Le avventure in musica di Sounds & Grooves riprendono nella 15° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di songwriting, hardcore, indie-folk e altre meraviglie
Sono davvero felice di tornare, con Sounds & Grooves, a fianco di tutti voi per la 15° stagione di www.radiorock.to. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura. Una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Continuiamo orgogliosamente a cercare quella libertà in musica che nell’etere sembra essere diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra avvolto nella nube della pandemia, ogni cosa sembra essere letta dietro ad una lente distorta. La politica non è mai stata così squallida e così divisiva, qualsiasi scelta, anche di marketing, sembra essere fatta da una parte per guadagnare consensi e likes (altro che criptovaluta…), dall’altra per scatenare consensi o sdegno sui social o su programmi televisivi di infima lega, facendo azzannare persone comuni che non vedono l’ora di dire la propria per sentirsi fuori dell’anonimato. C’è tanta ignoranza, solitudine, paranoia, paura, frustrazione, competizione sfrenata tra persone piccole piccole… Il livello della politica e del giornalismo negli ultimi anni è sprofondato in maniera clamorosa, non solo in Italia, basti vedere l’indecoroso primo confronto televisivo tra Trump e Biden di qualche tempo fa. Il mio pensiero va alle persone che sono state colpite duramente dal lockdown: a chi non c’è più, a chi ha combattuto questo nemico silenzioso in prima linea con grandi sacrifici, a chi sta lottando davvero con forza per riappropriarsi della propria vita, a chi è stato costretto a reinventarsi. Spero davvero che stavolta lo stato (utopia, lo so, vista la “statura” morale della nostra classe politica) possa riuscire a far ritrovare la propria identità ad un popolo così duramente colpito negli affetti, nelle strutture, nel lavoro e nel quotidiano. In questo mondo dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e amore, noi proviamo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone non omologate che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva.
Nel secondo viaggio della stagione trovate un piccolo omaggio ad un grande songwriter come il compianto Vic Chesnutt, che ascolterete in solitaria ed insieme ad Elf Power e ai sodali The Amorphous Strums. rock da riscoprire dei nord irlandesi That Petrol Emotion, il 50°anniversario di un grande classico come After The Gold Rush di Neil Young, le reminiscenze bucoliche di Ryley Walker, il grande ritorno dei Bright Eyes, il pop perfetto di Ariel Pink, il folk apparentemente sconclusionato ma straordinario di Richard Dawson. E se non vi basta troverete anche il folk-pop sghembo di Tim Presley’s White Fence, le atmosfere scure ed immaginifiche dei The Black Heart Procession, la delicatezza straordinaria di Lisa Germano e lo splendido e commovente esordio solista di Josiah Johnson, liberato dai demoni del passato. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Il podcast inizia con gruppo che, nonostante l’indiscutibile validità della proposta, non ebbe il successo proporzionato al talento. Il nome Kaleidoscope, nonostante faccia pensare subito a quella clamorosa esplosione di colori innescata in musica nella seconda metà degli anni ’60, non ha portato molta fortuna ne a quelli britannici ne agli omonimi statunitensi. E dire che la band del chitarrista e maggior compositore Eddie Pumer, purtroppo recentemente scomparso, aveva tutte le carte in regola per sfondare in un anno, il 1967, che ha visto esordire veri pesi massimi del rock come Pink Floyd, Velvet Underground o The Doors.
Erano senza dubbio una delle band più promettenti della neonata scena psichedelica britannica. Il loro album di esordio, Tangerine Dream, era una delle scelte preferite di molte radio e soprattutto del guru dei DJ dell’epoca: John Peel. I singoli “Flight From Ashiya” e “Dive Into Yesterday” andavano alla grande sulla BBC, eppure quell’album estroso e melodioso non riuscì a colpire il pubblico. Sorte anche peggiore toccò al successivo Faintly Blowing di due anni più tardi, che ne provocò lo scioglimento. Adesso che finalmente l’esordio è stato ristampato, vale la pena riascoltare un gruppo tanto talentuoso quanto sfortunato.
A proposito di gruppi che non hanno ottenuto il successo e la fortuna che avrebbero meritato. Andiamo avanti di due decadi e ci spostiamo a Derry in Irlanda Del Nord, città famosa suo malgrado per la famosa Bloody Sunday del 1972. Qui si sono formati dalle ceneri degli Undertones, i That Petrol Emotion, gruppo che presto trasloca a Londra a cercar fortuna trovando un cantante notevole come l’americano Steve Mack. La band ha una forte carica espressionista, una perfetta miscela esplosiva in bilico tra punk, pop e quel rock “da stadio” che fece la fortuna degli U2.
Il tutto condito da un’aperta e decisa presa di posizione politica, un impegno sociale che era profondamente radicato nel loro DNA. Talmente profondo da fargli rifiutare la proposta della stessa band di Bono ad aprire per loro. Il gruppo dei fratelli Ó Neill ha sempre imputato al gruppo di Dublino il mancato impegno politico a favore dell’Irlanda. Il loro album di esordio è uno di quei gioielli dimenticati da riascoltare e possedere. Manic Pop Thrill, è un disco capace di accarezzare e di colpire i nostri padiglioni auricolari, di rapirci e portarci in una diversa dimensione, come dimostra la straordinaria “Lifeblood”.
Se si parla di Athens, Georgia, il primo pensiero va sicuramente alle vere celebrità cittadine, gli R.E.M. Ma nella stessa città sono nate altre realtà consolidate come B-52’s, Of Montreal, Neutral Milk Hotel e Elf Power. Proprio questi ultimi, 10 anni fa, hanno dato alle stampe uno splendido album autointitolato dedicato alla memoria di un amico come Vic Chesnutt che ci aveva lasciato un paio di settimane prima dell’inizio delle registrazioni del disco. Ispirati dal ricordo di Chesnutt, la band di Andrew Rieger e compagni ha dato alle stampe forse l’album più ispirato del suo catalogo.
Un pop psichedelico scintillante e delicato, in perfetto equilibrio tra Rain Parade e Big Star, malinconico e straripante, dove la band trova la quadratura del cerchio in 12 gioiellini come la splendida “Little Black Holes” messa quasi in chiusura di programma. Non c’era modo migliore per celebrare la vita ed il talento di un personaggio straordinario come Vic Chesnutt.
A cavallo tra i ’90 e gli anni 2000 ci sono stati diversi songwriters che hanno saputo tracciare una linea importante e toccare le corde giuste dell’emozione. In particolare tre ragazzi tanto talentuosi quanto fragili psicologicamente sono riusciti ad emozionarmi in maniera importante, tre ragazzi che sono stati vittime della loro stessa fragilità interiore scegliendo la medesima strada per allontanarsi da questo mondo. Vic Chesnutt, Mark Linkous aka Sparklehorse e Jason Molina. Anche se quest’ultimo non ha proprio volontariamente lasciato questo piano dell’esistenza ma in qualche modo è come se lo avesse fatto lentamente ma inesorabilmente, aveva grandi problemi con l’alcool e purtroppo non aveva l’assicurazione sanitaria: questo negli Stati Uniti difficilmente perdona… Tornando a Chesnutt, già ricordato parlando degli Elf Power, nel 1983 fu vittima di un tremendo incidente stradale mentre guidava sotto effetto di alcool. Perse il controllo della vettura finendo in un canale, uscendone con gli arti inferiori paralizzati e rimanendo su una sedia a rotelle per il resto della sua vita.
Questo non impedì a Chesnutt di iniziare una carriera musicale che trovò una svolta con il trasferimento a Athens, Georgia, e l’interesse di Michael Stipe che produsse i suoi primi due lavori. At The Cut è stato il suo ultimo lavoro, uscito per la Constellation, e che ripropone la sinergia con i Silver Mt. Zion e con Guy Picciotto dei Fugazi. Sue facciate dove si mescolano perfettamente il songwriting dolente di Chesnutt con le atmosfere cinematiche e tragiche del collettivo canadese. “Chinaberry Tree” è solo una delle meraviglie di questo album di cui consiglio assolutamente l’ascolto. Una scrittura magistrale ed ipnotica, tormentata e affascinante.
A questo punto chiudiamo il trittico dedicato a Vic Chesnutt con un album realizzato insieme agli amici Elf Power e ai sodali Curtiss Pernice e Sam Mixon, nascosti dietro il moniker di The Amorphous Strums. Il disco, intitolato Dark Developments e registrato nello studio casalingo di Chesnutt, mostra il clima rilassato e divertito delle session. La parte scura di Chesnutt sembra aggirarsi più nei versi, con una forte critica verso la politica americana (pensiamo a cosa potrebbe dire oggi…) che nella musica che si rivela più libera e leggera del solito. L’incontro tra l’introverso Chesnutt e i più solari Elf Power si risolve in una mediazione estremamente gradevole, dove le varie anime dei musicisti riescono a fondersi naturalmente senza snaturarsi. La lunga “Phil The Fiddler” posta in chiusura, è uno dei vertici di un disco estremamente gradevole.
Tanti album in questo funesto 2020 hanno tagliato il traguardo del mezzo secolo. Uno di questi è il terzo lavoro di Neil Young, After The Gold Rush, accreditato al solo canadese anche se i membri dei Crazy Horse (Ralph Molina, Billy Talbot e Danny Whitten) sono sempre presenti ad accompagnarlo anche se stavolta in modo più marginale, visto soprattutto il peggioramento delle condizioni di Whitten, sempre più schiavo dell’eroina. Young recluta il giovanissimo Nils Lofgren, si fa aiutare dal sodale Stephen Stills e inizia un percorso meno rock e più folk, che porterà due anni più tardi alla pubblicazione del suo maggior successo commerciale: Harvest. Il disco è più melodico del nervoso album precedente, alterna ballate ariose a brani più tirati ed elettrici.
Uno dei brani migliori del lotto dell’album è sicuramente “Southern Man”, tristemente attuale anche dopo mezzo secolo nel descrivere il razzismo nei confronti degli afroamericani negli stati meridionali del Nord America. Nel testo, Young racconta la storia di un uomo bianco (a rappresentare l’intero mondo che crede nel white privilege) e di come ha sempre maltrattato i suoi schiavi. Young chiede, quasi supplicando, quando il Sud si farà perdonare per le fortune costruite attraverso la schiavitù: “Ho visto il cotone e ho visto il nero, alte ville bianche e piccole baracche. Southern Man, quando li ripagherai?”. Il disco, che rappresenta l’anima country folk del canadese, è uno dei capisaldi di una discografia tanto sterminata quanto straordinaria.
“Prendete Ryley Walker, un giovane chitarrista dedito al songwriting ed al fingerpicking, unitelo ad una band formata in parti uguali da vecchi marpioni e giovani talenti della scena jazz di Chicago, mettete il tutto all’interno della consolle pilotata da un certo Cooper Crain (geniaccio psichedelico membro dei Cave e dei Bitchin’ Bajas) e mescolate per bene prima di servire questo cocktail a base di whisky rigorosamente su tavolini di legno all’interno di qualche ipotetico ambiente bucolico posto tra l’Illinois e la Gran Bretagna, e lasciatevi trasportare dall’effetto simile a quello dell’assenzio.” Non amo autocitarmi, ma l’entusiasmo verso un disco che aveva gli stessi colori degli straordinari mondi di Bert Jansch, Van Morrison (evocato perfino nella copertina), Nick Drake, Tim Buckley o John Martyn, mi aveva portato a scrivere così di Primrose Green, album dove era ben chiara la linea temporale ed affettiva seguita dal chitarrista di Chicago, capace di mantenere una scrittura impeccabile, emozionale e a volte sperimentale pur non facendo nulla per celare gli espliciti riferimenti.
Walker successivamente si è un po’ perso per poi ritrovarsi, ma Primrose Green rimane sempre un meraviglioso mondo bucolico dove rifugiarsi. Uno dei brani cardine del disco è sicuramente “Sweet Satisfaction”. Il brano si dipana partendo da un incipit che profuma di bossanova, riprendendo e rinforzando il canovaccio della jam stratificata. I brano via via rivela il suo vero spartito mentre la voce e la chitarra di Walker vanno a lambire i magici confini dello stellare John Martyn di Solid Air.
Difficile non trovare ottima la scrittura di Conor Oberst, con i Bright Eyes e poi nei suoi album solisti. L’avventura con i sodali Mike Mogis e Nate Walcott sembrava terminata 9 anni fa, con un album contradittorio come The People’s Key che mostrava una preoccupante carenza di ispirazione. La china discendente, lo scioglimento temporaneo. Sembrava tutto apparecchiato per la fine di una band che dopo aver cavalcato meravigliosamente le mode del “nuovo” indie-folk all’inizio degli anni 00, aveva progressivamente perso mordente e ispirazione. Curioso vederli tornare dopo tutto questo tempo, ma splendido riascoltarli con una ritrovata personalità e capacità di scrittura.
Down In The Weeds, Where The World Once Was è un disco splendido, dove il trio non deve più dimostrare niente e si è lasciato andare nella composizione di 14 canzoni che mostrano un convincente e variegato canovaccio sonoro. Partiture di archi, intrecci elettronici, partiture più tradizionalmente folk, il tutto permeato da una classicità e da una qualità di scrittura non indifferente, come nella “To Death’s Heart (In Three Parts)” che ho inserito in scaletta. Bentornati.
In un clima bucolico e pastorale, da qualche parte tra il medioevo e oggi, se ne sta Richard Dawson, che da sempre appartiene ad una categoria molto particolare e quasi in via di estinzione, quella dei songwriters poco convenzionali, a raccontare le sue storie strampalate. E se con l’ultimo 2020, il bardo di Newcastle ha voluto proiettare i suoi racconti umani e sociali in un prossimo futuro, nel suo sesto capitolo solista chiamato Peasant, è stato capace di tratteggiare personaggi appartenenti ad un mondo bucolico sospeso in un indefinito lasso temporale dal ‘600 ai giorni nostri. Il disco, nelle sue undici tracce, è proiettato in questo passato medioevale raccontando storie di contadini immersi in un periodo oscuro, che affrontano i problemi quotidiani intrecciando legami che spesso, inevitabilmente, si spezzano.
Non è mai facile ascoltare il bardo di Newcastle, e se talvolta il percorso sembra perdere ogni filo logico, c’è sempre un coro, un arpeggio, un verso permeato di humour britannico, a tenere tutto saldamente in pugno. A proposito di coro, ascoltate quello da commensali ubriachi in “Ogre”, davvero strepitoso. Il mondo di Dawson è davvero quasi unico, diverso da quasi tutti i possibili riferimenti cantautorali dei giorni nostri. Se cercate unicità, il bardo di Newcastle fa al caso vostro.
Che personaggio Ariel Marcus Rosenberg in arte Ariel Pink. La sua visione del pop lo ha portato ad essere tra gli autori più stimati ed influenti di un genere che probabilmente andrà sempre di moda. Avido collezionista di dischi e di riviste musicali, ha registrato per anni una quantità infinita di cassette nel garage del padre. Notato dagli Animal Collective, è stato messo sotto contatto dalla Paw Tracks, l’etichetta del collettivo di stanza a Baltimora. The Doldrums è stato il primo album pubblicato dall’etichetta a non essere registrato dagli Animal Collective. La retromania di Ariel Pink lo ha portato nel 2010 ad un contratto con la 4AD e a registrare il primo album in un vero studio sotto il nome di Ariel Pink’s Haunted Graffiti.
Before Today è il risultato di quelle registrazioni professionali, 45 minuti (che immagino perfetti per essere inseriti un un lato delle gloriose cassette C90) in cui il californiano infila una serie di ritornelli colorati ed appiccicosi, che rimandano a quel pastoso pop anni ’80 e ad alcune cose di AOR americano senza tutte le sovrastrutture che appesantivano quei generi musicali. La “Little Wig” inserita in scaletta è forse uno dei momenti più rock del disco, senza rinunciare ai ritornelli festosi e fastosi, ipnotici e trascinanti che sono il vero marchio di fabbrica dell’autore.
Dopo i colori e l’allegria retromane di Ariel Pink, andiamo ad esplorare i meandri più scuri della musica proveniente dalla soleggiata California. I The Black Heart Procession, sono stati creati a San Diego dal cantante e chitarrista Pall A Jenkins, già fondatore di un gruppo che avrebbe meritato maggior fortuna, i Three Mile Pilot. Insieme al tastierista Tobias Nathaniel, Jenkins aveva iniziato a sentirsi non più a proprio agio nei tiratissimi umori post-punk del precedente gruppo, e si è rintanato nell’ombra di un suono dove sono le tinte scure del folk, del blues e di alcune musiche popolari a prendersi il proscenio.
Nel 1999 il gruppo fa centro pieno con un album superlativo intitolato semplicemente 2, dove il duo, usando strumenti come organo, piano wurlitzer ed un’elettronica minimale si fa accompagnare saltuariamente dalla batteria di Mario Rubalcaba e dalla tromba di Jason Crane come nell’immaginifico e lento valzer di “Blue Tears” inserito in scaletta. Un suono allo stesso tempo scarno e pieno, evocativo ed immaginifico, con il crepuscolo perennemente sullo sfondo.
Il songwriter americano Tim Presley è un personaggio davvero interessante Dopo aver formato e sciolto i Darker My Love, il cantautore ha fatto parte di una delle innumerevoli line-up dei The Fall del compianto Mark E. Smith registrando con la band l’album Reformation Post TLC pubblicato nel 2007. Dopo una serie di album a nome White Fence, di cui uno in coabitazione con Ty Segall, Presley ha iniziato a collaborare con la cantautrice gallese Cate Le Bon, formando i Drinks, gruppo in cui sfoggia una psichedelia declinata in maniera inusuale e deforme interpretata con una scrittura decisa e una forte personalità.
Lo scorso anno Presley ha rispolverato la vecchia sigla White Fence sfornando un album surreale già dal titolo: I Have To Feed Larry’s Hawk. Un disco che rimanda alle atmosfere deformi appartenenti a personaggi del passato come Alexander Skip Spence. Brani che sembrano sfocati salvo poi apparire all’improvviso in tutta la loro, a volte inquietante, precisione nel focalizzare i paesaggi avvolti nella nebbia del nord dell’Inghilterra dove Presley ha registrato il disco. Elettronica quasi giocattolo, pochi strumenti messi qua e la a creare atmosfere sognanti e spiazzanti, capaci di colpire al cuore come nella stranulata e commovente “Indisposed” che ho inserito nel podcast
Ammetto la mia perversa debolezza nell’amare gli artisti particolarmente schivi, timidi ed estranei al grande pubblico. Nel 1994 la fragilità e allo stesso tempo la forza di Lisa Germano mi ha definitivamente conquistato. Geek The Girl era un disco straordinario, dove i brividi esistenziali della donna protagonista del concept non potevano non conquistare con la loro malinconia, con i piccoli momenti scintillanti di vita dove speranza e delusione sembravano unirsi in un mix agrodolce dal sapore unico. La cantautrice dell’Indiana, nata musicalmente come violinista al seguito di John Mellencamp, è tornata nel 2013 dopo quattro anni di silenzio, abbandonando la Young God di Michael Gira ma mantenendo la sua linea intimista e timida, con il suono che spesso si svuota anche delle alchimie sonore del fido Jamie Candiloro lasciandola sola con il suo pianoforte.
In No Elephants c’è tutto il microcosmo dell’artista nei testi che non sono, forse, mai stati così personali. Indagando sul rapporto con la natura e con gli animali, la Germano indaga sul rapporto con se stessa in un mondo che, come lei stessa ha detto sul suo sito ufficiale “is getting weirder everyday”. E questo nuovo e ritrovato vigore lirico ci riporta proprio ai suoi capolavori usciti negli anni 90. Il disco è formato da 12 miniature, 12 carillon, 12 case delle bambole ricche di particolari anche se è il pianoforte a farla da padrone insieme alla voce spesso sussurrata, ma sempre evocativa. Ad un attento ascolto però, si scorge dietro tutto un microcosmo sonoro, molto più suono che strumenti come nel piccolo grande capolavoro incantato intitolato “Strange Bird”.
La chiusura del podcast è affidata ad un artista che in pochi anni è passato dal grande successo della sua band (The Head And The Heart) al gorgo della dipendenza dagli stupefacenti. Come si può ben immaginare non sono stati anni facili per Josiah Johnson. La forzata uscita dal gruppo, la riabilitazione, il lungo percorso che porta ad una (mai scontata) assunzione di responsabilità. All’inferno e ritorno. Ed il ritorno non poteva trovare sfogo migliore della sua ritrovata anima di musicista. Ci vuole tutto il coraggio possibile per chiedere l’aiuto altrui e rialzare orgogliosamente la testa. Josiah Johnson lo ha fatto mettendo il suo talento compositivo al servizio di semplicità, amore e passione, marchiando a fuoco nei solchi la gioia e la malinconia della sua redenzione.
Every Feeling On A Loop è un percorso estremamente personale fatto di 11 canzoni, spesso dalla lunghezza abbondante, dove il musicista non ha paura di esporre la sua vulnerabilità e le sue ferite. Questo disco è la vittoria umana e musicale del musicista californiano. capace di rivestire a nuovo la tradizione con semplicità, lasciando liberi gli interventi di archi e fiati di librarsi nell’aria limpida di una nuova vita, pur avvertendoci che non è sempre facile alzare la testa, come nella meraviglia intitolata “Hey Kid”, dialogo immaginario con la versione giovane di se stesso, cui implora di non commettere gli stessi errori: “Hey kid, you were doing alright. Except when you bought what you were sold. Hey kid, come back to the light. Don’t leave yourself out in the cold”. Un brano di rara emozione impreziosito dal violino di Olivier Manchon.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete le ardite costruzioni di Dead Rider e Cheer-Accident, il nuovo attesissimo album degli Idles, l’integrità hardcore dei Fugazi, un’istantanea di Manchester alla fine dei ’70 con i Public Image Ltd, la meraviglia nascosta di due outsider come Wingtip Sloat e Alvarius B. E se non vi basta ci sarà spazio per il folk-rock da battaglia degli O’Death, la follia dei Supreme Dicks, due straordinari musicisti italiani che insieme a Mike Watt formano Il Sogno Del Marinaio, l’indie rock perfetto di The Van Pelt e The Chills, la delicatezza acustica dei Metal Mountains e il commovente tributo al mare dei Dirty Three. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. KALEIDOSCOPE (UK): Dive Into Yesterday da ‘Tangerine Dream’ (1967 – Fontana)
02. THAT PETROL EMOTION: Lifeblood da ‘Manic Pop Thrill’ (1986 – Demon Records)
03. ELF POWER: Little Black Holes da ‘Elf Power’ (2010 – Orange Twin Records)
04. VIC CHESNUTT: Chinaberry Tree da ‘At The Cut’ (2009 – Constellation)
05. VIC CHESNUTT, ELF POWER and THE AMORPHOUS STRUMS: Phil The Fiddler da ‘Dark Developments’ (2008 – Orange Twin Records)
06. NEIL YOUNG: Southern Man da ‘After The Gold Rush’ (1970 – Reprise Records)
07. RYLEY WALKER: Sweet Satisfaction da ‘Primrose Green’ (2015 – Dead Oceans)
08. BRIGHT EYES: To Death’s Heart (In Three Parts) da ‘Down In The Weeds, Where The World Once Was’ (2020 – Dead Oceans)
09. RICHARD DAWSON: Ogre da ‘Peasant’ (2017 – Weird World)
10. ARIEL PINK’S HAUNTED GRAFFITI: Little Wig da ‘Before Today’ (2010 – 4AD)
11. THE BLACK HEART PROCESSION: Blue Tears da ‘2’ (1999 – Touch And Go)
12. TIM PRESLEY’S WHITE FENCE: Indisposed da ‘I Have To Feed Larry’s Hawk’ (2019 – Drag City)
13. LISA GERMANO: Strange Bird da ‘No Elephants’ (2013 – Badman Recording Co.)
14. JOSIAH JOHNSON: Hey Kid da ‘Every Feeling On A Loop’ (2020 – Anti-)