Ecco il momento tanto atteso e temuto dell’anno, quello della compilazione dei migliori album usciti del 2018. Come ormai è chiaro da qualche anno, le modalità di ascolto della musica sono cambiate in maniera drastica, adesso possiamo trovare letteralmente tutto a disposizione, in qualsiasi momento ed in qualsiasi modo. I servizi di streaming hanno giorno dopo giorno soppiantato sia la vendita dei cd che quella del download della musica “liquida”, lasciando la vendita del supporto fisico ai (quasi) soli appassionati, che sempre più spesso prediligono il caro vecchio vinile. Anche se alle volte il metodo barbaro di trasferire in vinile i master digitali rendono il formato in 12″ purtroppo di scarsa qualità.
Fare una classifica dei migliori album dell’anno, visto il numero gigantesco di uscite annuali, è un’impresa al limite del fantascientifico. Probabilmente a ragione, qualcuno lo considera anche un inutile esercizio di stile: difficile stabilire gerarchie, e soprattutto, fissare i “giusti” parametri da usare. Quali sarebbero? In base a cosa?
Impossibile ascoltare tutto, troppe le pubblicazioni e troppo poco il tempo quotidiano a disposizione per ascoltare nuova musica con l’attenzione che spesso meriterebbe. Ad esempio anche quest’anno ci saranno sicuramente alcuni album messi in fondo alla classifica che hanno avuto sicuramente la sfortuna di avere meno ascolti a disposizione e meno possibilità di essere apprezzati. Già gli ascolti sono giocoforza limitati, poi vengono filtrati attraverso la nostra particolare sensibilità, assecondando i gusti personali e la nostra attitudine musicale. Ma il tempo è tiranno e la realtà di Sounds & Grooves è davvero pochissima cosa (visto che sono l’unico a gestirla nella sua totalità) se paragonata a corazzate del mondo delle webzines musicali come OndaRock (di cui sono un orgoglioso collaboratore), SentireAscoltare dello stimatissimo Stefano Pifferi, Distorsioni, o gli splendidi blog personali di autentici giornalisti professionisti ed enormi conoscitori di musica come Eddy Cilìa o Carlo Bordone, tanto per citare i primi che mi vengono in mente.
In questo spazio, come ogni anno, ho voluto semplicemente buttare giù, come appuntandoli su un taccuino, gli album che nell’ultimo anno solare ho ascoltato di più, e che sono riusciti maggiormente a coinvolgermi, e condividere con voi la mia interpretazione, il mio modo di sentire. Nonostante ci siano un milione di classifiche sparse nel web, sia quelle compilate dalla varie (più o meno trendy) music webzines e magazines, che quelle postate sui vari profili personali dei social networks, credo che da ognuna di queste ci sia sempre da qualcosa da imparare, uno o più nomi da annotarsi per approfondire con curiosità.
In calce ai 50 album che più hanno segnato la mia annata musicale, troverete un’altra lista composta da outsiders, album che non sono entrati nella Top 50, sfiorando la mia personale eccellenza, ma che per molti di voi potrebbero invece essere (giustamente) degni della portata principale. Nei titoli che formano questa lunga lista, ce n’è per tutti i gusti. La mia particolare preferenza quest’anno è andata a chi, dopo tanti anni di onorata carriera ha saputo ancora sorprendere registrando un disco tanto affascinante quanto, per molti (lo comprendo) troppo cupo e claustrofobico. In ogni caso nella playlist c’è spazio per le più svariate forme musicali: la classicità, l’indie-rock, il songwriting, il post-punk, i tradizionalisti, il rock classico, e perfino le musiche definite come avant-qualchecosa. C’è sempre un oceano di musica da scoprire, e molti (me compreso) non sono riusciti a rinunciare al fascino irresistibile dei tesori (o presunti tali) sommersi, avendo come risultato un’enorme varietà di nomi all’interno delle singole playlist.
Discorso a parte meritano le ristampe e quelle etichette (Light In The Attic, Superior Viaduct, Numero Group, Cherry Red tanto per citarne alcune) che hanno riportato alla luce o ampliato in maniera scintillante autentici capolavori, alcuni ripescati dall’oblio, altri semplicemente tirati a lucido. Ho compilato una piccolissima classifica anche delle mie preferenze in tal senso.
Ogni classifica dei migliori album dell’anno porta una scintilla per rinvigorire quella fiamma appassionata dentro ognuno di noi. Da parte mia, per quest’anno appena trascorso, un ringraziamento particolare va di nuovo a Emanuela Bonetti e a Claudio Fabretti che mi hanno voluto nelle splendide famiglie di Oca Nera Rock e di Onda Rock. Ma un abbraccio speciale, consentitemelo, va sempre a quella che è la mia “famiglia” da sempre, prima in FM e poi sul web, ovverosia quella splendida podradio chiamata Radiorock.TO The Original che quest’anno festeggia la 13° Stagione.
#everydaypodcast
#1
LOW Double Negative (Sub Pop)
Mai come quest’anno ho assistito ad un vero e proprio plebiscito nell’assegnare la corona di miglior disco dell’anno da parte di riviste specializzate e webzine di settore, spesso rivolte ad un pubblico molto differente tra loro. La ragione è semplice: anche da parte mia non c’è stato alcun dubbio nell’assegnare a questo disco la palma del migliore dell’anno, anche se capisco chi ha trovato il disco insopportabilmente claustrofobico. Mai come in questo caso avrei voluto davvero possedere il dono di trasformare le emozioni in parole di senso compiuto. Solo così potrei descrivere al meglio Double Negative, il nuovo album dei Low. Un buco nero che inghiotte senza pietà, detriti e schegge elettroniche che nascondono una bellezza indicibile. Pazzesco pensare come Alan Sparhawk (chitarra e voce) e la sua consorte Mimi Parker (batteria e voce) abbiano esordito nel 1994 con un capolavoro come I Could Live In Hope e a distanza di 24 anni riescano ancora a sorprenderci. Il duo di Duluth si fa accompagnare dal bassista Steve Garrington (con loro da un decennio), per uno dei viaggi più coraggiosi che abbiano mai intrapreso. L’elettronica, da un po’ di tempo compagna del trio, stavolta muta il DNA della band, alterandolo senza possibilità di ritorno. Gocce di sangue, macerie fumanti di canzoni talmente celate sotto gli spasmi di feedback e la pioggia di detriti cibernetici che quando la voce dei nostri emerge senza filtri è come se una luce celestiale illuminasse all’improvviso la distesa funerea di Mordor. La triade iniziale “Quorum – Dancing And Blood – Fly” rivela la bellezza sublime di questo lavoro più di mille parole, soprattutto delle mie…
Listen: Quorum – Dancing And Blood – Fly
#2
IDLES Joy As An Act Of Resistance (Partisan Records)
Se la sono giocata fino all’ultimo per la conquista della prima piazza, non l’hanno raggiunta ma restano una delle band più interessanti uscite negli ultimi anni nella terra di Albione. Gli Idles nascono a Bristol nel 2010 con una spiccata attitudine punk e uno sguardo a 360 gradi verso l’evolversi della situazione sociale e politica in Gran Bretagna. Il cantante Joseph Talbot, i chitarristi Mark Bowen e Lee Kiernan, il bassista Adam Devonshire e il batterista Jon Beavis, assorbono mano mano rabbia ed urgenza facendola poi defluire lentamente, scandendo le uscite e preparandole con grande meticolosità. Dopo tre EP, il devastante esordio sulla lunga distanza fra post-punk e post-hardcore della formazione di Bristol si è materializzato nel 2017 e si intitolava Brutalism. Un album che aveva colpito per la capacità del gruppo di Bristol di aggiornare il vocabolario post-punk facendo leva su una capacità empatica e comunicativa fuori dal comune. Come sempre quando si ha un’aspettativa molto alta, si temeva un calo nel famoso complicato secondo album. Joy As An Act Of Resistance spazza via tutti i dubbi e le paure. E’ un lavoro uguale ma diverso, mantiene tutti i cromosomi che hanno legittimato il successo dell’esordio, aggiungendo (se possibile) ancora più carica drammatica. Sempre cinici, sempre sarcastici, forse con ancora più consapevolezza dell’enorme potenziale che hanno in mano. “Samaritans” è solo una delle frecce avvelenate che compongono il loro enorme sophomore album.
Listen: Samaritans
#3
RYLEY WALKER Deafman Glance (Dead Oceans)
Qualche anno fa avevamo già parlato su queste pagine di Ryley Walker, un songwriter/chitarrista dell’Illinois capace di trovare la sua strada con il suo fingerpicking, integrando perfettamente la sua scrittura con il retaggio della scena folk britannica degli anni ’70, soprattutto John Martyn, Van Morrison e Nick Drake. Primrose Green era stato uno splendido album, capace di convincere critica e pubblico grazie alle ossessive e jazzate inquietudini, l’afflato pastorale, le impennate psichedeliche, il virtuoso fingerpicking. Un paio di anni dopo a Golden Sings That Have Been Sung era stato assegnato l’arduo compito di confermare cotanta meraviglia. Ma nonostante gli sforzi e il cambiamento verso un lato più sperimentale, il disco presentava tra i solchi più ombre che luci. Era quindi molto atteso questo nuovo album intitolato Deafman Glance per stabilire dove collocare Ryley Walker: come ennesima promessa non mantenuta oppure come artista dall’enorme talento. Fortunatamente il nuovo disco non solo ci conforta sul talento del songwriter americano, ma risulta alla fine il migliore che abbia mai registrato. Ci sono tutte le influenze apertamente dichiarate durante l’arco della sua carriera, ma sono messe al servizio di una scrittura non facile ma sempre perfettamente a fuoco tra rilassamenti bucolici e momenti sperimentali, accordi aperti e accelerazioni sincopate improvvise. Una strada tortuosa, irrequieta, alla ricerca di una strada che apparentemente Walker fa fatica a trovare, ma che invece appare davanti a noi in tutto il suo splendore.
Listen: Opposite Middle
#4
RY COODER The Prodigal Son (Fantasy Records)
Riesce ancora a sorprendere Ry Cooder, pur essendo in attività da quasi 10 lustri. Nato come musicista da un amore infinito per la tradizione folk, ha deviato la sua traiettoria più volte, scrivendo colonne sonore magistrali come Paris, Texas o sbancando i botteghini creando quasi dal nulla il fenomeno Buena Vista Social Club. Ma Cooder è un musicista che non deve dimostrare più niente a nessuno, ed eccolo tornare a sette anni di distanza dallo splendido Pull Up Some Dust And Sit Down con un nuovo album che attinge a piene mani dal repertorio della musica con cui è nato. The Prodigal Son è un esemplare ed emozionante compendio di musiche folk, gospel e blues prese in prestito, impreziosito da alcune nuove canzoni scritte per l’occasione che non sfigurano affatto accanto ad autentici capolavori della musica tradizionale americana, una tra tutte “Nobody’s Fault But Mine” di Blind Willie Johnson. Un ritorno al passato guardando al futuro, un disco magistrale. Se volete ascoltare la differenza tra un artista che suona folk blues ed uno che con quella musica nel sangue c’è nato, mettete semplicemente la puntina sui solchi di questo meraviglioso album.
Listen: The Prodigal Son
#5
ONEIDA Romance (Joyful Noise)
Buffo pensare che lo scorso anno questa posizione la occupava John Colpitts Man Forever aka Kid Millions, moniker con cui pesta forte i tamburi degli avant-rockers Oneida e quest’anno la stessa è occupata dalla sua band principale. I maestri del rock sperimentale newyorkese tornano dopo la riuscita collaborazione con il maestro Rhys Chatham con un doppio album intitolato semplicemente Romance. Il disco forse è il più riuscito della band dai tempi del seminale Each One Teach One, con il perfetto connubio tra free rock, psichedelia, minimalismo e sonici assalti frontali. Lo spirito avventuroso del combo torna in tutta la sua esplosività, con momenti melodici e ritmi organici mescolati a suoni frenetici, improvvisati e meravigliosamente irregolari. Si va dai tre minuti di una “canzone” regolare quasi di ispirazione anni ’60 come “All In Due Time” ai diciotto (!) minuti della conclusiva “Sheperd’s Axe” che dopo un’introduzione di tastiere ambientali procede in maniera mostruosa in una progressione tra psichedelia, noise, jazz e rock suonata con una lucida e mirabolante follia. Una band clamorosa ed un disco che inaugura come meglio non si potrebbe la collaborazione con l’etichetta Joyful Noise.
Listen: All In Due Time
#6
DANIEL BLUMBERG Minus (Mute)
Daniel Blumberg è un musicista londinese, tanto irrequieto da nascondersi dietro una sfilza di nomi come Cajun Dance, Hebronix, Oupa, o Heb-Hex. Non contento ha anche creato una band estremamente interessante chiamata Yuck, con cui ha pubblicato 3 album tra il 2011 ed il 2016. Durante lo scorso anno, Blumberg insieme a Ute Kanngiesser (violoncello), Tom Wheatley (contrabbasso) e Billy Steiger (violino), ha dato vita ad una residency molto interessante presso un locale famoso per le sue jam session di improvvisazione jazz, il Cafe OTO di Londra. Insieme ai suoi fidati musicisti e al batterista Jim White, Blumberg è andato in Galles a registrare il suo album di esordio come solista. Minus è un album crudo, dolente, a tratti straziante, sincero, suonato con passione. Solo in una traccia (i 12 minuti di “Madder”), i musicisti si lasciano andare ad un’improvvisazione free-form, nelle altre 6 canzoni è la poetica, il romanticismo a volte doloroso, la fragilità emotiva ad avere la meglio. Un disco che senza dubbio è entrato nella playlist di fine anno di molti di voi, un disco dell’anima impreziosito dalle illustrazioni create dallo stesso songwriter.
Listen: Minus
#7
JOSEPHINE FOSTER Faithful Fairy Harmony (Fire Records)
“Josephine alza una lampada in vetro colorato e ci guida ad esplorare le profondità dello spirito in questo doppio album in quattro parti. A seguire la celebrità della sua voce troviamo cori di entità alate (e una navetta spaziale) che salgono e scendono in un labirinto di spiritual: preghiere rituali, lamenti blues, inni vestali e benedizioni giubilanti. I confini del mondo naturale sono fondali rotanti da cui la nostra narratrice si posa, affacciandosi su precipizi simbolici o salici desolati dalla foresta imbiancata dalla neve, esplorando temi eterni di mortalità e moralità, sotto la luna e dialogando in maniera quasi occasionale con un misterioso dio dell’amore, figura ambigua e mistica.” Questo il pomposo proposito dell’ultimo album di una delle cantautrici più ispirate ed originali dei nostri giorni. Lasciando da parte le iperboli ed l’immaginario mistico su cui Josephine Foster si è spesso e volentieri specchiata, sorprende ancora la qualità della scrittura sia pure in un disco così lungo ed ambizioso come Faithful Fairy Harmony: quasi 80 minuti di musica spalmati su quattro facciate. Con la sua chitarra, pianoforte, arpa e organo si fa accompagnare da splendidi musicisti come Victor Herrero (chitarra), Gyða Valtýsdóttir (violoncello), Chris Scruggs (pedal steel), Jon Estes (basso), e vari membri dei The Cherry Blossoms, collettivo folk di Nashville con cui ha collaborato svariate volte. Durante questo ciclo di 18 canzoni la Foster senza sforzo dissolve ogni barriera tra se stessa e gli ascoltatori, con il suo linguaggio incredibilmente vario destreggiandosi tra prewar folk, cantautorato rock classico, psichedelia e armonie jazz. Con i suoi arrangiamenti calibrati e la sua voce incredibile, Josephine colpisce ancora una volta il centro del bersaglio.
Listen: Lord Of Love
#8
DEAD RIDER TRIO Featuring Mr. Paul Williams (Drag City)
Uno dei due chitarristi degli U.S. Maple (autori di 5 pregevoli album dal 1995 al 2003 e perfetta incarnazione di quel fenomeno che andava sotto il nome di “Now Wave”), Todd Rittmann, nel 2009 ha creato i Dead Rider, un nuovo progetto con cui portare a compimento la sua missione di scomporre e ricomporre vari generi musicali. Rittmann con i suoi nuovi compagni di avventura: Matthew Espy, batteria, Andrea Faugh, tromba e tastiere, e Thymme Jones, elettronica, tastiere, fiati e batteria (questi ultimi due anche nei Cheer-Accident) ci avevano già convinto nel 2014 con un album intitolato Chills On Glass, che aveva incantato per il gioco degli incastri, e per l’abilità di Rittmann e compagni di creare un’equilibrata alchimia tra ingredienti apparentemente molto diversi, per poi confermarsi 3 anni dopo cambiando riferimenti stilistici ma facendo di nuovo centro. Su Crew Licks l’obiettivo del restauro diventava la black music, e il dipanarsi delle nove tracce era come il gioco della pentolaccia, con i quattro che dopo aver messo nella pignatta di terracotta soul, funk, psichedelia anni’70, si divertivano a colpirla a turno con violente mazzate. Stavolta la creatura feroce e mutante di Rittmann cambia leggermente nome, riducendosi a trio (non è più della partita Thymme Jones) ma ospitando la voce del britannico Paul Williams, di cui poco si sa se non che è stato il manager dell’attore Crispin Glover. Una sorta di Tom Waits quasi più roco, perfetto per sottolineare i pestoni storti e dilatati di questa band che riesce sempre a stupire per l’ennesima rivisitazione e reinvenzione della materia rock-blues. Ormai tra i miei preferiti in assoluto, ennesimo centro pieno. Uno di quei dischi che per qualità e varietà stilistica (merce rara al giorno d’oggi) non mi stancherei mai di ascoltare.
Listen: Not A Point On A Scale
#9
DRINKS Hippo Lite (Drag City)
Il songwriter e chitarrista americano Tim Presley è un personaggio davvero interessante. Dopo aver formato e sciolto i Darker My Love, il cantautore ha fatto parte di una delle innumerevoli line-up dei The Fall del compianto Mark E. Smith registrando con la band l’album Reformation Post TLC pubblicato nel 2007. Dopo una serie di album a nome White Fence, di cui uno in coabitazione con Ty Segall, Presley ha iniziato a collaborare con la cantautrice gallese Cate Le Bon, formando i Drinks. E se con il suo primo lavoro a suo nome, The Wink (disco suonato in collaborazione proprio con Cate Le Bon insieme alla batterista Stella Mozgawa) rimandava ad una psichedelia declinata in maniera inusuale e deforme interpretata con una scrittura decisa e una forte personalità, il secondo album dei Drinks mantiene le ottime premesse dell’esordio. Hippo Lite è un magnifico gioco di incastri raffinato e sfuggente. La psichedelia pop dei due viene scomposta e ricomposta, infilando una dissonanza, un esperimento proprio mentre l’ascoltatore inizia ad adagiarsi sulle melodie. E Presley non smette di stupirci, un nuovo album a nome Tim Presley’s White Fence è dietro l’angolo…
Listen: Corner Shops
#10
MARISA ANDERSON Cloud Corner (Thrill Jockey)
Una fila di alberi spogli, un paesaggio avvolto nella nebbia. Questo è l’aspetto visuale di Cloud Corner, l’atteso esordio della chitarrista Marisa Anderson per la Thrill Jockey. Luoghi della mente, panorami minimalisti, tradizione prewar-folk. Sembra tutto così lontano dalla percezione che abbiamo della California, dove Marisa è nata nel 1971. L’album è una perfetta summa di tutti gli stili che la Anderson ha saputo mirabilmente spalmare sulla sua discografia dall’esordio ai giorni nostri. In più, è stata capace di aggiungere nuove suggestioni che rendono le 10 tracce assolutamente uniche. Stupisce l’abilità di Marisa Anderson di saper toccare l’anima con così pochi strumenti. Le sue composizioni sono capaci di emergere dalla nebbia in tutta la loro meraviglia. Tra la tradizione country-blues-folk e nuove suggestioni che si muovono tra gli Appalachi ed il popolo Tuareg, passando per il Messico e la Bolivia, la chitarrista è riuscita a creare una discografia in costante progressione, consegnandoci con Cloud Corner il suo lavoro più ispirato e commovente.
Listen: Lift
#11
GNOD Chapel Perilous (Rocket Recordings)
Che botta era stata tre anni fa l’uscita del monumentale Infinity Machines. Un monolite spalmato su sei facciate di album con cui chiunque da quel momento in poi voleva addentrarsi nei medesimi impervi sentieri, ha dovuto fare i conti. La strada del collettivo mutante di Salford (Manchester) chiamato Gnod e guidato da Paddy Shine da allora ha avuto i fari puntati addosso, pressione che non ha affatto impaurito la band, capace come pochi altri di mescolare rumore e psichedelia, droni e noise-rock, echi kraut e rumore industriale. Chapel Perilous ne conferma l’assoluta grandezza. La loro musica si è arricchita ultimamente di una forte connotazione politica, e l’album va a sviscerare l’opera dello scrittore e filosofo socialista Robert Anton Wilson, che nella sua opera Cosmic Trigger usa proprio l’espressione che da il titolo all’album per descrivere uno stato psicologico particolare: quello in cui un individuo non capisce se una forza sovrannaturale lo ha aiutato od ostacolato nel suo cammino, e se quella stessa forza sia o no un prodotto della propria mente. Tra cupi momenti tribali, sferzate di puro noise-rock e pulsazioni elettroniche il collettivo spinge la mente umana fino ai suoi confini più oscuri, lasciandoci esausti su una spiaggia di sabbia scura in un paesaggio apocalittico.
Listen: Donovan’s Daughter’s
#12
ALLEN RAVENSTINE Waiting For The Bomb (ReR Megacorp)
Gran personaggio Allen Ravenstine. Tastierista storico dei Pere Ubu, dopo aver caratterizzato la band con il suo lancinante synth ha lasciato il mondo musicale per diventare un pilota di linea commerciale. Non contento ha progettato simulazioni di stress per altri piloti di linea. C’è voluta la pensione per riportarlo alla musica e al suo primo amore, la sintesi modulare. Il suo incubo da bambino, quello della bomba atomica che poteva arrivare in qualsiasi momento, è diventato l’ispirazione per un lavoro che esce per la ReR Megacorp, l’etichetta di un altro irregolare come Chris Cutler (Henry Cow). Waiting For The Bomb, album che si dipana senza soluzione di continuità in una forma ibrida ed inusuale, è stato registrato quasi interamente nell’appartamento di Ravenstine a New York City con strumenti analogici e digitali. Una sorta di colonna sonora in cui suoni e strumenti dialogano cambiando spesso ritmi ed umori. L’attesa della bomba non è solo una reminiscenza della guerra fredda ma diventa una metafora su come passare il tempo fino alla fine della nostra esistenza terrena. L’album comprende diciotto episodi cinematici che stupiscono per differenza stilistica ed organicità, una tensione che aumenta per poi allentarsi, un lungo viaggio da ascoltare con mente e cuore aperti.
Listen: Waiting For The Bomb
#13
DIRTY PROJECTORS Lamp Lit Prose (Domino)
David Longstreth dopo la rottura con l’ex compagna sul palco e nella vita Amber Coffin ritrova l’ispirazione per condurci sulle sue strade pop-rock sghembe e poco convenzionali, illuminato da quelle bolle rosse e blu che già campeggiavano nel 2009 sulla copertina di uno dei suoi album più riusciti a nome Dirty Projectors: Bitte Orca. Accompagnato da Juliane Graf (trombone), Mauro Refosco (percussioni), Nat Baldwin (basso, tastiere), Mike Johnson (batteria) e molti altri musicisti (tra cui anche Tyondai Braxton), Longstreth mette in campo tutte le sue ispirazioni più riuscite, tra indie folk e una vena black con un grande groove. Anche le collaborazioni dimostrano l’equilibrio della proposta, tra Robin Pecknold (Fleet Foxes) e Syd, tra indie-folk e soul. Le sue armonie complesse e caleidoscopiche fanno centro spesso e volentieri, posizionandosi con un equilibrio mirabile al confine perfetto tra mainstream e sperimentazione, senza mai risultare banale. È un disco che ci fa riappacificare con il Longstreth pieno di carica vitale, espressa con sovrapposizioni di voci, chitarre, archi e fiati in uno splendido caleidoscopio sonoro.
Listen: Break-Thru
#14
MICAH P. HINSON and THE MUSICIANS of APOCALYPSE When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You (Full Time Hobby)
Micah P. Hinson, folksinger nato a Memphis ma texano d’adozione, è ormai da anni una delle voci più interessanti del songwriting americano. Le sue liriche autobiografiche, sarcastiche e profonde, si sposano perfettamente con la sua visione cinematica e il suo modo dolcemente violento di interpretare la tradizione americana. Micah si è sempre confermato anche live come grande intrattenitore, raccontando storie della sua vita personale e della grande periferia americana, quella dove il massimo della vita è andarsi a sbronzare al bar o trangugiare un six pack davanti alla tv. Se lo scorso anno con Micah P. Hinson presents The Holy Strangers, il songwriter ha voluto creare una «moderna opera folk» dove raccontare la storia di una famiglia in tempo di guerra, stavolta con l’ennesima nuova sigla, The Musicians of the Apocalypse, mette in musica le idee che si sono accavallate nella sua mente durante i passi che lo hanno portato a compiere il famoso cammino fino a Santiago Di Compostela. Tornato in Texas Micah ha raccolto svariati musicisti che avevano collaborato con lui in passato ed in sole 24 ore ha registrato When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You l’ennesimo album diretto, sincero, in cui il nostro esprime i suoi peccati e cerca la redenzione scoccando frecce che colpiscono sempre il bersaglio. In sette tracce registrate alla vecchia maniera, rigorosamente con equipaggiamento analogico, Hinson mostra ancora una volta la sua abilità nel saper miscelare perfettamente la tradizione country-folk con il songwriting più contaminato e moderno, stavolta chiudendo con i 9 minuti della strumentale “The Skulls Of Christ” dove condensa tutti gli orrori dei nostri tempi.
Listen: Small Spaces
#15
ANNA VON HAUSSWOLFF Dead Magic (City Slang)
Qualcuno l’aveva già notata qualche tempo fa, questa minuta ragazza svedese che apriva i concerti degli Swans senza tremare al cospetto di un gruppo principale così importante. Dead Magic è il quarto album in studio di Anna von Hausswolff, senza dubbio il più importante e quello riuscito meglio: il disco che consacra la trentaduenne songwriter scandinava come una delle realtà più affascinanti emerse in questi anni. L’artista usa il suo organo e la sua voce duttile e potente per dipingere un’umanità in bilico tra luce ed ombre, scenari apocalittici ed esoterici. Sono solo 5 brani, di cui due superiori ai 10 minuti, ma bastano ed avanzano per trasportarci in un mondo di scura magia dove tutto è possibile, perfino unire la sua neoclassicità con il doom metal ed il weird folk. Un disco fatto di chiari e scuri, evocativo, potente, tribale, che non ha faticato ad issarsi nelle prime posizioni di molte playlist di fine anno.
Listen: The Mysterious Vanishing of Electra
#16
REVEREND HORTON HEAT Whole New Life (Victory Records)
Ci sono dei revivalisti che sono capaci di ripercorrere le polverose strade blu americane con tale forza espressiva da risultare clamorosamente vere ed attuali. Qualche tempo fa avevo parlato di Wayne Hancock, adesso è la volta di Jim Heath aka Reverend Horton Heat. Il menu di questo suo nuovo lavoro intitolato Whole New Life è davvero classico: rockabilly, rock ‘n’ roll classico, psychobilly, RNB, varie reminiscenze sixties e la cover finale di un classico di Elvis come “Viva Las Vegas”. Ma credetemi, tutto suona vivo, pulsante, vibrante, emozionante come fosse nuovo di zecca, canzoni scritte in maniera meravigliosa ed interpretate con una passione coinvolgente. Insieme al batterista RJ Contreras, al contrabbassista Jimbo Wallace e dal pianista Matt Jordan il Reverendo Jim Heath ci fa perdere lungo le meravigliose strade d’America come nessun altro.
Listen: Don’t Let Go On Me
#17
THE YOUNG MOTHERS Morose (Self Sabotage)
La scena avant jazz scandinava è sempre molto attiva, basti pensare a band come Fire! o The Thing. Bassista di questi ultimi, Ingebrigt Håker Flaten si è trasferito nel 2006 a Chicago e due anni più tardi ad Austin, Texas, dove ha dato vita ad un collettivo tra i più interessanti ed eccitanti in circolazione. La band prende il nome The Young Mothers da una comunità di Houston per madri adolescenti dove faceva volontariato la compagna di Flaten. La line-up comprende il batterista Frank Rosaly (acclamato session-man di Chicago che ha suonato, tra gli altri con Ryley Walker, Peter Brötzmann, Jeff Parker e Thurston Moore), il percussionista, cantante e vibrafonista Stefan González (Yells At Eels, Akkolyte), il sassofonista Jason Jackson, il chitarrista Jonathan F. Horne (Plutonium Farmers) e Jawwaad Taylor, tromba, elettronica e voce, fondamentale nel dare un’impronta di modernissimo hip-hop freeform al collettivo. Dopo il riuscito A Mothers Work Is Never Done pubblicato nel 2014, Morose non solo conferma quanto di buono avevano già prodotto, ma se possibile rende ancora più coinvolgente questo suono che mischia in maniera esuberante avant-jazz, hip-hop, funk e addirittura grindcore, creando un melting pot culturale che affascina e colpisce risoluto dritto al cuore.
Listen: Attica Black
#18
THE DWARFS OF EAST AGOUZA Rats Don’t Eat Synthesizers (Akuphone)
Maurice Louca: compositore egiziano, manipolatore di beats e tastierista, appassionato di musica mediorientale e free jazz. Sam Shalabi: chitarrista canadese compositore di moltissime colonne sonore di film indipendenti e membro fondatore dei Shalabi Effect e Land Of Kush. Alan Bishop: contrabbassista e sassofonista americano, appassionato di tradizioni mediorientali e fondatore dei Sun City Girls. Nel 2012 ad Agouza, distretto di Giza, periferia del Cairo, questi tre musicisti si trovano a condividere lo stesso appartamento, e decidono di unire le proprie forze creando un nuovo progetto che possa sposare in qualche modo la tradizione musicale del medio oriente, con la psichedelia e l’improvvisazione. Nascono così i The Dwarfs Of East Agouza, che con il loro album di esordio intitolato Bes ci portano in un viaggio tra dune desertiche ed asteroidi siderali, una sorta di psichedelia etnica che lascia molto all’improvvisazione e al flusso emozionale dei musicisti, come nella miglior tradizione del genere. Lo scorso anno Alan Bishop dietro al moniker di Alvarius B ci ha portato in giro con un magico triplo album lungo le strade della tradizione americana, mentre con i due compagni di avventura ha pubblicato questo Rats Don’t Eat Synthesizers (stranamente ignorato dal mondo delle webzines musicali italiane), con cui i tre continuano e completano questo viaggio incredibile tra le tradizioni mediorientali e l’improvvisazione con due lunghe tracce registrate tra il 2015 ed il 2016. L’ennesimo flusso lisergico ed estatico, un’esperienza magica ed immaginifica da fare aprendo mente ed orecchie.
Listen: Rats Don’t Eat Synthesizers
#19
NENEH CHERRY Broken Politics (Smalltown Supersound)
Di Neneh Cherry abbiamo parlato in molte occasioni, sin da quando giovanissima militava nei Rip Rig & Panic, band del marito Bruce Smith, cui prestava spesso e volentieri la sua splendida voce. Nata come Neneh Mariann Karlsson ha utilizzato il cognome del padre adottivo, il celebre trombettista jazz Don Cherry. Dopo l’esperienza con la celebre band, ha provato con successo l’avventura solista negli anni ’90 con due ottimi lavori come Homebrew e Man. raggiungendo il successo nel 1994 con “7 Seconds”, duetto con il senegalese Youssou N’Dour. Ancora un decennio di silenzio prima di formare una nuova band chiamata CirKus con Burt Ford (soprannome dell’attuale marito Cameron McVey). Molte collaborazioni, prima di tornare ad incidere insieme al gruppo avant-jazz The Thing un album di cover intitolato The Cherry Thing, in cui esplorava avidamente le sue radici. Il suo primo album solista dopo 18 anni è uscito nel 2014 e si intitola Blank Project, realizzato con la complicità di un genio dell’elettronica come l’inglese Kieran Hebden aka Four Tet. Ed è ancora Hebden a sedersi dietro alla consolle per questo nuovo Broken Politics, un disco dove le atmosfere e i ritmi tribali si sposano perfettamente con la sua sempre splendida voce. Come il suo predecessore mantiene l’impegno sociale dei testi, anche se risulta un filo meno aggressivo musicalmente, con le tessiture elettroniche più in vista e alcune mirate collaborazioni (Robert “3D” Del Naja dei Massive Attack nella splendida “Kong”), o splendidi campionamenti (il sax dello storico collaboratore del padre adottivo Ornette Coleman in “Natural Skin Deep”) ad impreziosire un lavoro come sempre di un’eleganza formale straordinaria.
Listen: Shot Gun Shack
#20
WINGTIP SLOAT Purge And Swell / Lost Decade (VHF Records)
A volte capita che arriva un album a fine anno capace di farti rivedere la classifica che a fatica era stata compilata. Tutto mi aspettavo tranne il ritorno di uno dei gruppi di culto del lo-fi statunitense di due decenni or sono. I Wingtip Sloat dalla Virginia avevano pubblicato due splendidi lavori a metà degli anni ’90 salvo poi scomparire nel nulla. Sono riemersi dall’oblio sul finire del 2018 per scombussolare la mia classifica. Purge And Swell è un “normale” album di 10 tracce ma all’interno troviamo un CD intitolato Lost Decade, composto da ben 31 tracce per un totale di 76 minuti di musica. E se le dieci tracce del vinile contengono le classiche ballate lo-fi della band che riciamano echi di Pavement e Swell Maps, l’ora e passa di musica contenuta nel CD bonus rispecchia il lato più coraggioso della band. Infatti i 31 brani registrati tra il 2013 ed il 2016 contengono brevi bozzetti strumentali, brani esemplari e geniali riusciti meravigliosamente, e persino alcune irriconoscibili cover di personaggi come Brian Eno, Bob Dylan, Wire, e Belle & Sebastian tra gli altri. Sopra tutto c’è la passione di una band che pur non incidendo nulla negli ultimi 20 anni, non ha mai perso la passione di comporre e suonare insieme.
Listen: Spanish Encores/Giddy in Palestine
#21
THE SKULL DEFEKTS The Skull Defekts (Thrill Jockey)
La Scandinavia negli ultimi anni è stata davvero generosa nel fornire input musicali straordinari. I The Skull Defekts purtroppo arrivano a fine corsa dopo una carriera di grande qualità musicale ed onestà artistica. Joachim Nordwall (bassista del gruppo e fondatore della iDEAL records) iniziando a registrare questo nuovo album ha dovuto fronteggiare l’assenza del cantante Daniel Higgs, frontman dei Lungfish che era entrato nella band quasi in pianta stabile e del percussionista Jean-Louis Huhta, attirato da altre forme musicali. Ma non voleva il suo diario incompiuto senza scrivere l’ultimo capitolo. La positiva disperazione del leader accompagnato da Henrik Rylander, Daniel Fagerström e dalla nostra vecchia conoscenza Mariam Wallentin (Wildbirds & Peacedrums, Fire! Orchestra e Mariam The Believer) come quarto membro del gruppo ha portato i risultati sperati. Il loro album autointitolato è probabilmente il migliore registrato dalla band, nello studio si respirava da una parte la felicità nel comporre e registrare insieme e dall’altra la consapevolezza della fine di un ciclo. Le loro ballate oscure e tribali non ci sono sembrate mai così coinvolgenti, percussive, ottundenti nel loro approccio industriale impreziosito dalla splendida voce della Wallentin. Un gruppo che personalmente mi mancherà moltissimo.
Listen: A Message from The Skull Defekts
#22
TY SEGALL Freedom’s Goblin (Drag City)
Ty Segall arriva al decimo album in studio in un lasso di tempo relativamente breve, per non contare le varie collaborazioni ed EP vari. Insomma, il caro buon “vecchio” Ty non è certo uno che ama starsene con le mani in mano. Non sempre le sue proposte mi hanno convinto, troppo impegnato a fare la rockstar alternativa compilando degli zibaldoni spesso confusionari. Ma stavolta con Freedom’s Goblin, nonostante la vastità della proposta (album doppio composto da 19 tracce), riesce a colpire nel segno. Ty si affida a Steve Albini ed il suo compendio di rock alternativo tra momenti di puro songwriting, ballate, classici garage rock o cover funkettone come la splendida “Every 1’s a Winner” degli Hot Chocolate, sfoderando una sana propensione all’eclettismo. Senza compiacersi o forzare troppo la mano, stavolta Ty Segall trova la quadratura del cerchio divertendosi e facendo divertire.
Listen: Alta
#23
SHAME Songs Of Praise (Dead Oceans)
Queen’s Head Pub, Brixton, sud di Londra. In questo locale, primo quartier generale dei Fat White Family, il cantante Charlie Steen insieme ai suoi quattro compagni di avventura hanno dato vita al progetto Shame. La band fa dunque parte di questa nuova scena molto interessante nata nel sud della capitale britannica, insieme ad altre realtà come Goat Girl e Dead Pretties. Nel corso dell’ultimo anno, queste formazioni sono riuscite tutte ad ottenere un contratto discografico, creando qualcosa di nuovo per la scena musicale britannica: un nutrito gruppo di musicisti giovani concentrati sulla creazione di un personale suono guitar-oriented. A scanso di equivoci non possiedono la feroce aggressione verbale di Idles o Sleaford Mods, ne l’anarchia sghemba e “malata” dei Fat Whites, ma il loro approccio di insofferente strafottenza rende il loro album di esordio Songs Of Praise estremamente godibile. Quando l’assalto si fa più sfrontato, abrasivo e rumoroso, il gruppo sembra perdere colpi e lucidità, soprattutto rispetto a conterranei come i più maturi Idles. Ma quando fanno prevalere le loro urgenti melodie e la capacità di far esplodere riffs e ritornelli, riescono ad essere assolutamente irresistibili. La mia speranza è che Charlie Steen e compagni possano mantenere non solo la loro genuina strafottenza stradaiola, ma soprattutto l’attitudine a sfornare con facilità dirompenti e memorabili ritornelli. È li che la band del sud di Londra riesce a fare davvero la differenza.
Listen: One Rizla
#24
CAVE Allways (Drag City)
Cooper Crain è un bel genietto: musicista e produttore (Ryley Walker), ama il krautrock e la psichedelia che diffonde a piene mani nei suoi progetti principali: Cave e Bitchin’ Bajas. I Cave si formano nel 2006 e dopo un inizio carriera incentrato sulle tessiture krautrock, dal 2013 con l’album Threace hanno innestano nel loro motorik, una benzina estremamente potente formata da una scoppiettante miscela black funk anni ’70. Cooper Crain, Dan Browning, Rex McMurry e Jeremy Freeze vengono raggiunti per questo nuovl Allways in pianta stabile dal sassofonista e flautista Rob Frye. E se proprio Frye aveva renso così particolare il groove afro-psichedelico del disco precedente, stavolta i Cave riescono a stupirci ancora una volta, esplorando stavolta con successo il magico mondo della disco music anni ’70, naturalmente senza perdere di vista le loro suggestioni kraut, psichedeliche e funkeggianti. Le loro visioni sonore non mancano mai di stupire ed affascinare, trovando mille sfumature ascolto dopo ascolto.
Listen: Beaux
#25
HEATHER LEIGH Throne (Editions Mego)
L’approccio personale e visionario di Heather Leigh alla pedal steel guitar ci aveva già convinto nel 2015 ascoltando il suo primo album solista I Abused Animal . Visto che ormai la fanciulla è diventata il riferimento della scena avant-improv-noise per quanto riguarda il suo particolare strumento, non stupisce affatto l’unione con il sassofono del veterano della scena avant-jazz Peter Brötzmann sia live che in studio. La regina della pedal steel è tornata con Throne, un disco che evoca al solito una straniante sensualità, ma stavolta con modalità diverse. Innanzitutto si fa accompagnare da due musicisti, John Hannon al violino e synth, e David Keenan (marito della Leigh e firma dello splendido magazine The Wire) al basso. Ma non è l’unica novità. Le asperità del suo esordio solista e (ancor di più) dei suoi lavori con Brötzmann vengono smussate dalla voce della stessa Leigh, impegnata nel contrastare in maniera melodica le impennate furenti del suo strumento. Sono a volte canzoni d’amore perverse, intrise di una sessualità sovversiva e intrigante, spesso della durata di una canzone “pop” tranne la lunga “Gold Teeth” che si dipana per oltre un quarto d’ora con i suoi saliscendi emozionali. Heather Leigh con questo album cerca una nuova strada, trovando l’album più “pop” della sua carriera pur senza rinunciare alle dissonanze del suo incredibile strumento.
Listen: Soft Seasons
#26
PARQUET COURTS Wide Awake! (Rough Trade)
Il percorso dei Parquet Courts da Brooklyn, dopo lo splendido Human Performance del 2016, si arricchisce di un nuovo ed eccitante capitolo. Wide Awake! è un album dove si miscelano ancora una volta in maniera perfetta tutte le loro suggestioni e ispirazioni: indie rock, psichedelia e spruzzate post-punk. Il tutto condito da uno spiccato senso della melodia e da una capacità di scrittura che riescono ad elevare la band al di sopra della media. Pochi hanno la loro personalità, pochi riescono a rendere così attuali generi che hanno avuto il loro apice nel passato. Il loro suono è spesso spigoloso ma capace di aprire squarci melodici di grande effetto, il tutto condito da gran un senso dell’ironia. L’album, prodotto da Danger Mouse, è il compimento di tutte le loro esperienze ed influenze, tra post punk e funk noise, pop e lo-fi, tutto espresso con una lucidità ed una bravura disarmante.
Listen: Total Football
#27
E Negative Work (Thrill Jockey)
Una curiosa sinergia tra musicisti ha portato alla creazione di una band chiamata semplicemente E. L’unione tra Thalia Zedek (Come, Uzi, Live Skull), Jason Sanford (Neptune), e Gavin McCarthy (Karate), ha prodotto già due album. I tre hanno saputo assemblare la forza esplosiva del suono industriale con la calma dei songwriters più esperti. I membri della band hanno suonato in band che hanno esplorato più campi della scena rock, dal noise dei Neptune al post rock dei Karate. Ognuno ha portato in dote le proprie esperienze, e il nome scelto significa che i tre componenti hanno lo stesso peso specifico all’interno della band, come dimostra la lunghezza uguale delle tre “stanghette” della lettera E. Certo, scegliere un nome così è un po’ una cattiveria, provate voi a trovarlo sui negozi online o su Spotify… Tra sperimentazione e maturità espressiva, il trio ha sviluppato un suono che vuole essere tanto meccanico quanto emozionale e che loro stessi hanno descritto come “soul music for machines”. Il secondo lavoro si intitola Negative Work, e se possibile migliora ancora i meccanismi che sembravano già oliati nell’eponimo album di esordio.
Listen: Hole In Nature
#28
MOON RELAY IMI (Hubro)
Ho parlato in passato di questa etichetta norvegese chiamata Hubro. Una grafica riconoscibile e molti progetti interessanti che sanno spaziare dall’avant-jazz all’elettroacustica. I Moon Relay vengono da Oslo e sono composti da Daniel Meyer Grønvold (chitarra, basso, percussioni, piano, synth, nastri), Håvard Volden (chitarra, basso, synth, nastri), Ola Høyer (basso) e dal nuovo batterista Christian Næss, arrivato per completare le sessions del loro terzo album in studio intitolato IMI. La band mette in campo molte influenze, nstrumental influences, dalla ritmica profondamente krautrock, ad un’attitudine tra psichedelia e jazz, prendendo a piene mani anche da alcune band post-punk e no wave degli anni ’80. Il risultato è un disco ipnotico fin dalla copertina (e dai titoli delle tracce). Un collage irresistibile ascoltando il quale è impossibile tenere le gambe ferme: riffs ripetitivi, un groove intenso, un intricato motorik ritmico che tiene sempre vivo l’ascolto. Probabilmente se avessero un cantante sarebbero ancora più interessanti. Una splendida conferma.
Listen: [^] II
#29
DIRTMUSIC Bu Bir Ruya (Glitterbeat)
Se parliamo di viaggi, contaminazioni ed alchimie sonore, prosegue senza sosta anche nel 2018 il viaggio dei chitarristi Chris Eckman (Walkabouts) e Hugo Race (Birthday Party, Bad Seeds, Fatalists), che perdono per strada Chris Brokaw (Codeine, Come), ma non la loro voglia di esplorare strade nuove e culture diverse. Il viaggio dei Dirtmusic prosegue dal Mali fino alla Turchia, altro paese in crisi sociale e politica. Qui i due hanno fatto comunella con una vecchia conoscenza come Murat Ertel, che con il suo saz elettrificato ha reso unico ed intrigante il suono del gruppo psych-dub Baba Zula. Inevitabilmente l’umore del nuovo album Bu Bir Ruya risente dell’atmosfera incontrata dai musicisti in studio ad Istanbul proprio quando parte dell’esercito tenta un colpo di stato per rovesciare il governo del presidente Erdogan. Il risultato è un disco evocativo, più scuro e meno blues, arricchito da altri splendidi ospiti come la voce della canadese Brenda McCrimmon e le percussioni tribali di Ümit Adakale.
Listen: Go The Distance
#30
WRECKMEISTER HARMONIES The Alone Rush (Thrill Jockey)
Quando JR Robinson ha dato al suo gruppo in nome di un film del regista ungherese Béla Tarr, Wreckmeister Harmonies, sapeva benissimo quale tipo di visioni affidare alla sua musica. Dopo aver indagato gli aspetti più degradanti dell’umanità nei precedenti lavori, allargando il collettivo fino a 30 elementi e creando spesso e volentieri delle suite lunghissime e magniloquenti, Robinson ci mostra con il suo ultimo The Alone Rush un aspetto più intimista delle sue composizioni. Colpito insieme alla sua sodale Esther Shaw da una serie di tragedie personali, Robinson riduce la line-up a duo con la sua compagna, facendosi aiutare solo dal suo amico Thor Harris, batterista degli Swans, e dal produttore Martin Bisi. I due, nelle campagne dell’Oregon hanno veicolato il loro dolore in un suono sentito e malinconico, angosciante il giusto, da qualche parte nel buoio tra Nick Cave e Scott Walker. Il senso di disperazione è palpabile tra i solchi di questo album, una disperazione che viene squarciata dalla voce baritonale del leader e dal violino della Shaw, in un quadro intimista, affascinante e molto più convincente delle precedenti prove della band, troppo imperniato su un post rock a tinte fosche che mai è riuscito a convincere totalmente. Nel dolore i due ci consegnano innegabilmente il loro miglior lavoro.
Listen: Descent Into Blindness
#31 - #50
31. KRISTIN HERSH: Possible Dust Clouds (Fire Records)
32. THE NECKS: Body (ReR Megacorp)
33. JON HASSELL: Listening To Pictures (Ndeya)
34. BRÖTZMANN/LEIGH: Sparrow Nights (Trost Records)
35. JOHN PARISH: Bird Dog Dante (Thrill Jockey)
36. SONS OF KEMET: Your Queen Is A Reptile (Impulse!)
37. BROTHER JT: Tornado Juice (Thrill Jockey)
38. BEACH HOUSE: 7 (Bella Union)
39. ANNA CALVI: Hunter (Domino)
40. SPIRITUALIZED: And Nothing Hurt (Bella Union)
41. ERIC CHENAUX: Slowly Paradise (Constellation)
42. TANGENTS: New Bodies (Temporary Residence)
43. FLUXUS: Non Si Sa Dove Mettersi (Autoproduzione)
44. CAVERN OF ANTI-MATTER: Hormone Lemonade (Duophonic)
45. CALIBRO 35: Decade (Records Kicks)
46. JO PASSED: Their Prime (Sub Pop)
47. ASK THE WHITE: Sum And Subtraction (Ammiratore Omonimo Records)
48. GEIR SUNDSTØL: Brødløs (Hubro)
49. LUTON: Black Box Animals (Lost Tribe Sound)
50. COURTNEY BARNETT: Tell Me How You Really Feel (Milk! Records)
OUTSIDERS:
- JULIA HOLTER: Aviary (Domino)
- SPUNK!: Fairies Sprinkle Magic Dust (Lostunes)
- SLEAFORD MODS: Sleaford Mods EP (Rough Trade)
- MAISIE: Maledette Rockstar (Snowdonia)
- MARIANNE FAITHFULL: Negative Capability (PIAS)
- CLOUD NOTHINGS: Last Building Burning (Wichita)
- JACK WHITE: Boarding House Reach (XL)
- J MASCIS – Elastic Days (Sub Pop)
- THE LAISSEZ FAIRS: Empire Of Mars (Rum Bar Records)
- HILDE MARIE HOLSEN – Lazuli (Hubro)
- AUTECHRE: NTS Sessions 1-4 (Warp)
- FUCKED UP: Dose Your Dreams (Merge)
- MIND OVER MIRRORS: Bellowing Sun (Paradise Of Bachelors)
- ANY OTHER: Two, Geography (42 Records)
- SUMAC: Love In Shadow (Thrill Jockey)
- MURDER BY DEATH: The Other Shore (Bloodshot Records)
- CHARLES BRADLEY: Black Velvet (Daptone)
- DEAD CAT IN A BAG: Sad Dolls and Furious Flowers (Gusstaff)
- MARC RIBOT: Songs Of Resistance 1942-2018 (-Anti)
- PAUL WELLER: True Meanings (Parlophone)
RECUPERI 2017:
- ALVARIUS B.: With a Beaker on the Burner and an Otter in the Oven (Abduction)
- CHEER-ACCIDENT: Putting Off Death (Cuneiform Records)
- COLLEEN: A Flame My Love, A Frequency (Thrill Jockey)
RISTAMPE & ANTOLOGIE:
- THE BEATLES: The White Album – 7CD deluxe version (Numero Group)
- THE WHO: Live at the Fillmore East 1968 (Universal)
- ALEXANDER SPENCE: AndOarAgain (Modern Harmonic)
- WIRE: 154 – Special Edition (Pink Flag)
- LIZ PHAIR: Girly-Sound to Guyville (Matador)