Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
Dogrel dei Fontaines D.C. è un disco che accarezza cuore, anima e cervello, un post-punk viscerale ambientato in una Dublino post Brexit tanto amata quanto odiata
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene #iorestoacasa
Oggi nel piccolo grande spazio di Music Room torniamo al presente parlando di un gruppo irlandese, i Fontaines D.C., che nel 2019 è giunto ad un esordio particolarmente atteso. Dogrel non è sicuramente un capolavoro, ma è un disco capace di accarezzare cuore, anima e cervello, un post-punk viscerale ambientato in una Dublino post Brexit tanto amata quanto odiata.
Come ho detto nel preambolo, è bene sgombrare subito il campo da qualsiasi equivoco: Dogrel dei Fontaines D.C. non è il miglior esordio di una band britannica da decenni come mi era capitato di leggere da qualche parte. In più, sicuramente non aggiunge nulla a quanto è stato già ascoltato molte volte e non è entrato di prepotenza nelle Top 10 delle più titolate webzines e dei migliori magazines nostrani, però… In quel “però” metteteci dentro tutto quello che volete: la voce recitativa ed incalzante di Grian Chatten con il suo bell’accento distintivo irlandese, quell’empatia che suscitano immediatamente ascoltando il primo verso: “Dublin In The Rain Is Mine. A Pregnant City With A Catholic Mind. Starch Those Sheets For The Birdhouse Jail. All Mescalined When The Past Is Stale, Pale”.
Aggiungiamo anche quel loro amore per la poesia, le ritmiche incalzanti, l’amore-odio per la propria città, una Dublino esplorata passo dopo passo nelle 11 tracce di cui è composto quest’album, ed un’energia post-punk che viene percepita subito come viscerale ed autentica. Ma andiamo con ordine e riavvolgiamo per un attimo il nastro.
Grian Chatten (voce), Carlos O’Connell (chitarra), Conor Curley (chitarra), Conor Deegan (basso) e Tom Coll (batteria), si incontrano, storia comune a molte altre bands, al Liberties College di Dublino scoprendo una passione condivisa non solo per il rock ma soprattutto per la poesia della Beat Generation con una particolare predilezione per James Joyce. Paradossalmente questa passione ha portato i Fontaines D.C. ad esordire prima sulla carta stampata con una raccolta in versi intitolata “Vroom” che su disco, ma è stato grazie alla loro intensa attività live che la Partisan Records (non contenta di avere già gli Idles nel proprio roster) si è accorta di loro e li ha messi sotto contratto. I loro primi singoli hanno conquistato subito pubblico ed addetti ai lavori, tanto da consentirgli di aprire i concerti di 2 delle più note band emergenti in Gran Bretagna: Idles e Shame.
Ne il nome del gruppo ne il titolo dell’album sono stati scelti a caso: l’appartenenza alla città è talmente importante da apparire nella loro denominazione sociale, il D.C. infatti non è altro che l’acronimo di Dublin City. Mentre il “doggerel” (qui nella versione Irish “dogrel”), non è altro che una composizione in versi, spesso comici e triviali, usati volutamente per coinvolgere la coscienza del popolo su problemi sociali. Manca a questo punto solo qualcosa che possa spiegare la scelta di Fontaines. Questa è una storia divertente. Johnny Fontaine nel fortunato romanzo di Mario Puzo “Il Padrino” è uno dei tanti figliocci di Don Vito Corleone, di cui diviene quasi un figlio alla morte del padre. Intraprende la carriera musicale divenendo uno dei cantanti più famosi d’America in pochi anni, ma non uno dei più fortunati. Infatti è lui che ad un certo punto viene rifiutato da un produttore, forzando così la mano a Corleone per mandare la famosa “offerta che non si può rifiutare”. Al quintetto scherzosamente piaceva l’idea che la gente potesse collegarli ad un immaginario mafioso, e volevano quasi che si pensasse che stavano facendo carriera perché avevano dei padrini che li proteggevano.
Il disco, prodotto da una sorta di nuovo Re Mida come Dan Carey (Toy, Emiliana Torrini, Franz Ferdinand, Steve Mason), si apre e si chiude sventolando il tricolore irlandese: dalla febbrile e breve “Big” aperta dai versi “Dublin in the rain is mine. A pregnant city with a catholic mind”, fino alla commovente e dolente ballata folk di “Dublin City Sky” che evocando i Pogues chiude il programma. Musicalmente, lo ribadisco, non troverete nulla di nuovo. Le linee di basso che aprono brani come “Television Screen” o “The Lotts” sembrano prese in prestito dalla quattro corde di Peter Hook, il sarcasmo nichilista di Mark E.Smith ogni tanto affiora con il suo ghigno, ma il loro apparentemente convenzionale post-punk viene trasferito in nuovi ed intriganti territori geografici. Sono i particolari che fanno spesso e volentieri la differenza, quelli che, ad esempio, rendono così speciale il rotolare febbrile della garage “Hurricane Laughter” su cui Chatten declama distaccato e tagliente “There Is No Connection Available”, evidenziando le crepe di una società ormai dipendente dalla fibra.
Quello che ho trovato notevole nei Fontaines D.C. è la capacità istintiva di creare personaggi veri, fatti di sangue, carne ed ossa che si muovono ed interagiscono empaticamente con l’ascoltatore. Come l’adolescente del brano di apertura che declama “My Childhood Was Small, But I’m Gonna Be Big”, o il giovane protagonista della lenta e malinconica “Roy’s Tune” che si muove nella periferia irlandese tra un lavoro mal pagato e un nuovo figlio in arrivo, combattuto i suoi doveri di marito e padre e la sua vecchia vita, provando sentimenti di frustrazione, depressione e perdita dell’innocenza. E ancora l’incedere vocale di Chatten sul tappeto ritmico di “Liberty Belle”, pronta ad esplodere in un trascinante ritornello arricchito da un coro da pub, il riff rapido ed efficace di “Boys In The Better Land”, dove un tassista proveniente da un background multiculturale afferma il proprio senso di appartenenza irlandese fumando sigarette Carroll (prodotte a Dundalk) e urlando fiero: “Brits Out!”.
I Fontaines D.C., con la forza dirompente di Dogrel, si aggiungono a Idles, Fat White Family, Shame e Sleaford Mods come esponenti di punta del “nuovo rock” britannico. L’atmosfera sporca, l’istintività sfacciata, la capacità di comporre versi intensi e storie in cui molti possono identificarsi, sono la chiave fondamentale per comprendere il successo di questi cinque irlandesi, oltre all’amore-odio per la propria terra espresso in un accento locale volutamente marcato. Il fatto che si parli molto di questo disco, sia in positivo che in negativo, lo ritengo una cosa davvero molto positiva, vuol dire che una certa estetica musicale è tornata davvero ad essere importante. E se in studio continuano a non convincervi, guardate i filmati delle loro esibizioni live. Se non bastano a convincervi nemmeno i loro concerti avete davvero il cuore di pietra.
“Per noi è molto importante esplorare la cultura agonizzante che viene uccisa dalla sostituzione della popolazione operaia esistente da parte delle classi medie. Tutto questo sta gettando un’ombra su ciò che amiamo della nostra città e questo ci dà l’impulso di scrivere su ciò che è in quell’ombra. L’aumento delle aziende tecnologiche qui, tutte le cose capitalistiche in corso a Dublino in questo momento, l’attenzione al denaro sulla qualità della vita o dell’arte, è il motivo per cui la gentrificazione è un dato di fatto. Penso purtroppo che l’Irlanda romantica sia ormai morta e andata.” (Grian Chatten)