Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
Oggi parliamo dei Chicago, band troppo spesso ricordata solo per la loro triste deriva mainstream
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene #iorestoacasa
Immagino già le “O” di meraviglia dipinte su parecchi volti, ma dai… parli davvero dei Chicago??? Quelli di “If You Leave Me Now?” e “Hard To Say I’m Sorry”? Classiche ballatone perfette per i balli lenti delle feste di qualche generazione fa… Effettivamente la band è troppo spesso ricordata solo per la loro triste deriva mainstream, e non per la sua grande valenza in ambito jazz-rock dalla fine degli anni ’60, quando erano condotti per mano dalla funambolica sei corde di un incredibile musicista chiamato Terry Kath.
Se la cattiva fama della band è in qualche modo giustificata per le cose aberranti da loro prodotte negli anni ’80, in realtà i Chicago, nati nel 1967 in un’epoca straordinariamente creativa e prolifica, sono stati un gruppo di assoluto valore. Impegnati politicamente e di grande impatto musicale, con una solida e fantasiosa sezione di fiati ed un fantastico impianto jazz rock.
Terry Kath aveva formato il primo nucleo della band insieme a due inseparabili amici: il batterista Danny Seraphine ed il sassofonista Walter Parazaider. Con l’innesto dei due compagni di Parazaider alla DePaul University di Chicago, James Pankow (trombone) e Lee Loughnane (tromba) si forma una sezione fiati che farà scuola. A tutto questo si va ad aggiungere ben presto il talento del tastierista Robert Lamm e del bassista Peter Cetera ed ecco formati i Chicago Transit Authority.
James William Guercio è un giovane produttore appena approdato alla Columbia Records, ha l’occhio lungo e non ci mette molto a capire l’enorme potenziale della band. Prende i sette sotto la sua ala protettrice, li fa trasferire in California e li mette subito sotto contratto. Appena arrivati a Hollywood i Chicago Transit Authority iniziano a suonare regolarmente nello storico locale Whisky a Go Go, abbandonano le cover iniziando a comporre brani originali e aprono concerti di artisti come Janis Joplin e Jimi Hendrix. Proprio Hendrix è il primo a rimanere sconvolto dall’enorme talento di Terry Kath, e dopo un concerto si rivolge a Parazaider esclamando la famosa frase: “Hey man, your guitar player is better than me!!!”.
Il primo eponimo album del gruppo esce nell’aprile del 1969, ed è una vera bomba. Un album doppio che trasuda energia, jazz, rock, in composizioni di altissima levatura. Lamm, Kath e Cetera si alternano alle parti vocali, con Lamm come principale compositore. Kath è torrenziale nel suo lavoro alla sei corde e riconoscibile nel suo timbro vocale, baritonale e ricco di soul. Brani come “Introduction”, “Does Anybody Really Know What Time It Is?”, “Beginnings”, “Questions 67 and 68” e “I’m A Man” diventano dei veri e propri classici jazz-rock. Guardate qui sotto l’esibizione della band a Tanglewood nel 1970 per capire il potenziale anche on stage del gruppo.
L’album di esordio vende straordinariamente bene per essere il primo e addirittura un doppio LP. Posizione numero 17 nella classifica Billboard 200, oltre un milione di copie vendute e conseguente disco di platino. Il gruppo cambia il nome accorciandolo in Chicago per evitare controversie legali con l’azienda municipale dei trasporti della Windy City chiamata proprio Chicago Transit Authority e si lancia in una vorticosa carriera. Da li in poi gli album si chiameranno tutti semplicemente con il nome della band. Caratterizzati da un logo che è diventato il loro riconoscibile marchio di fabbrica, e un numero progressivo ad identificarli.
Chicago II esce nel 1970 ed è un successo ancora maggiore: numero 4 nella Billboard 200, numero 6 in Gran Bretagna, tre singoli nella top ten della Billboard Hot 100 (“25 or 6 to 4” al N°4, “Make Me Smile” al N°9 e “Colour My World” al N°7), e tre nominations ai Grammy Award. Chicago III esce nel 1971 ed è un altro doppio. Risente del lungo periodo passato dal gruppo on the road, ma nonostante una stasi creativa raggiunge comunque il numero 2 in USA pur non piazzando alcun singolo nella top ten dei singoli. A suggellare questi straordinari primi anni di carriera arriva il mastodontico quadruplo album registrato dal vivo. In Chicago at Carnegie Hall i sette ripercorrono con magistrali esecuzioni on stage gli straordinari primi anni di carriera.
Con gli album seguenti il gruppo asciuga leggermente il proprio suono. Chicago V è il loro primo disco singolo. Nel 1973 arriva Chicago VI che vede per la prima volta come membro aggiuntivo il percussionista Laudir de Oliveira. Con il seguente Chicago VII (uscito nel marzo 1974), tornano al formato doppio facendo uscire un disco meno immediato e più legato al jazz con lunghe suites strumentali. L’autocelebrazione arriva con il nono volume della serie, Chicago IX: Chicago’s Greatest Hits. Mentre Chicago X (1976) regala alla band il primo numero 1 in classifica con la ballatona “If You Leave Me Now” scritta e cantata dal bassista Peter Cetera. Anche la copertina è entrata nella storia, con il logo del gruppo in rilievo su una tavoletta di cioccolata
E’ il brano che forse cambia per sempre la percezione della band nel mondo, e la lancia al tempo stesso nella stratosfera del mainstream. Un anno dopo esce Chicago XI, album che segna una profonda linea di demarcazione nella storia del gruppo. E’ l’ultimo album in cui suona Terry Kath, che con “Takin’ It on Uptown” firma il suo epitaffio sonoro come cantante e compositore. Il disco esce quattro mesi prima del tragico incidente che pone fine alla sua vita.
E’ il 23 gennaio 1978, siamo a Woodland Hills, a sud della San Fernando Valley. In questo sobborgo di Los Angeles abita Don Johnson, uno dei roadie più fidati e di lunga data della jazz-rock band Chicago. Johnson aveva invitato molti amici ad un party quel pomeriggio, e tra i presenti non poteva mancare Terry Kath, talentuoso chitarrista e occasionalmente cantante della band. Kath stava attraversando un periodo di profonda inquietudine, tra una dipendenza da droghe/alcool e una crescente passione per le armi da fuoco.
Questi fattori avevano portato molte delle persone a lui più vicine ad esprimere una sincera preoccupazione. I più allarmati dalla deriva presa da Kath erano il bassista della band Peter Cetera, il batterista e amico dai tempi della scuola Danny Seraphine e lo storico produttore James William Guercio. Ma il pomeriggio sembra andare più che bene, Kath è sorridente e di ottimo umore, la band festeggia il successo dell’undicesimo album in studio e nulla lascia presagire quello che sta per succedere.
Sono circa le 17 quando Kath prende in mano una P38, si dondola sullo schienale di una sedia ed inizia a giocare con la pistola. Johnson è visibilmente preoccupato e gli chiede di metterla via, ma Kath sfodera uno dei suoi sorrisi più convincenti e lo rassicura “Hey Don, lo vedi che il caricatore è vuoto?” mostrandogli la pistola aperta, mettendosela poi alla tempia e premendo più volte il grilletto a vuoto.
Il gioco sembra finito qui, ma Kath ha un’altra pistola, una 9 mm semiautomatica, ed inizia a giocare anche con quella. Johnson gli chiede di posarla, ma Kath con una risata gli fa vedere che anche questa pistola ha il caricatore vuoto e sorridendo se la punta alla tempia. Ma il chitarrista non sa che un maledetto proiettile è rimasto nella camera di scoppio, e preme il grilletto. In quel maledetto istante il mondo perde uno dei più straordinari chitarristi e cantanti della storia del rock.
La morte di Kath pone fine ad un’era dei Chicago. L’album successivo, il primo senza il chitarrista, vede anche la fine della decennale collaborazione con Guercio. Addirittura (caso pressoché unico nella storia della band) si presenta sugli scaffali nell’ottobre del 1978 con un titolo: Hot Streets. Il sound della band cambia radicalmente, strizzando l’occhio alla moda imperante all’epoca della disco music. Da quel momento in poi ci sarà un lento declino delle loro fortune discografiche, anche se la band è tuttora in attività.
Se volete sapere chi era quel chitarrista straordinario che fece esclamare ad un incredulo Jimi Hendrix “Questo chitarrista è più bravo di me!”, cercate un documentario intitolato The Terry Kath Experience: A Daughter’s Journey. Il progetto è nato dalla frustrazione della figlia Michelle nel vedere il talento e il lavoro del padre quasi totalmente dimenticato dal grande pubblico. Andate ad riascoltare il suo perfetto fraseggio, la sua voce baritonale ricca di sentimento e di soul, e riscoprirete un personaggio che ci ha lasciato 40 anni fa, e che merita di essere ricordato e riascoltato come e più di moltissimi artisti più famosi che sono nei nostri cuori e nei nostri padiglioni auricolari.