Le avventure in musica di Sounds & Grooves riprendono nella 15° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di post-punk, songwriting, post-rock e altre meraviglie
Sono davvero felice di tornare, con Sounds & Grooves, a fianco di tutti voi per la 15° stagione di www.radiorock.to. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura. Una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Continuiamo orgogliosamente a cercare quella libertà in musica che nell’etere sembra essere diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra avvolto nella nube della pandemia, ogni cosa sembra essere letta dietro ad una lente distorta. La politica non è mai stata così squallida e così divisiva, qualsiasi scelta, anche di marketing, sembra essere fatta da una parte per guadagnare consensi e likes (altro che criptovaluta…), dall’altra per scatenare consensi o sdegno sui social o su programmi televisivi di infima lega, facendo azzannare persone comuni che non vedono l’ora di dire la propria per sentirsi fuori dell’anonimato. C’è tanta ignoranza, solitudine, paranoia, paura, frustrazione, competizione sfrenata tra persone piccole piccole… Il livello della politica e del giornalismo negli ultimi anni è sprofondato in maniera clamorosa, non solo in Italia, basti vedere l’indecoroso primo confronto televisivo tra Trump e Biden di qualche tempo fa. Il mio pensiero va alle persone che sono state colpite duramente dal lockdown: a chi non c’è più, a chi ha combattuto questo nemico silenzioso in prima linea con grandi sacrifici, a chi sta lottando davvero con forza per riappropriarsi della propria vita, a chi è stato costretto a reinventarsi. Spero davvero che stavolta lo stato (utopia, lo so, vista la “statura” morale della nostra classe politica) possa riuscire a far ritrovare la propria identità ad un popolo così duramente colpito negli affetti, nelle strutture, nel lavoro e nel quotidiano. In questo mondo dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e amore, noi proviamo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone non omologate che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva.
Nel primo viaggio della stagione potrete trovare l’hardcore maturo degli Unwound ed il post-punk di tre dei nomi del momento: gli americani Protomartyr, gli irlandesi Fontaines D.C. e gli inglesi Idles, le scure suggestioni abrasive di Gold Dime e Talk Normal, un ricordo di Tim Smith e dei suoi caleidoscopici Cardiacs, l’americana dei Grant Lee Buffalo, l’ennesima conferma del talento straordinario di Fiona Apple, la liquidità lisergica degli Spacemen 3 e del grande ritorno di Sonic Boom, il fantastico terzo album dei Portishead ed un finale con l’onirico post rock di Bark Psychosis e The For Carnation. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Il podcast inizia con uno dei miei gruppi preferiti che ha subito la perdita ad agosto di uno dei protagonisti, il bassista Vern Rumsey, deceduto a soli 47 anni. Tuttora le cause della morte sono sconosciute. Gli Unwound sono stati dei veri e propri giganti dell’hardcore americano degli anni ’90. I riff granitici e le soluzioni ricche di spasmi e di lacerante elettricità li hanno resi tra le migliori band del genere e non solo. Justin Trosper, voce e chitarra, Vern Rumsey, basso, e Sarah Lund, batteria già con il primo vero album, Fake Train, avevano gettato le basi per una carriera sfolgorante, trovando la piena maturità con il successivo New Plastic Ideas (1994).
Il sophomore album mostra un gruppo in grado di fare un ulteriore passo avanti per quanto riguarda l’aspetto compositivo mostrando un’incredibile capacità di scrittura che rimarrà ad un livello qualitativamente altissimo fino alla fine della loro parabola artistica. L’album si snoda tra grandi scariche nevrotiche e splendide soluzioni armoniche che non rinunciano alla potenza espressiva come in questa “Hexenzscene”. Qualche anno fa la Numero Group, etichetta specializzata in preziosi recuperi, ha raccolto tutti gli album (di complessa reperibilità e mai ristampati in un’epoca in cui viene ristampato praticamente ogni cosa) della band in quattro imperdibili cofanetti, integrando il tutto con un live inedito che ne racchiude l’incredibile energia on stage.
Con il quinto lavoro in studio (il secondo per la Domino), i Protomartyr da Detroit mantengono inalterati i propri riferimenti storici (The Fall, Birthday Party), suonando allo stesso tempo estremamente moderni nel raccontare con sempre maggior urgenza il sentimento di disagio, confusione e disperazione che attanaglia il mondo in generale e gli Stati Uniti in particolare. Joe Casey e compagni ci consegnano dl’ennesimo album meraviglioso impreziosito da alcune collaborazioni che vanno ad arricchire, talvolta con fiati e archi, un suono ormai consolidato. Ultimate Success Today è un disco tanto impegnato intellettualmente quanto viscerale nel suo schietto espressionismo. Le nuove 10 canzoni del gruppo di Detroit brillano nel buio, nascono per l’urgenza di esprimere le nevrosi, le insicurezze di un mondo che cambia.
La scrittura di Casey è capace di creare scuri luoghi immaginari sempre con lucide dinamiche emozionali che confermano e sanciscono il ruolo portante che i Protomartyr hanno ottenuto meritatamente nel mondo dell’alternative rock a stelle e strisce. Come al solito è difficile scegliere un brano che si eleva al di sopra media. Impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla voce baritonale di un leader che è capace di creare scenari straordinari sia nell’incedere recitativo che nei refrain ossessivi. Alla fine la scelta è caduta sul racconto recitato con vigore e maestria della splendida “Processed By The Boys”. Il brano, impreziosito dal clarinetto di Izaak Mills, parla del lento ma continuo insinuarsi dell’autoritarismo nelle nostre vite, del potere incontrollato della polizia che minaccia le libertà civili e quelle individuali. Facile identificare nella burocrazia e nello stato militare i “boys” che ti inseguono con un sorriso per farti diventare un prodotto confezionato.
Il podcast prosegue con un personaggio molto particolare. La cantante, batterista e songwriter Andrya Ambro, è tornata a produrre musica tre anni fa con un nuovo progetto chiamato Gold Dime. La musicista con la sua nuova ragione sociale ha deciso di portare avanti quanto prodotto con in precedenza con il duo Talk Normal di cui parleremo tra poco. Qui, però, riesce a ridurre l’aggressività della proposta aumentandone l’approccio scuro ed industriale. Il disco si intitola Nerves (leggi la recensione). Come fa intuire il titolo, sono proprio le terminazioni nervose a fare da scheletro ad otto tracce intime ed aggressive che si muovono in maniera oscura.
Il suo drumming sembra essere sempre sul punto di esplodere, mentre intrusioni elettroniche e scudisciate chitarristiche sanno come far male viaggiando perennemente sospese sul filo del rasoio. A dispetto dei suoi oltre otto minuti di durata, è al singolo (!) “Easy” che viene assegnato il ruolo di portabandiera del disco. Il suono sembra apparentemente accessibile, ma in profondità si rivela assai minaccioso. Un ossessivo ritmo di basso, i vocalizzi art rock della leader e le rasoiate di chitarra, minano la struttura del brano dalle fondamenta. La Ambro vince la sua sfida riuscendo a creare un suono sempre teso e denso dove anche le dissonanze hanno sempre la loro precisa collocazione.
Come promesso, facciamo un piccolo passo indietro. Nel 2005 a Brooklyn, due musiciste si incontrano alla New York University. Andrya Ambro e Sarah Register trovano subito diverse affinità elettive e un comune modo di concepire la musica che le portano ad unirsi sotto il nome di Talk Normal con la prima alla batteria e la seconda alla chitarra. Due album, un paio di EP e qualche split (tra cui due con Thurston Moore) prima di sciogliersi. Edcè stato davvero un peccato perché, il loro scorbutico approccio alla no wave aveva più di un motivo di interesse.
Lo scioglimento non ha inficiato l’amicizia tra le due ragazze, tanto è vero che il ritorno della Ambro sotto la nuova ragione sociale di Gold Dime, di cui abbiamo appena parlato, vede la Register fida alleata dietro al mixer. Sugarland è stato il loro esordio, un disco estremamente interessante che sotto la dura e ruvida scorza aveva moltissimi pregi: la bontà della scrittura e l’interplay tra le due musiciste. “In Every Dream Home A Heartache” è uno dei vertici di un album e di una band sicuramente da riscoprire. Ah, quasi dimenticavo… Sarah Register, che ormai agisce più in studio di registrazione che come musicista, ha mixato l’ultimo album dei Protomartyr.
È uno dei gruppi che appare ormai ovunque. Gli Idles da Bristol ormai sono, volenti o nolenti , uno dei gruppi in assoluto più in vista del Regno Unito. Questa popolarità ha scatenato, come prevedibile in questo mondo davvero brutto dove chiunque sfoga le proprie frustrazioni su una tastiera, anche molte polemiche. Non ultima quella scatenata proprio da uno degli altri gruppi più discussi del regno di Albione, i Fat White Family. Anche se è appena uscito l’ultimo Ultra Mono, in attesa di ricevere la copia fisica, sono andato volontariamente a ripescare il loro album di esordio, quel Brutalism uscito nel 2017 dopo una lunghissima gavetta in cui il cantante Joseph Talbot, i chitarristi Mark Bowen e Lee Kiernan, il bassista Adam Devonshire e il batterista Jon Beavis, hanno saputo assorbire mano mano rabbia ed urgenza facendola poi defluire lentamente, scandendo le uscite e preparando il botto con grande meticolosità.
Se l’inno “Mother” era dedicato alla mamma di Talbot morta da poco ed era puntellato dalle feroci invettive contro il partito conservatore britannico, “1049 Gotho” racconta un altro brutto male dei nostri giorni. Si parla infatti di depressione, nemico invisibile visto come un asteroide che non possiamo vedere guardando in alto, ma che potrebbe colpire la terra da un momento all’altro. La sezione ritmica è un rullo compressore, le chitarre sono adrenaliniche nel loro liberatorio lasciarsi andare. Il tagliente realismo delle tematiche sociali viene raccontato con pathos e refrain travolgenti. Joseph Talbot e compagni sanno perfettamente come raggiungere e coinvolgere emotivamente gli ascoltatori, riuscendo a scuotere tutti dall’apatia con il loro messaggio tanto sgradevole e brutale quanto reale. Carne e sangue, naked truth, francamente non riesco a chiedere di meglio.
Tim Smith è stato il fondatore di una band, i Cardiacs, il cui nome è legato ad un’epoca speciale in maniera indissolubile. Tim ci ha lasciato a luglio, pochi giorni dopo aver compiuto 59 anni. Nonostante fosse rimasto su una sedia a rotelle dopo un doppio infarto che lo aveva colpito nel 2008 lasciandolo quasi paralizzato, Smith aveva sempre mantenuto lo spirito di un tempo e una mente estremamente lucida. La band si era formata nel 1977 a Kingston Upon Thames proprio grazie a Tim Smith. Diventarono subito famosi per la loro creatività eccentrica, per il loro stile che univa l’immediatezza del punk e la complessità e l’amore per la ricercatezza del progressive, e per i loro show sempre estremamente teatrali. Il loro sound è sempre stato unico e inconfondibile, vario, complesso, e intenso, e anche adesso, dopo 40 anni, rimangono una delle poche vere band di culto in Gran Bretagna.
Passare un brano dal loro album Live intitolato “Big Ship” era un dovere, sia nel ricordo di Tim Smith, sia come un segnale di continuità con il passato, con una Radio Rock in FM su Roma che all’inizio degli anni ’90 viveva forse il suo miglior periodo. Il gruppo era uno dei cavalli di battaglia della radio, l’urlo inconfondibile con cui Franz Andreani li annunciava era semplicemente trascinante. E l’idea della “grande nave” è anche una metafora di quello che è radiorock.to: una nave dove tutti noi, ascoltatori e podcaster, facciamo parte di un equipaggio che naviga senza paura, orgogliosamente controcorrente, nel mare musicale delle radio, che è sempre più inquinato e torbido. Tornando ai Cardiacs, riscoprire questa band è un imperativo, al di la dei motivi sentimentali che mi hanno indotto ad inserirli in scaletta.
A maggio di un anno fa, quando la pandemia era semplicemente un escamotage cinematografico e non, purtroppo, una cruda realtà, scrivevo entusiasta: “I Fontaines D.C., con la forza dirompente di Dogrel, si aggiungono a Idles, Fat White Family, Shame e Sleaford Mods come esponenti di punta del nuovo “rock” britannico. L’atmosfera sporca, l’istintività sfacciata, la capacità di comporre versi intensi e storie in cui molti possono identificarsi, sono la chiave fondamentale per comprendere il successo di questi cinque irlandesi, oltre all’amore/odio per la propria terra espresso in un accento locale volutamente marcato.”
Proprio il successo di Dogrel ha proiettato i ragazzi irlandesi in una inaspettata nuova condizione artistica trascinandoli in una vita quasi esclusivamente on the road prima in Europa poi negli States, sempre più lontani dalla loro città natale. E così nella fase di scrittura di A Hero’s Death, il “difficile” sophomore album, la loro appartenenza a Dublino, prima quasi ostentata, si è ridotta ad un breve cameo nel testo di “Televised Mind“. Mettendo la puntina sui solchi del nuovo album e paragonando l’intro cadenzato di “I Don’t Belong” con l’energia febbrile della precedente opener “Big”, ritroviamo i Fontaines D.C. così uguali ma così diversi, meno sfrontati, più introspettivi. A qualcuno probabilmente mancheranno i personaggi inquieti che prendevano vita nei solchi dell’esordio. Ma Grian Chatten non a caso è cresciuto leggendo i grandi della letteratura irlandese come William Butler Yeats e James Joyce ed è stato capace di regalarci di nuovo testi ipnotici e ispirati, stavolta narrati in prima persona. Cambia la prospettiva, ma non le profondità delle suggestioni che stanno dietro ogni canzone. Come dimostra la scura intensità di “You Said”, con Chatten che riesce a mantenere la voce a galla nel profondo mare dei suoni creati dai compagni con il suo ritornello “operating faster” reiterato fino allo sfinimento.
Grant-Lee Phillips non ha mai davvero inseguito la popolarità. La sua passione e visione musicale è stata ispirata, almeno agli inizi, dal Paisley Underground e dal post punk. Insieme al socio Jeffrey Clark (entrambi provenienti da Stockton, California) ha creato verso la metà degli anni ’80, una band chiamata Shiva Burlesque. Uno dei gruppi di culto di quel periodo. Un gruppo sottovalutato e rimasto sempre nell’ombra senza mai avere avuto almeno un briciolo della popolarità avuta dai Dream Syndicate o dai Rain Parade. Una volta sciolta la band, i Grant Lee Buffalo sono stati la sua consacrazione in parte anche commerciale del suo talento di musicista.
Fuzzy, l’album di esordio del trio formato insieme a Paul Kimble (basso) e Joey Peters (batteria), è stato uno splendido affresco di come il suo suono abbia abbandonato in parte la matrice Paisley per andare a pescare nella tradizione folk e country. Il secondo episodio intitolato Mighty Joe Moon, mostra una band dall’approccio meno muscolare e più introverso, un affascinante viaggio sulle strade blu americane che si apre con la melodia impetuosa di “Lone Star Song” con i suoi riferimenti all’omicidio di J.F. Kennedy e alla strage di Waco del 1993 dove oltre settanta persone tra agenti di polizia e davidiani persero la vita. Phillips successivamente non ripeterà più le vette dei primi due lavori della sua creatura, ma continua a sfornare album dalla media qualitativa estremamente elevata.
In questo anno terribile per moltissimi aspetti, bisogna segnalare il grande ritorno di Peter Kember che dopo tante collaborazioni, ha rispolverato a distanza di trent’anni il moniker di Sonic Boom. Fondatore insieme a Jason Pierce (Spiritualized) degli Spacemen 3, gruppo di culto della seconda metà degli anni Ottanta dall’enorme influenza per il rock lisergico degli anni novanta, Kember è tornato con un album intitolato All Things Being Equal, a spargere meravigliose e colorate intuizioni sviluppate usando strumenti elettronici costruiti in varie epoche, addirittura dei vecchi Buchla degli anni ’60. Una cascata di effetti spettacolari, canzoni pop drogate come solo uno dei maestri della musica lisergica potrebbe creare.
“Things Like This (A Little Bit Deeper)” è uno dei vertici di questo straordinario ritorno. Un brano ricco di luci, di suggestioni caleidoscopiche, trascinante e coinvolgente. Un ritorno che pochi potevano immaginare potesse essere a questo livello. Un album perfettamente congegnato, dove sperimentazioni, elettronica, melodie, gusto pop, vanno meravigliosamente a braccetto sotto una cascata colorata.
Visto che prima abbiamo accennato a questo duo solo marginalmente, andiamo ad approfondire il loro importantissimo lavoro. Gli Spacemen 3 sono stati formati da due chitarristi, Peter “Sonic Boom” Kember e Jason Pierce, curiosamente nati nello stesso giorno ed attratti dallo stesso approccio visionario al loro strumento. Tra i primi a far coesistere melodie e dissonanze in un flusso sonoro psichedelico, dilatato, distorto ed avvolgente. Il loro secondo album si chiama The Perfect Prescription e presenta tra i vari riferimenti, un tributo ad uno dei brani (ed album) più riusciti di Lou Reed (“Ode to Street Hassle”) e uno ai maestri del trip psichedelico, i Red Crayola.
L’album è una sorta di concept album sulle varie fasi mentali successive all’assunzione di stupefacenti, ed inizia con l’invocazione diluita ed energica di “Take Me To The Other Side”. La perdita dei sensi invocata dai due riesce perfettamente in un delirio di feedback e loop, un suono rarefatto, straniante ed avvolgente che ha reso i due una band seminale e di culto anche ai giorni nostri.
Ufficialmente sono semplicemente in pausa di riflessione i Portishead nati a Bristol dall’incontro tra l’ingegnere del suono e musicista Geoff Barrow e la cantante Beth Gibbons. Barrow aveva collaborato in studio alla nascita di una vera pietra miliare del genere, Blue Lines dei Massive Attack, e rimase talmente affascinato da quelle sonorità da decidere di formare un gruppo per svilupparle secondo le sue idee e la sua personalità. Trovato il perfetto contraltare vocale in Beth Gibbons, aveva già formato di fatto il primo nucleo della band che che prese il nome dalla città dove era cresciuto, Portishead, nel Somerset, Sud-Ovest Inglese. Dummy, il loro album di esordio, vede la formazione allargata a trio con l’inserimento del chitarrista di estrazione jazz Adrian Utley, ed è una collezione di visioni cinematiche segnate dai ritmi pennellati da Barrow che alternano ballate languide a movimenti sincopati, il tutto cesellato dalla voce di Beth Gibbons che sussurra, invoca al cielo, emoziona.
Dopo essere stati la band cardine del movimento trip-hop insieme proprio ai Massive Attack, i tre si sono presi una (prima) lunga pausa prima di tornare dopo 11 anni. L’ album Third, uscito nel 2008, risulta personale ed attuale anche a distanza di anni, convincendo senza mai riciclare lo schema vincente dell’esordio con intuizioni geniali e l’inserimento di suggestioni kraut rock. Basti ascoltare lo splendido incedere della conclusiva “Threads”.
Un disco ed un’artista che hanno suscitato un numero enorme di consensi e, allo stesso tempo (secondo il più classico meccanismo da social), una valanga di critiche proprio per la quantità ed il grande peso specifico di questi consensi. Qualcuno avrà capito che sto parlando di Fiona Apple e del suo ultimo album Fetch The Bolt Cutters uscito in piena espansione pandemica. In quanto fan dichiarato da sempre della Apple, sicuramente non posso essere tacciato di essere salito solo ora sul carro del vincitore. In tempi non sospetti ho inserito il suo quarto album del 2012 The Idler Wheel Is Wiser… in una ipotetica (e naturalmente incompleta) playlist dei migliori album dell’ultimo decennio. La talentuosa e bella Fiona è quanto di più distante possa esserci dal mondo rutilante del red carpet. Una ragazza con un’adolescenza travagliata e difficile alle spalle, che ha saputo reggere l’urto di un avvenimento che non può non lasciare il segno nella vita di chiunque con grande personalità.
A fare rumore è stato il 10 assegnato dall’influente webzine Pitchfork oltre a diverse altre riviste, giornali e siti web che hanno assegnato al nuovo album dell’artista newyorkese il massimo dei voti. Il dubbio che è venuto a tutti è stato: Fetch The Bolt Cutters merita davvero questo plebiscito? Probabilmente il 10 lo lascerei stare, ma sicuramente la Apple ha pubblicato l’ennesimo disco straordinario. A 42 anni riesce a parlare apertamente della violenza subita (il titolo è una citazione di una battuta pronunciata dall’attrice Gillian Anderson nella serie televisiva della BBC The Fall, dove l’attrice impersona una detective che si occupa di violenza sulle donne), delle difficili esperienze vissute. Riesce a farlo al meglio sotto un incredibile tappeto percussivo dove si muovono, con abilità e seguendo il motto “less is more”, splendidi musicisti come il fido bassista Sebastian Steinberg. Ascoltate il soul modernizzato di “Ladies”, una delle 13 meraviglie di cui è composto il disco. Non un 10 forse, ma un 8 e mezzo sicuramente si.
Ci avviciniamo alla fine del podcast con uno dei gruppi che più mi hanno colpito ed affascinato. Gli incubi e sogni dei Bark Psychosis hanno ispirato il critico Simon Reynolds a coniare uno dei termini più abusati in musica negli anni ’90, “post-rock”. Quando si parla della band di Graham Sutton (chitarra e voce), Daniel Gish (tastiere e piano), John Ling (basso e campionatore), e Mark Simnett (batteria e percussioni) la mente va sempre a vagare di notte nei sobborghi londinesi descritta in capitoli cinematici di rara suggestione onirica all’interno di quel tesoro nascosto chiamato Hex (1994). In copertina c’è la chiesa di St. John at Hackney vista di notte dai binari vicino alla stazione di Stratford, mentre sul terreno si stagliano le ombre dei componenti del gruppo, una zona che recentemente ha visto la costruzione del Parco Olimpico di Londra. I paesaggi industriali urbani, desolanti e crepuscolari che hanno ispirato l’artwork li ritroviamo tra i solchi del disco, in un’alternanza di silenzi e di miniature sonore, cortometraggi immaginifici.
Ma i Bark Psychosis, oltre ad Hex, hanno pubblicato anche diversi EP, e non tutti tratteggiano paesaggi sonori fatti di arpeggi di chitarra, tastiere avvolgenti e voce sussurrata. È il caso del 12″ intitolato Blue, che mantiene le atmosfere sognanti in un sottobosco fatto di suoni più dissonanti e movimentati. Graham Sutton tornerà a sorpresa solo 10 anni più tardi a rispolverare il nome Bark Psychosis con un album, Codename: Dustsucker, che provoca qualche sussulto per le atmosfere simili al predecessore pur non eguagliandone l’impatto sonoro ed onirico. Album che vede dietro i tamburi Lee Harris dei Talk Talk.
La chiusura del podcast è affidata ad un album che per me ha una grande importanza affettiva. Abbiamo già parlato più volte (mi perdonerete per questo) degli Squirrel Bait, apparentemente una delle tante band hardcore con all’attivo un EP e un solo album, ma in realtà entrati nella leggenda perché dal loro scioglimento si sono formate alcune tra le band più importanti del rock alternativo americano degli anni ’90. Il chitarrista Brian McMahan andrà a formare gli Slint insieme all’ex batterista dei Bait Britt Walford, mentre l’altro chitarrista David Grubbs formerà i Bastro, i Bitch Magnet e i Gastr Del Sol insieme a Jim O’Rourke. Dopo l’esperienza Slint, nel 1995 Brian McMahan e David Pajo insieme a John Herndon e Doug McCombs dei Tortoise danno vita al progetto The For Carnation pubblicando il primo EP intitolato Fight Songs.
Dopo un secondo EP il gruppo si prende una pausa, tornando nel 2000 con un album eponimo che vede una line up profondamente modificata che vede McMahan come unico superstite. L’album è un viaggio narcolettico e cinematico di profonda suggestione, un disco cui sono particolarmente legato perché l’ultima traccia, “Moonbeams”, è stata anche la canzone che ha chiuso il mio viaggio in FM su Radio Rock 106.6 a Roma nell’aprile del 2000. Quello che 20 anni fa è stato un momento che chiudeva un’esperienza per me indimenticabile, adesso è il segnale di una rinascita altrettanto importante. I toni struggenti di questo brano rappresentano un album tra i miei preferiti dell’era post rock americana.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo! Naturalmente ogni aggiornamento e notizia sarà nostra premura comunicarla sulla nostra pagina Facebook.
Nel 2° Episodio di Sounds & Grooves troverete un piccolo omaggio ad un grande songwriter come il compianto Vic Chesnutt, che ascolterete in solitaria ed insieme ad Elf Power e ai sodali The Amorphous Strums. rock da riscoprire dei nord irlandesi That Petrol Emotion, il 50°anniversario di un grande classico come After The Gold Rush di Neil Young, le reminiscenze bucoliche di Ryley Walker, il grande ritorno dei Bright Eyes, il pop perfetto di Ariel Pink, il folk apparentemente sconclusionato ma straordinario di Richard Dawson. E se non vi basta troverete anche il folk-pop sghembo di Tim Presley’s WHite Fence, le atmosfere scure ed immaginifiche dei The Black Heart Procession, la delicatezza straordinaria di Lisa Germano e lo splendido e commovente esordio solista di Josiah Johnson, liberato dai demoni del passato. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. UNWOUND: Hexenzscene da ‘New Plastic Ideas’ (1994 – Kill Rock Stars)
02. PROTOMARTYR: Processed By The Boys da ‘Ultimate Success Today’ (2020 – Domino)
03. GOLD DIME: Easy da ‘Nerves’ (2017 – Fire Talk)
04. TALK NORMAL: In Every Dream Home A Heartache da ‘Sugarland’ (2009 – Rare Book Room Records)
05. IDLES: 1049 Gotho da ‘Brutalism’ (2017 – Balley Records)
06. CARDIACS: Big Ship da ‘Live’ (1988 – The Alphabet Business Concern)
07. FONTAINES D.C.: You Said da ‘A Hero’s Death’ (2020 – Partisan Records)
08. GRANT LEE BUFFALO: Lone Star Song da ‘Mighty Joe Moon’ (1994 – Slash / London Records)
09. SONIC BOOM: Things Like This (A Little Bit Deeper) da ‘All Things Being Equal’ (2020 – Carpark Records)
10. SPACEMEN 3: Take Me To The Other Side da ‘The Perfect Prescription’ (1987 – Glass Records)
11. PORTISHEAD: Threads da ‘Third’ (2008 – Island Records)
12. FIONA APPLE: Ladies da ‘Fetch The Bolt Cutters’ (2020 – Epic / Clean Slate)
13. BARK PSYCHOSIS: Blue da ‘Blue’ (12″) (1981 – Circa / 3rd Stone)
14. THE FOR CARNATION: Moonbeams da ‘The For Carnation’ (2000 – Domino)