Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
Tra i migliori gruppi della scena post-rock britannica degli anni ’90 c’erano i Moonshake
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene
Era il maggio del 1994, la musica mainstream era stata fortemente contagiata dal potente virus del grunge e il mondo musicale stava ancora piangendo la morte dell’icona Kurt Cobain avvenuta il mese precedente. In Inghilterra era appena uscito il terzo album dei Blur (Parklife) e i primi due singoli degli Oasis (“Supersonic” e “Shakermaker”), solo un piccolo assaggio dell’esplosione violenta del britpop che avverrà di li a pochi mesi con l’uscita di Definitely Maybe. Ma c’era (e fortunatamente c’è ancora) nel regno di Albione una rivista chiamata The Wire, mensile che annovera i migliori critici musicali d’oltremanica e che all’epoca aveva tra le sue fila un certo Simon Reynolds. Sul numero di maggio 94 era stato pubblicato un articolo scritto dallo stesso Reynolds, che cercava di codificare in qualche modo un nuovo approccio al suono, un’estetica che sanciva il taglio del cordone ombelicale che la legava al punk (cordone stretto all’embrione del grunge), per abbracciare una serie di mutazioni che ripescavano aggiornandole una sequenza di generi che sembravano essere stati ormai messi in cantina: psichedelia, canterbury sound, krautrock.
Di questa nuova progenie, secondo l’eminente critico, facevano parte una serie di gruppi (naturalmente britannici) che pur suonando con la classica strumentazione del rock, ne rivoluzionavano la grammatica in nome di una libertà sperimentale del tutto nuova. Dunque il concetto iniziale di post rock partiva dalle formazioni provenienti dalla Gran Bretagna, e da quello che è stato il suono dell’etichetta di riferimento, ovverosia la Too Pure, fondata a Londra nel 1990 da Richard Roberts e Paul Cox, salita improvvisamente alla ribalta grazie alla pubblicazione di ‘Dry’, l’album di esordio di PJ Harvey. La label londinese era diventata in breve tempo il punto di riferimento per gli ascoltatori e gli addetti ai lavori meno allineati e usuali. Le band che incidevano per l’etichetta (Th’ Faith Healers, Pram, Stereolab, Seefeel, Mouse On Mars, Laika, e gli stessi Moonshake di cui stiamo per parlare in maniera dettagliata) da una parte non si somigliavano affatto, ma allo stesso tempo erano pervase dalla stessa comune voglia di sperimentare, rifacendosi a band come Pop Group o Rip Rig + Panic, ripercorrendo le strade del krautrock, usando lo studio di registrazione come nuovo strumento e delegittimando di fatto il simbolo principe del rock: la chitarra.
In particolare vorrei parlare dei Moonshake, gruppo di post-rock britannico sul quale ho scritto un lungo articolo che ne ripercorre tutti i passi dagli esordi allo scioglimento. La band è stata formata da David Callahan e Margaret Fiedler nel 1990 scegliendo un nome che ne sancisse in maniera inequivocabile il legame con il krautrock (“Moonshake” non è altro che uno dei brani che compongono il seminale Future Days dei Can). I due leader trovano presto un loro equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa.
Eva Luna è il loro splendido esordio che si snoda in tredici meravigliose tracce dove Pop Group, Can, Public Image Ltd. e My Bloody Valentine si stringono in un caleidoscopico girotondo. I quattro mettono a fuoco un disco che, nei suoi tratti scarni e scheletrici, colpisce con le sue schegge new wave, con le sue argute bizzarrie, le poliritmie kraut, i fiati jazz e i suadenti innesti dub. Gli intricati ritmi di “Mig” Moreland e l’ipnotico basso dub di John Frenett, sono la migliore base possibile su cui possono partire brani fantastici come la torrenziale “Spaceship Earth”.
Un anno dopo, il mini Big Good Angel certifica il talento e le giuste ambizioni della band. Ma la tensione creativa e personale tra Callahan e Fiedler diventa sempre più forte, fino a quando un tour della band in Nord America nel corso del 1993 porta i due a scontarsi apertamente fino alla separazione. Una delle formazioni più promettenti e interessanti dell’epoca sembra perduta. Ma mentre Callahan e Mig mantengono la ragione sociale, la Fiedler e Frenett, insieme al produttore Guy Fixen, danno vita ai Laika, che continueranno sul binario intrapreso dai Moonshake accentuando esclusivamente la vena melodica e la percussività psichedelica.
Callahan e Mig prendono con loro il sassofonista, flautista e clarinettista Raymond M. Dickaty e danno alle stampe nel 1994 lo splendido The Sound Your Eyes Can Follow. Il nuovo lavoro mette subito le cose in chiaro con una nota sul retro di copertina che in maiuscolo avverte che il disco è “guaranteed guitar-free”. L’album non tradisce affatto le radici del gruppo, andando ad investigare più a fondo le marcate influenze jazz. Le complesse trame ritmiche vengono costantemente trafitte dagli inserimenti dei fiati di Dickaty e dalle bordate elettroniche dello stesso Callahan. In questo disco si inseguono senza sosta soul, jazz, funk, prendendo definitivamente i Rip Rig + Panic come numi tutelari, e mantenendo l’alternanza vocale maschile/femminile con l’innesto in cinque brani della (quasi irriconoscibile) voce di PJ Harvey, accreditata semplicemente come Polly Harvey.
Dopo la partenza di Mig, un esperienza traumatica come l’inserimento nella line-up del festival itinerante Lollapalooza ma esclusivamente nel “third stage” ed un ultimo album deludente come Dirty & Divine, uscito nel 1996, Callahan si trasferisce negli USA e la band si scioglie nel 1997 tanto amichevolmente quanto definitivamente. Resta il rimpianto per un gruppo tra i più interessanti e originali della loro epoca, il cui unico torto è stato di essere stati troppo facili per l’avanguardia e troppo intellettuali per la massa.