Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
I bostoniani Cul De Sac forse sono stati il miglior gruppo post-rock americano al di fuori dell’asse Chicago-Louisville
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene
Le scene negli Stati Uniti risultano da sempre fortemente localizzate. Come il grunge è stato un affare di Seattle e dintorni, così il primo punk fu newyorkese e californiano. Mentre la no-wave è stata specifica addirittura di alcuni quartieri della Big Apple, così il post-rock è nato e vissuto sull’asse Louisville/Chicago. Ma se il materiale del genere uscito al di fuori di queste due città è stato poco a livello quantitativo bisogna dire che invece è stato estremamente interessante a livello qualitativo.
Tra gli antesignani del movimento post-rock ci fu una scena sviluppatasi quasi esclusivamente a Los Angeles e che fu ribattezzata “trance” proprio da uno dei suoi protagonisti. Il chitarrista A Produce, è di lui che parliamo, aveva messo nero su bianco sulla sua fanzine, una serie di numi tutelari del movimento: da John Cage ai Wire, dai Residents ai Velvet Underground, dai Pink Floyd al Miles Davis elettrico, da Satie e Debussy fino ai Joy Division. La trance era scandita da rimi tribali, recisa da incursioni rumoristiche e dilatata come solo certa psichedelia eletta sa essere. I gruppi di questa scena sono quasi tutti rimasti nell’anonimato, tranne gli Psi-Com (per la presenza al suo interno di Perry Farrell, il futuro leader dei Jane’s Addiction), gli Shiva Burlesque (perché dalle loro ceneri sono poi nati i ben più noti Grant Lee Buffalo), e i Savage Republic di Bruce Licher (semplicemente perché erano i migliori del lotto). C’è chi ha fatto dell’ottimo post-rock non appartenendo ne alla trance, ne all’asse Chicago-Louisville, ne all’etichetta di culto Kranky che recuperava, oltre al kraut e alla psichedelia, anche lo sviluppo dell’elettronica analogica e del minimalismo. Andiamo quindi a Boston per trovare un gruppo ispirato dallo scuro folk blues del passato.
La riscoperta grazie ad un ricco ventaglio di ristampe del folk blues metafisico di John Fahey ha davvero marchiato a fuoco gli anni ’90. Anche se, da misantropo quale è sempre stato, probabilmente l’etichetta di “padre del post-rock” non gli è mai piaciuta considerando la gran parte dei musicisti degli anni ’90 non alla sua altezza. In ogni caso Fahey dovrebbe ringraziare quei musicisti che lo hanno riportato in auge, e soprattutto i Bostoniani Cul De Sac con cui ha addirittura inciso un album dalla preparazione laboriosa e non affatto semplice proprio per il carattere del chitarrista.
I Cul De Sac sono stati forse il miglior gruppo dell’era post-rock a non provenire dall’asse Chicago-Louisville, proponendosi come un gruppo capace di recuperare il krautrock dei Can allungandolo con una buona dose di motivi orientaleggianti, digressioni acustiche e splendidi quanto difficili fraseggi di synth. Il loro suono pieno di tensione ritmica, con le partiture chitarristiche tra psichedelia, folk e suggestioni mediorentali di Glenn Jones, e i fremiti dissonanti e kraut del synth di Robin Amos, ha creato una via avventurosa e mai virtuosistica di interpretazione del post-rock. China Gate è stato probabilmente l’album della maturità, con l’innesto del nuovo batterista John Proudman ed un suono in grado di amalgamare in maniera perfetta e levigata le varie influenze della band.
Un anno dopo viene dato alle stampe proprio un album inciso insieme al loro idolo John Fahey intitolato The Ephiphany of Glenn Jones. Tra l’altro proprio il leader dei Bostoniani, il chitarrista Glenn Jones, nelle note di copertina va a svelare la storia dei primi complicati approcci con Fahey tramite lettera, i primi incontri con l’ombroso chitarrista, e le frustrazioni dei primi momenti insieme in sala di incisione prima di trovare un complicato equilibrio. In ogni caso il risultato è spettacolare, sia nei brani originali, sia nelle riletture come quella, splendida, di “Come On In My Kitchen” di Robert Johnson. Il loro blues oscuro, ancora più incupito dal synth e sferzato da tribali ricami percussivi è capace di diventare pura magia. Curiosamente, il leader dei Cul De Sac ha sempre rifiutato di accostare il suo gruppo all’etichetta post-rock. Non è il primo e non sarà l’ultimo.