Tornano le avventure in musica di Sounds & Grooves con il 7° Episodio della 13° Stagione di RadioRock.to The Original
Meno novità ma tante cose da riscoprire in questo episodio di Sounds & Grooves
Sounds & Grooves arriva al 7° Episodio della 13° Stagione di www.radiorock.to, ed è per me a distanza di anni sempre meraviglioso registrare e dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Massimo Di Roma, Flavia Cardinali, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare il mio contributo dal 1991 al 2000. La Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni abbiamo cercato nel nostro piccolo di tenere accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata. Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi.
Nei quasi 80 minuti di Kerosene troverete molte differenti suggestioni per un podcast dalla complessa gestazione. Dall’assalto sonico di Dazzing Killmen e Big Black al talento di King Krule. E ancora l’affascinante lentezza di Low, Mazzy Star, Red House Painters e molte altre suggestioni sonore. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Lunga vita a RadioRock The Original. #everydaypodcast
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con una band non troppo conosciuta ma che è stata a suo modo davvero rivoluzionaria. I Dazzling Killmen nascono a St.Louis, Missouri, fondati agli inizi degli anni ’90 dal cantante/chitarrista Nick Sakes che chiama due studenti di musica jazz, il bassista Darin Gray e il batterista Blake Fleming, per dare piena potenza alle sue visioni musicali. Face of Collapse è il loro secondo e ultimo album in studio, nel frattempo la band era diventata un quartetto con l’inserimento a tempo pieno del secondo chitarrista Tim Garrigan. Il risultato è un lavoro complesso e violento, pubblicato da un’ etichetta storica del genere come la Skin Graft. Una sequenza mozzafiato di convulsioni violente, che partendo dai Big Black di Steve Albini, ne aumenta la propulsione ritmica grazie alla grande tecnica dei musicisti. “Bone Fragments” è il perfetto manifesto della loro estetica sonora.
Steve Albini è tuttora uno dei personaggi più importanti ed influenti dell’intera storia del rock indipendente americano, e non solo. Chitarrista, autore, produttore, ingegnere del suono, critico musicale. Leader di Rapeman, Shellac, produttore di Nirvana, Pixies, Sonic Youth, PJ Harvey e chi più ne ha più ne metta. Aspro critico dell’industria musicale che ha sempre combattuto dall’interno, ha lavorato a più di 1500 album! Albini fondò i Big Black nel 1982 pubblicando il primo album, Atomizer, quattro anni più tardi insieme all’altro chitarrista Santiago Durango e al bassista Dave Riley. L’uso abrasivo e aggressivo delle chitarre, l’uso della drum machine e il canto brutale di Albini con i testi spinti a violare tabù e altri argomenti controversi come omicidi, stupri, abusi sessuali sui minori, incendi, razzismo e misoginia, sono le caratteristiche che li hanno resi imprescindibili. Ascoltate “Kerosene” per capire l’importanza della band negli anni a venire.
I Devo sono stati una delle band più innovative. geniali ed importanti della new wave. Un’estetica nuova, ironica, creata come prodotto della presunta De-evoluzione della società, una nuova umanità scevra di emozioni, schiava delle macchine. Per accentuare questa visione i componenti del gruppo nato ad Akron, Ohio, i gemelli Bob e Jerry Casale (rispettivamente chitarra e basso), i fratelli Bob e Mark Motherbaugh (voce e tastiere) e Alan Myers (batteria), si vestono tutti uguali con tute gialle e buffi cappelli per rappresentare anche dal punto di vista visuale questa visione della vita. La musica deve andare di pari passo, ed ecco che il quintetto sceglie Brian Eno come produttore per il proprio esordio. Q: Are We Not Men? A: We Are Devo! esce nel 1978 e presenta 11 brani che in rapida successione presentano tutta la tavolozza sonora frenetica e trascinante della band. Basta ascoltare “Jocko Homo” per essere travolti dal ritmo robotico dei 5 di Akron.
Loro sono un gruppo incredibilmente divertente. Rockabilly, surf-punk, garage rock, sono gli ingredienti base di questo irresistibile quintetto che viene dall’est di Londra e che si chiama Oh! Gunquit. Il nucleo del gruppo si forma nel 2010 quando Tina Swasey (voce e tromba) e Simon Wild (chitarra e voce) diventano vicini di casa ed iniziano a condividere le serate in alcuni locali londinesi. Il gruppo prende il nome dalla città del Maine chiamata Ogunquit. Originariamente abitata dagli indiani Abenaki, e diventata una colonia di artisti negli Stati Uniti di fine ‘800. La line up del gruppo è formata da un incredibile meltin pot culturale, visto che i cinque membri hanno le origini più disparate, tra Italia, USA, Colombia, Spagna e naturalmente Gran Bretagna. L’unione dei due leaders con il sax di Chuchi Malapersona, la batteria di Alex De Renzi e il basso di Veronica Arcila, forma una miscela esplosiva che non vi farà tenere i piedi fermi per terra. Lightning Likes Me è il loro secondo album, un disco che pur non dicendo nulla di nuovo, è un’incredibile esplosione di energia, allegria, potenza e divertimento, il tutto sapientemente amalgamato con una notevole capacità di scrittura. Ascoltate l’opener “So Long Sucker” e lasciatevi trascinare dal coinvolgente tiro del gruppo.
Australiano di Sydney, il cantante e songwriter Simon Bonney, forma il primo nucleo dei Crime & The City Solution nel 1977, senza riuscire a registrare altro che alcuni demo. Dopo aver sciolto la band due anni dopo, Bonney si trasferisce a Londra nel 1983, incontrando di nuovo, quasi per caso, alcuni musicisti australiani con cui inizia a suonare. Insieme a Mick Harvey e Rowland S. Howard, ex The Birthday Party ed in quel momento impegnati a formare i Bad Seeds con lo stesso Nick Cave, Bonney riforma il suo vecchio gruppo. Stavolta gli sforzi del songwriter sembrano dare buoni frutti. L’album di esordio della band, Room Of Lights, viene registrato a Berlino e pubblicato nel 1985 ottenendo un discreto successo. Dopo altri tre album registrati con differenti musicisti, nel 1990 la corsa della band si interrompe dopo una decisa sterzata del compositore principale dal post punk degli esordi alle suggestioni country e folk delle ultime incisioni. Proprio le suggestioni a stelle e strisce saranno protagoniste dei due album solisti di Bonney, registrati dopo l’ennesimo trasferimento del songwriter, stavolta a Los Angeles. Everyman è il suo secondo ed ultimo album in studio, perfetto nel mostrare le atmosfere acustiche ed intimiste che Bonney sapeva creare con certosina pazienza. “Don’t Walk Away From Love” è una ballata assolutamente perfetta. L’irrequieto Bonney nel 2012 riformerà a Detroit per la terza volta la sua band insieme a musicisti del calibro di David Eugene Edwards (16 Horsepower e Woven Hand), e Jim White (Dirty Three), ma questa è un’altra storia…
Notevolissimo il processo di crescita di Archy Marshall aka King Krule. Il giovanissimo prodotto della working class britannica già aveva colpito moltissimo pubblico e addetti ai lavori nel 2013 con lo splendido 6 Feet Beneath the Moon, ma riesce a fare ancora meglio con questo The Ooz, che è entrato nella Top 10 della mia personalissima classifica del 2017. Marshall agisce come un mutaforma schizoide tra cantautorato classico, modernità, post-punk, swing e jazz con una maturità compositiva clamorosa per i suoi ventitre anni. Un interprete multiforme, un talento che fortunatamente non sembra essersi perso per strada e che (spero) ci regalerà ancora moltissime cose negli anni a seguire. Il tempo e il talento sono dalla sua parte. “Czech One” non è solo una delle tracce più belle del disco ma una delle canzoni più belle pubblicate nel 2017.
“Josephine alza una lampada in vetro colorato e ci guida ad esplorare le profondità dello spirito in questo doppio album in quattro parti. A seguire la celebrità della sua voce troviamo cori di entità alate (e una navetta spaziale) che salgono e scendono in un labirinto di spiritual: preghiere rituali, lamenti blues, inni vestali e benedizioni giubilanti. I confini del mondo naturale sono fondali rotanti da cui la nostra narratrice si posa, affacciandosi su precipizi simbolici o salici desolati dalla foresta imbiancata dalla neve, esplorando temi eterni di mortalità e moralità, sotto la luna e dialogando in maniera quasi occasionale con un misterioso dio dell’amore, figura ambigua e mistica.”Questo il pomposo proposito dell’ultimo album di una delle cantautrici più ispirate ed originali dei nostri giorni. Lasciando da parte le iperboli ed l’immaginario mistico su cui Josephine Foster si è spesso e volentieri specchiata, sorprende ancora la qualità della scrittura sia pure in un disco così lungo ed ambizioso come Faithful Fairy Harmony: quasi 80 minuti di musica spalmati su quattro facciate. Con la sua chitarra, pianoforte, arpa e organo si fa accompagnare da splendidi musicisti come Victor Herrero (chitarra), Gyða Valtýsdóttir (violoncello), Chris Scruggs (pedal steel), Jon Estes (basso), e vari membri dei The Cherry Blossoms, collettivo folk di Nashville con cui ha collaborato svariate volte. Durante questo ciclo di 18 canzoni la Foster senza sforzo dissolve ogni barriera tra se stessa e gli ascoltatori, con il suo linguaggio incredibilmente vario destreggiandosi tra prewar folk, cantautorato rock classico, psichedelia e armonie jazz. Con i suoi arrangiamenti calibrati e la sua voce incredibile, Josephine colpisce ancora una volta il centro del bersaglio. Ascoltare “The Virgin Of The Snow” per credere.
Wayne Hancock continua a camminare instancabile con la chitarra a tracolla all’interno del suo piccolo-grande universo, percorrendo le mille strade blu della tradizione americana e rivisitando country, rockabilly, honky-tonk, western swing, hillbilly boogie con passione ed abilità, sfornando dischi di semplici canzoni scritte ed eseguite con passione, sangue, sudore, illuminate dalle luci al neon. Non fa eccezione il suo ultimo album in studio uscito nel 2016, Slingin’ Rhythm, l’ennesimo centro di questo fantastico tradizionalista. In poco più di mezz’ora Hancock si riallaccia alla tradizione del western swing di Bob Wills distillando tutto il suo repertorio, scaraventandoci di peso a ritroso nel tempo già dal classico hillbilly boogie della title track. I suoi vecchi stivali polverosi non vengono intaccati dalle mode, lui se ne infischia di tutto e di tutti, non ci sono messaggi profondi, non c’è ricerca intellettuale, ci sono solo le sue semplici storie quotidiane della gente comune. Il neon della copertina lampeggia senza sosta sul country blues di “Wear Out Your Welcome”, mentre Hancock fa risuonare la sua sei corde con un’inarrestabile energia.
Nel 2013 c’è stato il ritorno di una band dopo ben 17 anni di silenzio. Non che le reunion siano al giorno d’oggi un fatto straordinario, ma differentemente da altri, il comeback dei Mazzy Star di Hope Sandoval e David Roback è stato più che dignitoso. Nel 1987 a Pasadena, durante un tour degli Opal con i The Jesus and Mary Chain, Kendra Smith (già nei Dream Syndicate), bassista e cantante della band, decide di far perdere le proprie tracce. Il chitarrista David Roback (già nei Rain Parade col fratello Steven) chiama allora a sostituirla una giovane cantautrice di cui aveva prodotto il disco d’esordio, Hope Sandoval. Al ritorno della Smith, Roback decide di lasciare gli Opal e di formare, con la Sandoval, un nuovo gruppo: i Mazzy Star. La band unisce la passione per l’indie rock più narcolettico e il folk con il proprio passato legato alla scena Paisley Underground. Il pop rock onirico del gruppo diventato capolavoro con il secondo album So Tonight That I Might See, registrato e pubblicato nel 1993 con l’ausilio di Jason Yates al basso e di Keith Mitchell (recentemente scomparso) dietro ai tamburi, viene replicato in maniera leggermente minore con il successivo Among My Swan. La malinconia e la dimensione sognante la fanno da padrona, un rifugio sicuro dai clamori del grunge che sta per esplodere, come nella meraviglia di “Flowers In December”, dove la voce di Hope Sandoval si fa largo stordendoci dolcemente tra le tessiture dilatate della chitarra di Roback.
Mai come lo scorso anno ho assistito ad un vero e proprio plebiscito nell’assegnare la corona di miglior disco dell’anno da parte di riviste specializzate e webzine di settore, spesso rivolte ad un pubblico molto differente tra loro. La ragione è semplice: anche da parte mia non c’è stato alcun dubbio nel mettere questo disco in testa alla mia playlist, anche se capisco chi ha trovato il disco insopportabilmente claustrofobico. Mai come in questo caso avrei voluto davvero possedere il dono di trasformare le emozioni in parole di senso compiuto. Solo così potrei descrivere al meglio Double Negative, il nuovo album dei Low. Un buco nero che inghiotte senza pietà, detriti e schegge elettroniche che nascondono una bellezza indicibile. Pazzesco pensare come Alan Sparhawk (chitarra e voce) e la sua consorte Mimi Parker (batteria e voce) abbiano esordito nel 1994 con un capolavoro come I Could Live In Hope e a distanza di 24 anni riescano ancora a sorprenderci. Il duo di Duluth si fa accompagnare dal bassista Steve Garrington (con loro da un decennio), per uno dei viaggi più coraggiosi che abbiano mai intrapreso. L’elettronica, da un po’ di tempo compagna del trio, ha ormai mutato il DNA della band, alterandolo senza possibilità di ritorno. Gocce di sangue, macerie fumanti di canzoni talmente celate sotto gli spasmi di feedback e la pioggia di detriti cibernetici che quando la voce dei nostri emerge senza filtri è come se una luce celestiale illuminasse all’improvviso la distesa funerea di Mordor. Anche nella dimensione live la band ha dimostrato il suo straordinario momento di forma e creatività. “Always Trying To Work It Out” rivela la bellezza sublime di questo lavoro più di mille parole, soprattutto delle mie…
Mark Kozelek ha sempre usato la sua abilità di scrittura per esprimere in maniera compiuta la sua emotività sofferta e problematica. Lo ha fatto per anni con i Red House Painters e continua a farlo con la sua nuova creatura, che dai RHP ha ricevuto il testimone per proseguire il percorso senza soluzione di continuità. Benji, uscito nel 2014 per la sua personale etichetta Caldo Verde, è stato il sesto lavoro a nome Sun Kil Moon. Un album dove i pochi residui elettrici svaniscono quasi totalmente, mettendo ancora più a nudo la crudezza dei suoi ricordi autobiografici, in una sorta di blues-folk rallentato, in cui la chitarra e la voce di Kozelek si fanno accompagnare dalla batteria di Steve Shelley (Sonic Youth), dal piano Rhodes di Owen Ashworth e in tre brani dai cori di Will Oldham. Kozelek in “Pray For Newtown” ci presenta il conto con la morte, riferendosi agli attentati dell’isola di isola di Utøya nel 2011, del cinema di Aurora, Colorado nel 2012, del Mc Donald’s di San Ysidro, California nel 1984 e della Sandy Hook Elementary School di Newtown in Connecticut nel 2012, ed unendoli ad altre storie personali, facendoci riflettere ad ogni pennata secca e ad ogni strofa sul semplice ma mai scontato concetto di mortalità. Il brano è stato scritto proprio dopo che Kozelek ha ricevuto la lettera di un fan di Newtown, dove 20 bambini e 6 insegnanti avevano perso la vita.
A questo punto non ci resta altro che andare a trovare il primo progetto di Mark Kozelek. Nato a Massillon, Ohio, Kozelek ha sempre mostrato un enorme amore per la musica fin da bambino. Trasferitosi ad Atlanta, Georgia, il futuro songwriter incontra il batterista Anthony Koutsos, ponendo le basi per la creazione di un gruppo. I due si trasferiscono in California alla fine degli anni ’80 fondando i Red House Painters, insieme al chitarrista Gorden Mack e al bassista Jerry Vessel. L’elogio della tristezza, la vena intimistica in cui riaffiorano i suoi ricordi, acuita anche dalle copertine virato seppia, hanno contribuito nel rendere la band un fenomeno di culto e una della band più importanti di un movimento chiamato slowcore. I primi quattro album della band, pubblicati dalla 4AD, sono stati senza dubbio l’apice della loro produzione. Per questo podcast ho deciso di tornare indietro al 1993, quando i RHP pubblicarono ben due dischi a distanza di pochi mesi, autointitolati e chiamati amichevolmente con il nome di ciò che appare sulla copertina. L’album scelto è stato il secondo pubblicato nel 1993, Red House Painters (Bridge), nome preso dal ponte ritratto sull’immagine virato seppia della cover. Per capire quanto fosse unico ed emozionale il loro suono scandito lentamente dalla voce di Kozelek, basta mettere la puntina sul disco ed ascoltare la meravigliosa “Uncle Joe”.
Loro sono un gruppo che difficilmente è stato sotto i riflettori ma che ha saputo consolidare negli anni una meritata reputazione presso gli addetti ai lavori ed un discreto seguito di pubblico. Gli Elbow nascono a Bury, distretto di Manchester, dall’incontro del cantante Guy Garvey con il chitarrista Mark Potter. Potter chiese a Garvey di unirsi alla band che già vedeva il batterista Richard Jupp ed il bassista Pete Turner. Ai quattro si aggiunse presto Craig Potter, il fratello di Mark, alle tastiere. Asleep In The Back, il loro album di debutto, esce nel maggio del 2001 ed è un piccolo miracolo di equilibrio tra suggestioni pop e composizioni più complesse, con la profonda voce baritonale di Garvey a fare da splendido collante con i suoi testi sempre evocativi. “Newborn” è solo uno delle piccole grandi meraviglie di un album (e una band) da riscoprire assolutamente.
Mi piace chiudere il podcast con uno dei miei gruppi preferiti. The Blue Nile sono nati a Glasgow, trasferendo in musica la malinconia della città industriale scozzese. La voce e la chitarra di Paul Buchanan. il basso di Robert Bell, e le tastiere di Paul Joseph Moore hanno saputo creare una sorta di pop alternativo di enorme classe e suggestione sin dall’esordio di A Walk Across The Rooftops. Band non certo prolifica, pubblicherà il secondo album, Hats, solo cinque anni più tardi, nel 1989, confermando le meraviglie dell’esordio. Un suono levigato e alla continua ricerca dalla perfezione, ma certamente non asettico, anzi, le sette tracce di cui è composto l’album sono un viaggio notturno e cinematico di grande emozione e sentimento, con la voce di Buchanan che con dolcezza ma senza pietà mette a nudo cuori ed anime come nella meravigliosa “The Downtown Lights”.
Un grazie speciale va sempre a Franz Andreani per la nuova veste grafica attiva già dallo scorso anno. A cambiare non è solo la versione web2.0 del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Nell’8° Episodio di Sounds & Grooves troverete la chitarra straordinaria di Chris Forsyth, il ritorno straordinario di Ry Cooder con un album di intensa emotività, la psichedelia dei Pontiak, la classicità così diversa ma allo stesso tempo così importante di The Who e Pere Ubu, la tromba evocativa di Jon Hassell e molte altre suggestioni in musica. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. DAZZLING KILLMEN: Bone Fragments da ‘Face Of Collapse’ (1994 – Skin Graft)
02. BIG BLACK: Kerosene da ‘Atomizer’ (1986 – Homestead Records)
03. DEVO: Jocko Homo da ‘Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!’ (1978 – Warner Bros. Records)
04. OH! GUNQUIT: So Long Sucker da ‘Lightning Likes Me’ (2017 – Decapitator Records)
05. SIMON BONNEY: Don’t Walk Away From Love da ‘Everyman’ (1995 – Mute)
06. KING KRULE: Czech One da ‘The Ooz’ (2017 – XL Recordings)
07. JOSEPHINE FOSTER: The Virgin Of The Snow da ‘Faithful Fairy Harmony’ (2018 – Fire Records)
08. WAYNE HANCOCK: Wear Out Your Welcome da ‘Slingin’ Rhythm’ (2016 – Bloodshot Records)
09. MAZZY STAR: Flowers In December da ‘Among My Swan’ (1996 – Capitol Records)
10. LOW: Always Trying To Work It Out da ‘Double Negative’ (2018 – Sub Pop)
11. SUN KIL MOON: Pray For Newtown da ‘Benji’ (2014 – Caldo Verde Records)
12. RED HOUSE PAINTERS: Uncle Joe da ‘Red House Painters (Bridge)’ (1993 – 4AD)
13. ELBOW: Newborn da ‘Asleep In The Back’ (2001 – V2)
14. THE BLUE NILE: The Downtown Lights da ‘Hats’ (1989 – Linn Records)