsano all’unisono con il tranquillo brusio della notte. Ci si muove tra elettronica, ambient e jazz accompagnati da un’orchestrazione che va dagli archi ai fiati, come se fossero un’ideale colonna sonora dei sogni di Moffat. Un muoversi nell’oscurità, guidati da un suono “realizzato con campioni, effetti sonori, tastiere e giocattoli occasionali. Tutte le tracce tranne una iniziano con la batteria: da un po’ collezionavo vari samples di batteria jazz e stratificavo alcuni kit uno sopra l’altro per creare ritmi, per poi aggiungerci sopra musica e altri samples.” Ascoltate la splendida “The Prairie“, uno degli ascolti più intriganti di quest’anno.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete la forza prorompente degli Skeleton Wrecks, il ripescaggio degli sfortunati (sarà il nome) Kaleidoscope statunitensi, il folle End Of The Game di Peter Green che compie 50 anni, un ricordo di Lou Reed a 7 anni dalla scomparsa, la follia glaciale dei Liars, l’omaggio all’Illinois per aver votato Biden fatto da un allora inconsapevole Sufjan Stevens, l’uomo fuori dal tempo Elvis Costello. E ancora il fantastico alt-folk dei This Is The Kit di Kate Stables, l’amore per l’Irlanda sviscerato dai Waterboys, il post rock di due delle bands meno ricordate dell’epoca: Sweep The Leg Johnny e Windsor For The Derby, e il post-punk di Abecedarians e Fourwaycross, per poi terminare con la soave bellezza dell’ultimo album dei Low. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. LIGHTNING BOLT: Horsepower da ‘Fantasy Empire’ (2015 – Thrill Jockey)
02. ROCKET FROM THE TOMBS: Hawk Full Of Soul da ‘Black Record’ (2015 – Fire Records)
03. HUMAN SWITCHBOARD: Don’t Follow Me Home da ‘Who’s Landing In My Hangar?’ (1981 – Faulty Products)
04. LOVEXPRESS: Do What To Do da ‘The Million Year Girl’ (2020 – Furry Heart Records)
05. THIS HEAT: Twilight Furniture da ‘This Heat’ (1979 – Piano)
06. RIDE: Paralysed da ‘Nowhere’ (1990 – Creation Records)
07. RODAN: Gauge da ‘Rusty’ (1994 – Quarterstick Records)
08. MOONSHAKE: Seen & Not Heard da ‘Eva Luna’ (1992 – Too Pure)
09. WOLFHOUNDS: Like Driftwood da ‘Electric Music’ (2020 – A Turntable Friend)
10. MANYFINGERS: It’s All Become Hysterical da ‘The Spectacular Nowhere’ (2015 –
Ici D’Ailleurs)
11. LAURA VEIRS: White Cherry da ‘Warp And Weft’ (2013 – Bella Union)
12. HAYDEN: Skates da ‘Everything I Long For’ (1996 – Outpost Recordings)
13. VAN MORRISON: Brand New Day da ‘Moondance’ (1970 – Warner Bros. Records)
14. NYX NÓTT: The Prairie da ‘Aux Pieds De La Nuit’ (2020 – Melodic)