Nella seconda metà degli anni ’90 una band di Chicago cercava, riuscendoci con successo, a destrutturare rock e blues dando vita ad un suono tanto oscuro quanto appassionante.
La band in questione si chiamava U.S. Maple, autori di 5 pregevoli album dal 1995 al 2003. Uno dei due chitarristi del gruppo, Todd Rittmann, nel 2009 ha creato un suo progetto chiamato Dead Rider. Assente da tre anni Rittmann con i suoi nuovi compagni di avventura: Matthew Espy, batteria, Andrea Faugh, tromba e tastiere, e Thymme Jones, elettronica, tastiere, fiati e batteria (questi ultimi due anche nei Cheer-Accident) torna sul luogo del delitto. La sua missione è sempre la stessa: scomporre e ricomporre, e stavolta ha molte più frecce al suo arco rispetto agli U.S. Maple. “Chills On Glass” è il terzo lavoro dei Dead Rider, il primo per la Drag City ed è un album semplicemente meraviglioso, tanto per mettere subito le carte in tavola.
“New Eyes” mette immediatamente le cose in chiaro, con una sferzata chitarristica accoppiata ad una sezione ritmica sincopata e trascinante. Poi ci sono i vari synth a prendersi la scena tra spasmi art-funk e mentre le tastiere ci regalano un finale rilassante anche se i vari disturbi elettromagnetici in sottofondo non permettono mai di rilassarsi davvero completamente. Un intro cyberfunk seguito da un trascinante refrain recitato ci immette nel mondo del singolo “Blank Screen”, la ritmica tribale e le convulsioni pop che si affacciano strizzando l’occhio per poi scomparire rendono il tutto assolutamente trascinante. La successiva “Weaves” si muove suadente come un serpente a sonagli pronto ad attaccare ad ogni stacco di batteria. Ancora sinth in apertura per la seguente, splendida, “Weird Summer” con un favoloso hi-hat ad introdurre l’ennesimo brano che muove i suoi tentacoli tra sferzate di chitarra distorta elettronicamente, aperture pop e suoni claustrofobici. E’ un gioco di incastri quello messo in atto da Rittmann, ed la no-wave free funk di “Sex Grip Enemy” azzanna alla giugulare senza pietà. Ogni brano fa storia a se, e nel pieno della nera spirale electrosoul di “The Unnatural Act”, una voce ci sussurra nelle orecchie:
“so baby kill the lights and hit the stereo, pull the tables and chairs and let me take control…”
Nel mare scuro e torbido dello strumentale “Four Cocks” si alternano onde di rullante e synth mentre l’andatura funk (naturalmente destrutturato e plasmato a piacimento) di “Of One Thousand” riesce senza alcuno sforzo ad incantare e sedurre. “Cry Honey” è molto più di un semplice e breve interludio trip-hop, naturalmente riveduto e corretto, che vede come ospite il sassofono di Noah Tabakin. La chiusura del disco è affidata a “Fumes And Nothing Else” che conferma tutto quello che di buono abbiamo ascoltato fino ad ora.
E’ un album che incanta per il gioco degli incastri, per l’abilità di Rittmann e compagni di creare un’equilibrata alchimia tra ingredienti apparentemente molto diversi. Il suono è spesso inafferrabile, spiazzante, eccitante. Uno di quei dischi che per qualità e varietà stilistica non mi stancherei mai di ascoltare. Consigliatissimo!