Le avventure in musica di Sounds & Grooves rcontinuano nella 15° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di post-rock, wave, songwriting, indie-folk e altre meraviglie
Sono davvero felice di essere, con Sounds & Grooves, a fianco di tutti voi per la 15° stagione di www.radiorock.to. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura. Una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Continuiamo orgogliosamente a cercare quella libertà in musica che nell’etere sembra essere diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra avvolto nella nube della pandemia, ogni cosa sembra essere letta dietro ad una lente distorta. La politica non è mai stata così squallida e così divisiva, qualsiasi scelta, anche di marketing, sembra essere fatta da una parte per guadagnare consensi e likes (altro che criptovaluta…), dall’altra per scatenare consensi o sdegno sui social o su programmi televisivi di infima lega, facendo azzannare persone comuni che non vedono l’ora di dire la propria per sentirsi fuori dell’anonimato. C’è tanta ignoranza, solitudine, paranoia, paura, frustrazione, competizione sfrenata tra persone piccole piccole… Il livello della politica e del giornalismo negli ultimi anni è sprofondato in maniera clamorosa, non solo in Italia, basti vedere l’indecoroso primo confronto televisivo tra Trump e Biden di qualche tempo fa. Il mio pensiero va alle persone che sono state colpite duramente dal lockdown: a chi non c’è più, a chi ha combattuto questo nemico silenzioso in prima linea con grandi sacrifici, a chi sta lottando davvero con forza per riappropriarsi della propria vita, a chi è stato costretto a reinventarsi. Spero davvero che stavolta lo stato (utopia, lo so, vista la “statura” morale della nostra classe politica) possa riuscire a far ritrovare la propria identità ad un popolo così duramente colpito negli affetti, nelle strutture, nel lavoro e nel quotidiano. In questo mondo dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e amore, noi proviamo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone non omologate che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva.
Nel terzo viaggio della stagione trovate le ardite costruzioni di Dead Rider e Cheer-Accident, il nuovo attesissimo album degli Idles, l’integrità hardcore dei Fugazi, un’istantanea di Manchester alla fine dei ’70 con i Public Image Ltd, la meraviglia nascosta di due outsider come Wingtip Sloat e Alvarius B. E se non vi basta ci sarà spazio per il folk-rock da battaglia degli O’Death, la follia dei Supreme Dicks, due straordinari musicisti italiani che insieme a Mike Watt formano Il Sogno Del Marinaio, l’indie rock perfetto di The Van Pelt e The Chills, la delicatezza acustica dei Metal Mountains e il commovente tributo al mare dei Dirty Three. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast parlando di una band mutante creata da un personaggio come Todd Rittmann, capace di creare una sorta di incastro difficile ma simbiotico tra blues, rock e funk. Uno dei due chitarristi degli U.S. Maple (autori di 5 pregevoli album dal 1995 al 2003 e perfetta incarnazione di quel fenomeno che andava sotto il nome di “Now Wave”), Todd Rittmann, nel 2009 ha creato i Dead Rider, un nuovo progetto con cui portare a compimento la sua missione di scomporre e ricomporre vari generi musicali. Rittmann con i suoi nuovi compagni di avventura: Matthew Espy, batteria, Andrea Faugh, tromba e tastiere, e Thymme Jones, elettronica, tastiere, fiati e batteria (questi ultimi due anche negli straordinari Cheer-Accident) ci hanno colpito al cuore nel 2014 con un album intitolato Chills On Glass.
Il disco riesce ad incantare per il gioco degli incastri, e per l’abilità di Rittmann e compagni di creare un’equilibrata alchimia tra ingredienti apparentemente molto diversi, per poi confermarsi negli anni successivi ambiando riferimenti stilistici ma facendo di nuovo centro. La missione di Rittmann è sempre la stessa: scomporre e ricomporre, ma nei Dead Rider ha molte più frecce al suo arco rispetto agli U.S. Maple. Un intro cyberfunk seguito da un trascinante refrain recitato ci immette nel mondo del singolo “Blank Screen”, la ritmica tribale e le convulsioni pop che si affacciano strizzando l’occhio per poi scomparire rendono il tutto assolutamente trascinante. Il suono dell’intero album è spesso inafferrabile, spiazzante, eccitante. Uno di quei dischi che per qualità e varietà stilistica non mi stancherei mai di ascoltare.

Abbiamo parlato in precedenza dei Cheer-Accident, gruppo tanto creativo quanto, purtroppo, poco considerato. La creatura di Thymme Jones ha sempre preferito trame tortuose per esprimere il proprio discorso musicale. Un incredibile ed inestricabile intreccio di post-rock, kraut, progressive, dove melodie e dissonanze sanno amalgamarsi in un’appiccicosa ed intrigante melassa. La band in realtà è stata sempre una sorta di collettivo mutante, plasmato dalle sapienti mani di Thymme Jones (batteria, voce, piano, tromba, noises), capace di passare da quartetto a ensemble comprensivo di fiati ed archi.
Negli ultimi anni il fulcro del gruppo sembra essersi stabilizzato, vedendo a fianco del leader il basso e le tastiere di Dante Kester, la chitarra e la tromba di Jeff Libersher. Intorno a questo trio girano a turno numerosi altri musicisti. In particolare, per il loro diciottesimo album in studio intitolato Putting Off Death troviamo il sax di Cory Bengtsen e Ross Feller, il violino di Julie Pomerleau e molti altri musicisti di Chicago, impegnati a rendere ancora più denso e complesso il suono. L’album, come quasi tutta la discografia della band, regala momenti di complessità intrigante come dimostra la splendida “Lifetime Guarantee”.

Strano pensare che i Fugazi, nonostante siano riconosciuti come una della band fondamentali dell’hardcore americano, rimangano davvero pressoché sconosciuti al grande pubblico. Eppure il loro leader Ian McKaye è una delle menti più lucide del rock americano, fondatore anche dei seminali Minor Threat e fondatore dell’etichetta indipendente Dischord. La sua strada, che percorre con determinazione e grande coerenza, è quella di un’intellettualizzazione dell’hardcore che diventa più intimo, sia pur lacerato da tensioni mostruose.
Repeater è l’inizio di una saga straordinaria. L’album di esordio di una band mostruosa, un disco dove la loro straripante energia viene incanalata in composizioni memorabili come la “Turnover” che apre le danze. La band, che ha fatto dell’integrità il proprio marchio di fabbrica, è ufficialmente in pausa dal 2002, dopo l’uscita del loro ultimo album in studio The Argument (2001). I Fugazi sono, senza ombra di dubbio, uno dei gruppi più importanti e seminali degli ultimi 30 anni.

Una volta esaurita l’onda forte del punk, Johnny “Rotten” Lydon si allontana dalla rabbia urgente dei Sex Pistols per tuffarsi in ambientazioni estremamente più scure sotto la sigla di Public Image Ltd. Per questo viaggio tra dark wave e dub, Lydon chiama intorno a se uno sperimentatore come il bassista dub Jah Wobble, un chitarrista come Keith Levene (già nella primissima formazione dei Clash) e il batterista Tim Walker. Una formazione estremamente tecnica che condivide la visione di alienazione depressa del leader dando vita ad uno dei suoni più distintivi ed influenti del periodo.
Dopo aver scaldato i motori nel 1978 con First Issue, un anno più tardi i PiL fanno centro pieno con un album come Metal Box che è entrato nella storia anche per l’artwork: una confezione di metallo con tre 12″ all’interno. Un box che esprime anche a livello visivo e tattile una visione angosciosa e gelida della società. Il disco è permeato di momenti di intensa claustrofobia, un’alienazione disperata esternata dal canto di Lydon e sottolineata dal basso profondo e ossessivo di Wobble. “Memories”, quì in una splendida versione live registrata nella storica location del The Russell Club (più conosciuto come Factory) di Manchester nel 1979 ed inserita nella versione deluxe del disco, è uno splendido e nervoso brano con innesti funk arabeggianti in un corpo new wave a rappresentare un disco fondamentale.

Quante volte gli Idles sono passati da queste pagine. La loro carriera, come abbiamo detto più volte, è stata preparata lentamente, ma probabilmente nemmeno loro avrebbero potuto prevedere l’esplosione in terra britannica e non solo, sin dalla pubblicazione dell’album di esordio Brutalism tre anni or sono. La band di Bristol ha subito occupato un posto speciale nei cuori del pubblico assetato di post punk vero e senza fronzoli. Le liriche di Joe Talbot non hanno fatto prigionieri, spiattellando in maniera a volte cruda ma reale i disagi di una generazione spiazzata dalla Brexit e desiderosa di giustizia ed equità. Anche il secondo Joy As An Act Of Resistance aveva fatto centro pieno, grazie ad inni come Danny Nedelko e grazie ad una formula sonora ormai collaudata e alle indubbie capacità empatiche ed energiche on stage del quintetto.
Il terzo album a volte è quello della verità. Gli Idles lo hanno pubblicato in piena pandemia, e in un momento di estrema popolarità, cosa che gli ha portato, come prevedibile nei nuovi perversi meccanismi social, anche molti attacchi frontali. Non ultimo quello di Lias Saoudi, leader dei Fat White Family, che ha accusato Talbot e compagni di essersi ingiustamente appropriati della retorica della cosidetta working class pur essendo figli della classe media. Secondo Saoudi il razzismo di alcuni figli della terra di Albione è semplicemente una conseguenza della povertà e dell’indifferenza che subiscono da sempre, e gli Idles non dovrebbero permettersi di giudicarli dai loro scranni sicuri e dorati. In realtà credo che sia una considerazione un po’ semplicistica, ma è solo uno degli attacchi che ha dovuto subire la band. In ogni caso, forti di una fan base affezionata e attaccata al gruppo come poche, Talbot e compagni hanno pubblicato Ultra Mono, il terzo album che presenta uno spettro sonoro più articolato pur mantenendo inalterate le aggressive coordinate sonore che li hanno resi una della band più importanti degli ultimi anni. I suoni sono stati curati da Kenny Beats, spesso dietro il mixer in produzioni hip-hop, e a collaborare con loro sono stati chiamati personaggi come Jehnny Beth, Warren Ellis (nuovo deus ex machina dei Bad Seeds ed ex Dirty Three), David Yow dei Jesus Lizard, e Colin Webster che con il suo sassofono rende la “Reigns” proposta in scaletta una delle tracce più interessanti di un album e di una band che è riuscita di nuovo a colpire al cuore critica e pubblico.

Altro album riscoperto in questo periodo di forzato lavoro casalingo. Gli O’Death da Brooklyn, dopo due album in cui avevano sviscerato il loro lato più aggressivo pur nella loro particolare strumentazione che strizza l’occhio al folk per l’uso di mandolino e violino, trovano la quadratura del cerchio nel 2011 con un album intitolato Outside. Nelle 11 tracce del disco il quintetto dello stato di New York riesce a rallentare la loro corsa dando vita a ballate da cantare in gruppo intorno ad un fuoco, riuscendo ad unire le coste irlandesi con le montagne americane.
Tra ballate, gighe e valzer, Gabe Darling (chitarra, ukulele, piano, banjo e cori), Greg Jamie (voce, chitarra e harmonium), Jesse Newman (basso e piano), Robert Pycior (violino e piano) e David Rogers-Berry (batteria e percussioni) danno vita ad una specie di oscuro rituale cui è impossibile sottrarsi. Arrangiamenti semplici e curati, ed una grande capacità nel creare atmosfere melodiche che sembrano provenire da antiche ere ancestrali, come la splendida “Ghost Head” inserita in scaletta.

A volte capita che arriva un album a fine anno capace di farti rivedere la classifica che a fatica era stata compilata. Tutto mi aspettavo a fine 2018 tranne il ritorno di uno dei gruppi di culto del lo-fi statunitense di due decenni fa. I Wingtip Sloat dalla Virginia avevano pubblicato due splendidi lavori a metà degli anni ’90 salvo poi scomparire nel nulla. Sono riemersi dall’oblio sul finire del 2018 per scombussolare la mia classifica. Purge And Swell è un “normale” album di 10 tracce ma all’interno troviamo un CD intitolato Lost Decade, composto da ben 31 tracce per un totale di 76 minuti di musica.
E se le dieci tracce del vinile contengono le classiche ballate lo-fi della band che richiamano echi di Pavement e Swell Maps (come la “Working Title: Hope” inserita in scaletta), l’ora e passa di musica contenuta nel CD bonus rispecchia il lato più coraggioso della band. Infatti i 31 brani registrati tra il 2013 ed il 2016 contengono brevi bozzetti strumentali, brani esemplari e geniali riusciti meravigliosamente, e persino alcune irriconoscibili cover di personaggi come Brian Eno, Bob Dylan, Wire, e Belle & Sebastian tra gli altri. Sopra a tutto c’è la passione di una band che pur non incidendo nulla negli ultimi 20 anni, non ha mai perso la passione di comporre e suonare insieme.

Alan Bishop è un contrabbassista, chitarrista e sassofonista americano, grande appassionato di tradizioni mediorientali e fondatore di una meravigliosa ed indimenticabile band chiamata Sun City Girls. La morte del percussionista Charles Gocher aveva interrotto bruscamente la strada del gruppo ma non la voglia di sperimentare e di fare musica di Alan Bishop e di suo fratello Richard. Due anni fa insieme all’egiziano Maurice Louca ed al canadese Sam Shalabi ha dato vita ai Dwarfs of East Agouza, un progetto estremamente interessante che andava a contaminare gli strumenti e i suoni della tradizione araba con l’elettronica europea. Dietro al moniker di Alvarius B. i fratelli Bishop hanno registrato in Egitto insieme a molti collaboratori locali e non, 35 nuove canzoni spalmate su tre singoli LP o un doppio CD.
With A Beaker In The Burner And An Otter In The Oven è una meraviglia assoluta, ad ascoltarla ripetutamente non riesco a comprendere come sia sfuggita alla mia Playlist 2017 e come non sia stata recensita da alcuna delle più importanti webzine italiane. Tanti anni di tradizioni americane rivisitate al meglio, sensibilità mediorientale, alcuni maestri di musica italiana (Morricone e Piccioni) citati esplicitamente, tutto contribuisce a fare di questo album una piccola-grande meraviglia. Elettrico, acustico, melodia e qualche dissonanza, tutto si miscela perfettamente, un disco suonato con passione e perizia. Difficile trovare un brano che possa rappresentare un disco così variegato, alla fine la scelta è caduta su “The Reason”, un lungo brano che presenta tutte e due le facce del gruppo, quella dissonante e sperimentale e quella melodica e tradizionale.

Per molto tempo ho pensato di passare questo disco, ma non ho mai trovato il momento giusto ed il coraggio per farlo. In realtà all’inizio avevo pensato di inserire i Supreme Dicks all’interno di Droni e Bordoni, poi ho preso il coraggio a due mani e ho inserito il brano più accessibile di un album tanto importante quanto ostico in un podcast “regolare”. Dan Oxenberg, Jon Shere e Steve Shafel vengono da Boston, si formano nel 1984 ma riescono ad ottenere un contratto discografico solo 10 anni più tardi. Probabilmente per “colpa” della loro attitudine eccentrica che li ha portati a deviare dal percorso folk di partenza andando ad infilarsi in atmosfere stralunate annullando tutte le convenzioni sedimentate.
Un approccio particolare, che ad un ascolto distratto può sembrare quasi svogliato. Non di rado aggiungevano ai loro brani vari effetti sonori che ne svelavano l’ironia di fondo, che in realtà non era poi così nascosta visto il nome della band… In ogni caso la band, purtroppo restata sempre oggetto di culto nonostante i numerosi concerti a fianco di Dinosaur Jr, pubblicò nel 1996 il suo ultimo e miglior disco: The Emotional Plague. Un album dove la psichedelia, l’avanguardia e le ambientazioni da folk medioevali si stemperano in un collage sonoro di incredibile forza visionaria e magnetica. “Cúchulain (Blackbirds Loom)” è una delle tracce più convenzionali, ma in cuor mio spero sia abbastanza per convincervi a tuffarvi in un mondo tanto oscuro quanto affascinante.

Abbiamo musicisti straordinari in Italia. E per straordinario non intendo solo l’accezione tecnica della parola, ma anche e soprattutto la scelta dei progetti ed il risultato finale. Il chitarrista Stefano Pilia (In Zaire/Massimo Volume/Afterhours/Rokia Traore’ Malian) ha conosciuto il leggendario bassista Mike Watt (Minutemen, fIREHOSE, e nella versione recente di Iggy & The Stooges) agli inizi degli anni 2000. Ma è nel 2009 che Pilia ha l’idea di creare un trio fuori dagli schemi e insieme al batterista Andrea Belfi (Christa Pfangen, Hobocombo, Carla Bozulich) contatta Watt che è entusiasta di unirsi ai due musicisti italiani per creare una sinergia chiamata Il Sogno Del Marinaio.
Se l’esordio del trio intitolato La Busta Gialla aveva mostrato un carattere più istintivo, nel seguito intitolato Canto Secondo si nota un maggior affiatamento nell’interplay tra i tre musicisti. Un buttarsi senza rete nei meandri del blues, del jazz, senza dimenticare i propri personali percorsi che portano i brani a dipanarsi su diversi percorsi trovando soluzioni musicali sempre godibili come la splendida “Animal Farm Tango” inserita in scaletta dove Pilia trascina i suoi compagni di avventura in una abrasiva e trascinante navigazione. Dal 2017 Paolo Mongardi ha sostituito Andrea Belfi dietro ai tamburi.

The Van Pelt sono una formazione indie-rock newyorkese formata da Chris Leo nel 1993 che ha all’attivo un paio di album ed una manciata di EP pubblicati prima dello scioglimento del gruppo avvenuta nel 1997. Nel 2014 la band si è riformata pubblicando prima un album di vecchie registrazioni intitolato Imaginary Third, poi un nuovo album dal vivo che si intitola Tramonto. Il disco, prodotto dall’etichetta italiana Flying Kids Records in collaborazione con l’inglese Gringo Records, è stato registrato durante il tour europeo del 2014 ed è stato registrato durante la prima tappa di quel tour, un concerto segreto tenutosi a Ferrara in un giardino, con un pubblico esclusivo formato da amici dei componenti della band.
La pubblicazione di questo album e la riuscita del tour europeo sembrava aver spinto il gruppo ad iniziare una nuova fase della propria carriera. Ma in realtà questa spinta propulsiva sembra già esaurita, e la band non ha mai registrato un nuovo album di materiale originale per dare un seguito a quella meraviglia uscita nel 1997 ed intitolata Sultans of Sentiment. Proprio quell’ultimo album in studio è stato l’apice della vena compositiva di Chris Leo (fratello di Ted Leo) e compagni, un album pervaso da ritmi circolari, chitarre torbide, fluide e ripetitive. Il meglio del rock indipendente americano dell’epoca, come dimostra la splendida apertura di “Nanzen Kills A Cat”. Dopo quest’album Chris Leo e la bassista Toko Yasuda formeranno i The Lapse, band che durerà molto poco in quanto la Yasuda preferirà unirsi ai Blonde Redhead.

Durante gli anni ’80 i The Chills non solo erano uno dei gruppi di punta del rock della Nuova Zelanda, ma avevano anche scatenato un movimento estremamente interessante di gruppi ed etichette: il cosiddetto Dunedin Sound. La band ha sempre avuto come leader Martin Phillipps, con la sua chitarra planante e la voce cristallina. Un gruppo che ha avuto una storia travagliata i The Chills, con Phillips come unico punto fermo nonostante i periodi tormentati che lo hanno costretto a fermare il suo progetto per moltissimi anni. Risolti, speriamo definitivamente, i problemi di droghe e depressione, Phillips nel 2015 ha festeggiato i 35 anni di vita della sua sigla decidendo di tornare ad incidere il primo album di materiale nuovo dopo ben 19 anni di silenzio.
Silver Bullets è un album che ce lo restituisce in grandissima forma. Nei solchi del disco si mescolano l’approccio naif dei primi anni 80 con le mature riflessioni dovute al superamento dei suoi problemi personali. Rimane il suo smisurato talento nella creazioni di un impianto melodico e di creazioni armoniche assolutamente trascinanti e strabilianti. Ascoltando “Underwater Wasteland” molti dovrebbero prendere appunti sul come è possibile costruire canzoni dalle melodie e dinamiche perfette. A maggio è uscito The Chills: The Triumph & Tragedy of Martin Phillipps, un documentario sulla band neozelandese realizzato grazie ad un crowdfunding dove viene narrata in prima persona dalo stesso Phillipps la storia di un musicista che è passato dal grande successo a decenni di debiti e dipendenze. Fortunatamente il ritorno alla musica ed il faccia a faccia con i suoi demoni gli hanno permesso di riprendersi anche fisicamente.

Nonostante il nome della band possa evocare fantasmi di suoni aggressivi, i Metal Mountains sono un trio formato nel 2011 (e subito sciolto a quanto ne so) formato da tre musicisti dell’area folk acida di NYC. Elen Rush (voce, chitarra e synth), Pat Gubler (chitarra, piano e xilofono) e Samara Lubelski (violino) ci accompagnano dolcemente in questo album chiamato Golden Trees in un viaggio visionario tanto breve quanto meravigliosamente intenso. Alberi dorati tra cui è bello nascondersi, melodie distese accompagnate da chitarra e violino, con dolci rintocchi di piano a far capolino ogni tanto.
Sono solo 36 minuti scarsi, ma le sette canzoni, tra cui la straordinaria “The Golden Trees That Shade Us” inserita in scaletta, scorrono evocative nei nostri padiglioni auricolari, deliziandoli e cullandoli tra voci flebili, chitarre distese e violini evocativi. Una pace dei sensi che avevo in qualche modo dimenticato, ma che è stato meraviglioso riscoprire e riassaporare.

La chiusura del podcast è affidata ad un gruppo che, mea culpa, non ho mai passato così spesso come meriterebbe. Se Warren Ellis ed il suo violino adesso sono associati senza dubbio ai Bad Seeds di Nick Cave, non va dimenticato che insieme a Mick Turner (chitarra) e Jim White (batteria), ha dato vita ad un gruppo che per 15 anni ha mostrato un nuovo approccio sonoro estremamente riconoscibile. I Dirty Three sono nati a Melbourne, Australia, e si sono messi in luce già dall’esordio di Sad & Dangerous targato 1994, come un gruppo capace di unire il folk rock e la psichedelia alla musica da camera. Il tutto con una estrema malinconia di fondo. Segno distintivo del gruppo, il violino di Ellis che monta un pick-up chitarristico per poterne sfruttare i riverberi del feedback.
Nel 1998 il trio entra in studio con Steve Albini per creare una sorta di concept album incentrato sul mare. Il risultato è l’emozionante Ocean Songs, un disco dove i tre musicisti riescono a ricreare mirabilmente tutte le emozioni, i colori e i suoni del mare. La malinconia e la solitudine dei grandi navigatori solitari, il vento, la risacca, le onde, le suggestioni della voce delle sirene. Una tensione musicale e spirituale quella che appare tra un’onda e l’altra in un disco capace di colpire, trascinare e commuovere. Ascoltate “Distant Shore” e lasciatevi trasportare dalle onde verso la battigia da questi tre straordinari musicisti.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete la follie irrequieta e colorata dei Lightning Bolt, l’energia dei redivivi Rocket From The Tombs, il ripescaggio dei meravigliosi Human Switchboard, l’art rock glaciale dei seminali This Heat e quello più aperto dei nostrani Lovexpress, lo shoegaze dei Ride, il post rock americano dei Rodan e quello inglese dei Moonshake. E se non vi basta ci sarà spazio per il ritorno degli energici Wolfhounds di Dave Callahan e della psichedelia da camera dei Manyfingers, il cantautorato delicato di Laura Veirs e quello quasi dimenticato del canadese Hayden, i 50 anni di un capolavoro assoluto come Moondance di Van Morrison e l’elettronica notturna di Aidan Moffat nascosto dietro il moniker di Nyx Nótt. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. DEAD RIDER: Blank S©reen da ‘Chills On Glass’ (2014 – Drag City)
02. CHEER-ACCIDENT: Lifetime Guarantee da ‘Putting Off Death’ (2017 – Cuneiform Records)
03. FUGAZI: Turnover da ‘Repeater’ (1990 – Dischord Records)
04. PUBLIC IMAGE LTD.: Memories (Live at Manchester, The Russell Club ‘The Factory’ 18/6/79) da ‘Metal Box’ (1979 – Virgin)
05. IDLES: Reigns da ‘Ultra Mono’ (2020 – Partisan Records)
06. O’DEATH: Ghost Head da ‘Outside’ (2011 – City Slang)
07. WINGTIP SLOAT: Working Title: Hope da ‘Purge And Swell / Lost Decade’ (2018 – VHF Records)
08. ALVARIUS B: The Reason da ‘With A Beaker On The Burner And An Otter In The Oven’ (2017 – Abduction)
09. SUPREME DICKS: Cúchulain (Blackbirds Loom) da ‘The Emotional Plague’ (1996 – Homestead Records)
10. IL SOGNO DEL MARINAIO: Animal Farm Tango da ‘Canto Secondo’ (2014 – Clenched Wrench)
11. THE VAN PELT: Nanzen Kills A Cat da ‘Sultans Of Sentiment’ (1997 – Gern Blandsten)
12. THE CHILLS: Underwater Wasteland da ‘Silver Bullets’ (2015 – Fire Records)
13. METAL MOUNTAINS: The Golden Trees That Shade Us da ‘Golden Trees’ (2011 – Amish Records)
14. DIRTY THREE: Distant Shore da ‘Ocean Songs’ (1998 – Touch And Go)