Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
Marisa Anderson è un’artista capace di saper toccare l’anima con pochi strumenti
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene #iorestoacasa
Oggi nel piccolo grande spazio di Music Room parliamo di una chitarrista capace con pochi e sapienti tocchi delle sue sei corde, di visualizzare evocativi luoghi della mente e panorami minimalisti, con la sua capacità di rinvigorire la tradizione country-blues-folk.
Marisa Anderson è nata in California nel 1971, ma in realtà questa incredibile musicista non ha quasi mai avuto fissa dimora. Quando aveva 19 anni si è unita ad un collettivo che si muoveva su e giù per gli States seguendo le necessità delle popolazioni bisognose. Una vita on the road e un attivismo politico che l’ha portata a fianco dei campesinos durante la rivolta nel Chiapas, e a marciare più volte in lungo ed in largo per gli States manifestando in maniera forte e decisa il NO al nucleare. Il suo battersi per i diritti fondamentali per ogni essere umano ed il suo impegno sociale non è solo una parte imprescindibile della sua personalità, ma ha avuto anche un enorme peso specifico sulla sua produzione musicale che, pur iniziata relativamente tardi, ha saputo colmare grazie ad un elevatissimo livello qualitativo.
Da circa venti anni la Anderson risiede stabilmente a Portland, dove tra l’esordio come componente del quartetto alt-country Dolly Ranchers e la partecipazione nel combo Evolutionary Jass Band, ha trovato modo di confezionare il suo primo album solista Holiday Motel. Il disco, uscito nel 2005, è ideologicamente vicino al country-folk delle sue origini, con Marisa che suona banjo, chitarra, slide e organo oltre a cantare. Voce che accantonerà già dal lavoro successivo, motivando così la sua decisione: “Le parole hanno i limiti del finito, ho molte più cose da dire senza usare le parole”.
The Golden Hour arriva nel 2009, e può essere considerato il suo primo vero album. Marisa, insieme alla passione per il folk Appalachiano ed il blues, inizia ad unire un talento sconfinato per l’improvvisazione. Tanti i suoi padri putativi: da Mississippi John Hurt a Blind Willie McTell, da Nina Simone e Woody Guthrie, da John Fahey a Elizabeth Cotten, suo riferimento del cuore.
Mercury quattro anni più tardi, riesce nella piccola impresa di dare alla Anderson una visibilità inaspettata. Le composizioni sembrano allentare la presa improv e prewar folk per andare su melodie più accessibili, accentuando l’amore per i suoni della catena montuosa del North Carolina, capaci di unire il folk britannico con il blues. Parallelamente a Mercury la chitarrista da alle stampe Traditional & Public Domain Song, dove mette la sua tecnica e la sua passione musicale al servizio dell’impegno antimilitarista e sociale. Un disco contro il potere costituito che annovera anche una classica canzone popolare antifascista italiana come “Bella Ciao”. Dopo uno split insieme a Tashi Dorji, nel 2016 è la volta di Into The Light , dove la Anderson cambia ancora pelle allontanandosi dai monti per approdare ad un suono desertico e cinematico. E se il pensiero comune era che con quel lavoro avesse raggiunto il suo climax sonoro, nel 2018 a sparigliare le carte è arrivato Cloud Corner.
Il suo esordio per la Thrill Jockey è una perfetta summa di tutti gli stili che la Anderson ha saputo mirabilmente spalmare sulla sua discografia dall’esordio ai giorni nostri. In più, è stata capace di aggiungere nuove suggestioni che rendono le 10 tracce assolutamente uniche. A partire dagli arpeggi intimisti di “Pulse” si susseguono tutti gli amori musicali della polistrumentista, arricchiti da un parco musicale allargato, non solo dal piano Wurlitzer (già usato in passato) che affiora ogni tanto, ma soprattutto da strumenti a corda sudamericani come il requinto jarocho e il charango che introduce magistralmente l’onirico minimalismo di “Lift”.
In passato la Anderson ha avuto il piacere di suonare con musicisti africani come i nigeriani Mdou Moctar e Kildjate Moussa Albadé (ex bassista di Bombino) apprendendo da loro i fraseggi tipici della musica Tuareg, messi in pratica in brani come “Surfacing” o “Slow Ascent”. Nuovi approcci dunque nella fase compositiva, ma anche una voglia di smentire una sua presunta predilezione per le atmosfere depresse. In questo solco colpisce positivamente il piglio country della title track e soprattutto “Sant Feliu de Guíxols”. Il brano prende il nome dall’omonima località della Costa Brava dove Marisa tenne un concerto nel 2015. Nel backstage la musicista era stata avvicinata da alcuni fan che, come consuetudine vuole, volevano fare due chiacchiere e scattare alcune foto. Una domanda in particolare gli era rimasta in mente: “Perché non scrivi mai una composizione allegra?”. La Anderson ha voluto scegliere proprio il nome della cittadina spagnola per rispondere con accordi folk aperti e rilassati al suo interlocutore.
“Angel Rest” è un brano di una grazia intimista che commuove, dedicato ad uno dei suoi percorsi escursionistici preferiti che passa non lontano dalla sua casa di Portland, devastato da un terribile incendio nel 2017. “Sanctuary” squarcia la nebbia della copertina con raggi di sole folk-blues, mentre “Sun Song” coinvolge con le sue scale classiche e spagnoleggianti. In “Lament” riesce a dare voce ai rifugiati siriani con dolorosi tocchi di slide e Wurlitzer. La guerra in Siria e il drammatico esodo che ne è conseguito non potevano lasciare indifferente chi ha sempre lottato per i senzatetto, per la difesa dell’ambiente, contro il potere costituito e contro ogni guerra fisica e psicologica.
Stupisce la varietà di stili e l’abilità di Marisa Anderson di saper toccare l’anima con così pochi strumenti. Le sue composizioni sono capaci di emergere dalla nebbia in tutta la loro meraviglia. Tra la tradizione country-blues-folk e nuove suggestioni che si muovono tra gli Appalachi ed il popolo Tuareg, passando per il Messico e la Bolivia, la chitarrista è riuscita a creare una discografia in costante progressione, consegnandoci con Cloud Corner il suo lavoro più ispirato e commovente.