Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
I Rhyton sono uno dei gruppi più avventurosi della scena alt-rock attuale
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene
Il termine “tag” è usato spesso in fase di recensione per attribuire un genere o una parola chiave ad un gruppo o ad un artista. Nel caso dei Rhyton da Brooklyn, NY, è davvero arduo solo provare a classificare qualcosa che è difficilmente richiudibile in un singolo contenitore. La band è formata da tre musicisti che amano sperimentare, giocare con i suoni, improvvisare, esplorare avidi di emozioni il proprio subconscio; anche il più revivalista dei tre (Dave Shuford), lo è in modalità assolutamente avventurosa. Ma andiamo con ordine.
Alla chitarra e voce troviamo appunto Dave Shuford, conosciuto anche con il nome di D.Charles Speer, leader della band omonima e membro di No-Neck Blues Band e Helix. Rob Smith invece, suona la batteria in un gruppo psych-rock chiamato Pigeons, mentre Jimy Seitang, prestava il suo talento al basso e alle tastiere ai Psychic Ills e tuttora mantiene un suo personale progetto musicale sotto il moniker di Stygian Stride. La passione esplorativa dei tre va ad infrangere le barriere dei loro progetti personali e trova nei Rhyton uno spazio aperto per poter espandere e talvolta rompere gli steccati tra i generi, esplorando molteplici radici musicali e creando un paesaggio sonoro modernista in continuo movimento.
La scelta del titolo del loro quinto lavoro (il terzo per la Thrill Jockey) è eloquente. Redshift è infatti un termine che in astronomia indica un fenomeno per cui lo spostamento verso il rosso della luce emessa da una sorgente è dovuto o dall’espansione dell’Universo, la quale crea nuovo spazio tra sorgente ed osservatore, aumentando la lunghezza d’onda o da effetti gravitazionali di corpi massicci, come quasar e buchi neri. Questo spazio tra sorgente ed ascoltatore (in questo caso) il trio riesce a colmarlo alimentando le proprie radici sonore, da cui crescono in maniera esponenziale fiori e piante capaci di dirigersi in molteplici direzioni talvolta timidamente, altre volte in maniera più sfrontata. I musicisti riescono nell’impresa di mettere a confronto brulli territori alieni con rigogliose tradizioni folk e country.
Così facendo riescono a sviluppare anche matrici musicali diverse, come nell’apertura di “The Nine”, dove Shuford imbraccia il bouzouki attingendo a piene mani dalle tradizioni balcaniche. La fisicità delle tradizioni e del country contro le suggestioni cosmiche e psichedeliche: un dualismo illustrato perfettamente già dalla splendida copertina disegnata da Arik Roper (Sleep, High On Fire, Howlin Rain, Earth), che mostra un indiano d’america guardare per fiero e per niente impaurito all’interno di una sorta di macchina extraterrestre. C’è spazio per la sfida tra terra e spazio, tra le tradizioni legate alla cultura popolare e le suggestioni aliene, come nella title track “Redshift”, dove il country rock classico della prima metà del brano viene sostituito gradualmente da un sintetico mutaforma che sembra afferrarci con un dissonante raggio traente per condurci in uno spazio ‘altro’.
Costruzione e decostruzione, due facce della stessa medaglia, due parti che sembrano così distanti tra loro ma che in realtà sono semplicemente connesse su un diverso piano della realtà. Perdersi nella foresta e nel cosmo all’interno dello stesso viaggio, nel verdeggiante mondo del fingerpicking psichedelico di “Concentric Village” e nell’elettrico cavalcare alla Quicksilver Messenger Service di “End Of Ambivalence”.
“D.D. Damage” con il suo incedere complesso e dissonante legato alla tradizione folk, ricorda quanto fatto in piena era post-rock da John Fahey insieme ai Cul De Sac in quello scrigno ricolmo di meraviglie assolute chiamato The Epyphany of Glenn Jones. A chiudere il cerchio ci pensa “Turn To Stone”, brano originariamente pubblicato nel primo album solista di Joe Walsh nel 1972, che i tre eseguono con maestria assoluta dilatando l’originale, distruggendolo con il fuoco sacro dell’improvvisazione per poi ricrearlo da capo attraverso una fusione fantascientifica. L’elemento sorpresa, il fascino dell’ignoto, è sempre lì dietro l’angolo, pronto ad afferrarci appena abbassiamo la guardia ascoltando i tre suonare con maestria e passione.
Shuford ed i suoi compagni di avventura si dimostrano veri e propri maestri nell’arte di un revivalismo che non risulta mai pedissequo e fine a se stesso, ma in continua espansione e mutazione. I Rhyton cavalcano una bestia feroce assecondandone gli istinti più atavici e smussandone le velleità più crudeli, incuranti, come l’indiano d’america in copertina, del sangue che scorre tutto intorno. Ascoltatelo a briglie sciolte, con cuore e mente aperti, in cuffia con il volume al massimo.