Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
Oggi parliamo di uno dei gruppi più conosciuti dell’intera scena post-rock americana: i Tortoise
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene #iorestoacasa
Abbiamo parlato tre settimane fa degli Squirrel Bait, una band capace di influenzare un’intera decade di musica pur pubblicando un solo album, per giunta della durata di una mezz’ora scarsa. Ma questo gruppo è riuscito ad entrare nella leggenda perché dal suo scioglimento si sono formate alcune tra le band più importanti del rock alternativo americano degli anni ’90.
Lo ammetto spudoratamente: ho sempre avuto un debole per quel vasto movimento musicale nato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 universalmente conosciuto con il nome di post-rock. In realtà, in questo vasto calderone creato dal critico Simon Reynolds finirono gruppi che avevano approcci e finalità considerevolmente diversi. Il paradigma era: creare musica con una strumentazione rock con una finalità che non è prettamente rock. All’epoca c’erano due poli ben definiti negli USA, uno che faceva capo a Louisville, e l’altro a Chicago: la scena era estremamente vitale e comprendeva svariate collaborazioni tra musicisti, creazione di diversi side projects, e molti degli album registrati in quel periodo non ebbero all’epoca la meritata dimensione mediatica solo per la quasi contemporanea esplosione del movimento grunge che, almeno a livello mainstream, ne oscurò la visibilità. Fortunatamente il tempo si è rivelato galantuomo e con il passare degli anni ha reso giustizia ai vari June of 44, Gastr Del Sol, Slint o Rodan , tanto per citare alcuni tra i gruppi più famosi.
I Tortoise sono stati uno dei gruppi più importanti di quella scena vitale chiamata post-rock, che aveva le sua grandi direttrici in Chicago e Louisville. Nati proprio nella windy city dalle ceneri di grandi gruppi (Squirrel Bait, Bastro, Slint, Bitch Magnet), sono stati capaci di prendere varie suggestioni rock, elettroniche, dub, e farle confluire in un suono “altro” che comprendeva anche i benefici influssi delle due scene più interessanti e creative degli anni ’70, la scena di Canterbury da una parte ed il kraut-rock dall’altra.
In quel periodo riprende vita l’underground vero, come negli ultimi anni ’60: quello vero, coraggioso e quasi sovversivo. La musica riprende in parte quella dei primi anni ’70: si ritrova il virtuosismo, la musica non è più così immediata, si ritrovano echi psichedelici, sprazzi dell’evoluzionismo post Canterbury di Robert Wyatt, un pizzico di krautrock e una ciliegina di progressive, quello sperimentale dei King Crimson, sempre in movimento e c’è spazio per lunghi strumentali. C’è la riscoperta del jazz elettrico di Miles Davis, della ritmica spigolosa dei Can e quella motoristica dei Neu!. Ci sono le convulsioni melodiche dei Faust (che saranno rilanciati negli anni ’90 proprio da Jim O’Rourke) e le lunghe suite dei Popol Vuh. E’ una sorta di nuova grammatica del rock. Gran parte dei gruppi post rock raramente contempla parti cantate, e quando c’è la voce spesso non è usata in maniera tradizionale. il post-rock flirta con il dub e con gli isolazionisti ambient, e c’era un uso spastico dell’hardcore e del noise rock. I toni si fanno più riflessivi, il crossover funk-metal diventa jazz-funk strumentale. La forte carica comunicativa del rock diventa al contrario riserbo e antiprotagonismo fino a diventare anche snob. L’attenzione è improntata alla riflessività, all’urlo si preferisce il silenzio.
I Tortoise si formano all’inizio degli anni ’90 grazie all’incontro tra il bassista Doug McCombs (proveniente dagli Eleventh Dream Day) e del batterista John Herndon, entrambi interessati alla sperimentazione sul ritmo. In realtà il progetto originario era quello di una formazione a due, ma per veicolare meglio le loro idee di sperimentazione, ai due si unirono il batterista John McEntire e il bassista Bundy K. Brown, entrambi provenienti dall’esperienza Bastro, seguiti dal percussionista Dan Bitney. Nel 1993, dopo aver firmato con la Thrill Jockey, pubblicarono il primo singolo, seguito, l’anno successivo, dal primo album autointitolato, dove la band mostrava tutto la proprio abilità negli incastri compositivi accompagnata da una notevole perizia tecnica mai fine a se stessa. Nel 1995 uscì un album di remix, Rhythms, Resolutions, and Clusters. Successivamente Brown uscì dalla band, e venne sostituito, al basso, da quel David Pajo, che si era già messo in mostra negli Slint come chitarrista estremamente ricercato.
La nuova formazione pubblicò, nel 1996, Millions Now Living Will Never Die, generalmente considerato il loro capolavoro nonché uno dei dischi più importanti degli anni novanta e dell’intera storia del post-rock. Pajo, musicista e persona irrequieta, non durò molto all’interno della band e venne sostituito da Jeff Parker, chitarrista di evidente estrazione jazz, la cui influenza si sentirà moltissimo nel terzo lavoro uscito nel 1998 ed intitolato TNT. In questo album, proprio per l’innesto della chitarra jazz di Parker, la band inizia a smussare la propria componente elettronica facendo storcere più di una bocca per il risultato finale non gradito a tutti i fan del gruppo.
La band, dopo i primi tre esplosivi album, iniziò a diradare l’esposizione discografica. Probabilmente per mascherare un’evidente calo creativo che dopo Standards (2001), e It’s All Around You (2004) aveva toccato il fondo con Beacons Of Ancestorship (2009), oppure per permettere ai musicisti di espandere le proprie esperienze soprattutto nel campo della scena improv ed alternative jazz. I musicisti hanno preso parte a diversi progetti, tra cui i più noti sono certamente i Sea And Cake di John McEntire, o il progetto Chicago Underground Duo/Quartet cui più volte ha prestato la sei corde proprio Jeff Parker.
Come detto in precedenza, il gruppo sembrava davvero allo sbando. Musicisti troppo ripiegati ad insistere su un certo manierismo che ormai aveva ben poco delle felici sperimentazioni di inizio carriera, e un suono divenuto quasi scontato, una specie di jazz-rock-lounge, cercando di non usare il termine fusion, perfino troppo dispregiativo per la band di Chicago. Doug McCombs, John McEntire, John Herndon, Dan Bitney e Jeff Parker con il loro settimo album in carriera hanno invece saputo assestare un inatteso colpo di coda. Niente di epocale, sia chiaro, The Catastrophist certamente non si può avvicinare ai primi due album della band, ma i cinque hanno trovato due felici chiavi di rilettura del loro suono. La prima è l’aver asciugato finalmente il suono pur mantenendo vivi i loro minuziosi arrangiamenti. La seconda (e più importante) è che dopo averne discusso (pare) in fase di registrazione di ogni album, la band ha finalmente deciso di inserire la voce in ben due degli undici pezzi che compongono l’album, chiamando a collaborare Todd Rittmann dei Dead Rider e Georgia Hubley degli Yo La Tengo.
E’ difficile evolvere e crescere dopo una ricca carriera ultra ventennale, ma la band ha saputo portare nuova linfa, cancellando in parte le opache prestazioni degli ultimi lavori, e confezionando un disco elegante e asciutto dalle pulsazioni morbide in superficie ma irrequiete ed in continua metamorfosi se andiamo ad esaminare gli arrangiamenti in profondità.