Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 12°stagione di RadioRock.to The Original
Speriamo che siano state di vostro gradimento tutte le novità messe in campo dalla 12° stagione di radiorock.to: dall’atteso restyling del sito, al nuovo hashtag #everydaypodcast che ci caratterizza, per finire (last but not least) alla qualità della musica e del parlato che speriamo sempre sia all’altezza della situazione e soprattutto delle vostre aspettative. La Radio Rock in FM come la intendiamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni stiamo tenendo accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata.
Il 4° Episodio di Sounds & Grooves per la 12 Stagione di radiorock.to è il solito ottovolante che in poco più di 80 minuti vi farà passare dal viscerale espressionismo post punk dei Protomartyr alla sensibilità e al talento di due songrwiters che, sia pure in epoche diverse, hanno saputo emozionare e coinvolgere pur non ottenendo mai in vita quel successo che avrebbero meritato: Nick Drake e Elliott Smith. In mezzo c’è spazio per l’emozionale e potente messaggio degli Algiers, l’ottundente suono degli Swans, il post rock dei Cul De Sac, l’indie rock declinato in maniera sublime da Grandaddy e The Van Pelt, il ricordo di una serata meravigliosa alla Royal Albert Hall trascorsa ad ascoltare gli Who che suonavano per la prima volta in 30 anni tutto Tommy dall’inizio alla fine, uno degli album migliori di un artista totale come è stato Lou Reed per ricordarlo degnamente a 4 anni dalla scomparsa, la psichedelia liquida di uno dei migliori gruppi italiani, i Julie’s Haircut. E ancora il talento di Rickie Lee Jones e di una Kristin Hersh alle prese con un palazzo abitato dai coyote e i The La’s, precursori del britpop. Non mancate di farci sentire il vostro affetto e di darci il vostro apporto quotidiano. E’ una stagione importante, ci siamo rifatti il trucco per offrire anche dal punto di vista grafico e funzionale con un sito web nuovo di zecca al passo con i tempi. Eccoci. Siamo tornati.
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Mi sembrava corretto iniziare il podcast con il disco che sta girando di più sul mio piatto negli ultimi giorni. Il quarto album dei Protomartyr di Detroit si intitola Relatives In Descent, ed è il primo ad essere pubblicato dalla Domino. Pur mantenendo inalterati i loro riferimenti storici (The Fall, Birthday Party), il gruppo sembra voler attenuare l’impeto violento dei primi lavori per andare di pari passo con le liriche del frontman Joe Casey che raccontano con crescente malinconia e preoccupazione della situazione sociale in generale e degli Stati Uniti in particolare, soprattutto nel racconto recitato con vigore e maestria della splendida “A Private Understanding” che apre il disco come meglio non si potrebbe: un ottovolante emozionale tra salite acustiche e ripide discese elettriche ispirato parzialmente da “L’anatomia della malinconia” del saggista inglese Robert Burton che già nel 1600 lottava con la tristezza che permeava l’esistenza e le ingiustizie del mondo, esprimendole non di rado con pungente sarcasmo. Impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla voce baritonale di un leader che è capace di creare scenari straordinari sia nell’incedere recitativo che nei refrain ossessivi. Le nuove 12 canzoni del gruppo di Detroit brillano nel buio, nascono per l’urgenza di esprimere le nevrosi, le insicurezze di un mondo che cambia, talvolta esplicitamente, a volte creando città e luoghi immaginari, ma sempre con lucide dinamiche emozionali che confermano e sanciscono il ruolo portante che hanno i Protomartyr nel mondo dell’alternative rock a stelle e strisce. Sarà dura togliergli un posto nella playlist di fine anno.
To Be Kind è stato l’ennesimo monumentale album proposto da Michael Gira, album in mezzo ad un trittico che comprende anche The Seer e il più recente The Glowing Man. Tre album usciti in doppio cd e triplo vinile, con pochi brani che si aggirano intorno ai 5 minuti, mentre le restanti si aggirano dai 15 ai 28. La rodata (anche on stage) catarsi stratificata e ascendente colpisce di nuovo nel segno, chiudendo il cerchio di questa formazione degli Swans. Tra i colpi ossessivi di questa “A Little God In My Hand” si sviluppano stimolanti esperienze sonore che non possono lasciare impassibili. Gira scioglierà presto l’attuale formazione della band, lasciando al documentario ‘Where Does a Body End?’ il compito di traghettare il nome degli Swans verso il posto che merita nella storia culturale e musicale degli ultimi 35 anni.
Due anni ci aveva particolarmente colpito l’album di esordio degli Algiers, un trio formato ad Atlanta, Georgia dal cantante Franklin James Fisher, insieme al chitarrista Lee Tesche e al bassista Ryan Mahan. In realtà i tre si dividevano diversi altri strumenti infilando nelle 11 tracce del disco una serie di suoni estremamente interessanti tra battiti di mani e chitarre sferzanti, tra ritmi industrial ipnotici e scuri arricchiti da un incedere vocale gospel e un impianto new wave. L’atteso seguito intitolato The Underside Of Power fortunatamente ha confermato tutto quello che di buono si era detto della band, che ha reso il suo suono ancora più poderoso grazie all’inserimento in pianta stabile del batterista Matt Tong, ex Bloc Party. Difficile scegliere un brano tra i tanti dove si può davvero toccare con mano l’incredibile manifesto rabbioso, potente e impegnato della band, In questa “Cry Of The Martyrs” la voce soul dello splendido Fisher sa essere allo stesso tempo per l’ennesima volta tanto dirompente quanto emozionale.
I Cul De Sac di Boston sono stati forse il miglior gruppo dell’era post-rock a non provenire dall’asse Chicago-Louisville. Il loro rock esclusivamente strumentale, il suono pieno di tensione ritmica, con le partiture chitarristiche tra psichedelia, folk e suggestioni mediorentali di Glenn Jones, e i fremiti dissonanti e kraut del synth di Robin Amos, ha creato una via avventurosa e mai virtuosistica di interpretazione del post-rock. China Gate è stato probabilmente l’album della maturità, con l’innesto del nuovo batterista John Proudman ed un suono in grado di amalgamare in maniera perfetta e levigata le varie influenze della band. “The Colomber” è un perfetto esempio di come l’evoluzione della band di Boston abbia poi portato la band l’anno successivo a registrare il proprio capolavoro, uno scrigno ricolmo di meraviglie assolute chiamato The Epyphany of Glenn Jones, album registrato al maestro del folk blues metafisico, un ombroso chitarrista chiamato John Fahey.
Nel giorno del 4° anniversario della morte, era doveroso ricordare un vero e proprio gigante del rock come Lou Reed. Cantore al contempo crudo e ironico dei bassifondi metropolitani, dell’ambiguità umana, dei torbidi abissi della droga e della deviazione sessuale, ma anche della complessità delle relazioni di coppia e dello spleen esistenziale, Lou ha finito con l’incarnare lo stereotipo dell’Angelo del male, immagine con cui ha riempito i media per oltre tre decenni divenendo una delle figure più influenti della musica e del costume contemporanei. Berlin esce nel 1973 ed è il terzo album della carriera solista di Reed. Pubblicato dopo l’enorme successo di Transformer, Berlin ne è musicalmente quasi agli antipodi, uno scuro concept album sulla storia di Jim e Caroline, una coppia di amanti nella Berlino degli anni ’70. La musica ripercorre la vita dei due sfortunati amanti trattando temi scabrosi come violenza domestica, abuso di droghe, depressione e suicidio. L’album con il suo realismo decadente, ebbe uno scarsissimo successo al momento della pubblicazione, salvo poi avere il meritato successo di critica solo molti anni più tardi. Reed suona solo la chitarra acustica, accompagnato da straordinari musicisti come i fratelli Brecker, Jack Bruce, Steve Hunter, il produttore Bob Ezrin, Tony Levin, Aynsley Dunbar e molti altri. “Lady Day” è perfetta nel riportare il clima di un album che ha saputo ottenere la meritata rivalutazione critica.
I Grandaddy sono stati tra i segreti custoditi meglio dell’indie americano. Una carriera iniziata esattamente 20 anni fa dalla piccola cittadina di Modesto, California, con lo splendido Under the Western Freeway, album uscito in sordina e che ebbe un ottimo riscontro di critica anche se fu stranamente snobbato o quasi dal grande pubblico. La miscela preparata da Jason Lytle e compagni è estremamente interessante e preparata con cura, dove il classico indie alla Pavement viene piegato in una direzione più scura e talvolta quasi sperimentale, con piccole ma significative contaminazioni elettroniche. Dopo altri tre album la band decide di sciogliersi nel 2006, salvo poi riunirsi undici anni dopo e pubblicare un nuovo album. Ma torniamo indietro nel tempo al loro fantastico album di esordio, da cui ho tirato fuori la splendida “Laughing Stock”, brano che definisce in maniera perfetta il sound della band. Purtroppo pochi mesi fa è morto per un ictus a soli 41 anni il bassista Kevin Garcia, la band ha organizzato una pagina GoFundMe per raccogliere fondi a supporto della famiglia.
I The Van Pelt sono una formazione indie-rock newyorkese formata da Chris Leo nel 1993 che ha all’attivo un paio di album ed una manciata di EP pubblicati prima dello scioglimento del gruppo avvenuta nel 1997. Nel 2014 la band si è riformata pubblicando prima un album di vecchie registrazioni intitolato Imaginary Third, poi un nuovo album dal vivo che si intitola Tramonto. Il disco, prodotto dall’etichetta italiana Flying Kids Records in collaborazione con l’inglese Gringo Records, è stato registrato durante il tour europeo del 2014 ed è stato registrato durante la prima tappa di quel tour, un concerto segreto tenutosi a Ferrara in un giardino, con un pubblico esclusivo formato da amici dei componenti della band. La pubblicazione di questo album e la riuscita del tour europeo ha spinto il gruppo ad iniziare una nuova fase della propria carriera. La band sta già pianificando un ulteriore tour e la registrazione del primo disco di materiale originale dall’uscita di Sultans of Sentiment nel 1997. Proprio quell’ultimo album in studio è stato l’apice della vena compositiva di Chris Leo (fratello di Ted Leo) e compagni, un album pervaso da ritmi circolari, chitarre torbide, fluide e ripetitive, il meglio del rock indipendente americano, come dimostra la splendida apertura di “Nanzen Kills A Cat”. Dopo quest’album Chris Leo e la bassista Toko Yasuda formeranno i The Lapse, band che durerà molto poco in quanto la Yasuda preferirà unirsi ai Blonde Redhead.
Come dimenticare i The La’s, gruppo nato a Liverpool nel 1986 da un’idea del cantante Lee Mavers e composto inoltre dal bassista John Power, dal chitarrista Paul Hemmings e dal batterista John Timson. Mavers e Power rivoluzioneranno più volte la formazione prima di trovare la quadratura del cerchio definitiva con Peter “Cammy” Camell alla chitarra ed il fratello di Lee, Neil, dietro ai tamburi per la registrazione dell’eponimo album di esordio del 1990, che sarà anche l’unico registrato dal gruppo. Un anno prima, con l’apporto di Paul Hemmings alla chitarra e Chris Sharrock alla batteria, avevano fatto uscire il singolo “There She Goes”, perfetto e scintillante inno pop in stile britannico che influenzerà e non poco tutta l’esplosione brit-pop di li a pochi anni. Nonostante un’ottima accoglienza della stampa e un pregevole quantitativo di copie vendute, il perfezionismo del leader e autore principale Lee Mavers lo porterà tentare di riscrivere e riarrangiare le canzoni del primo album, ma questo processo non porterà a nulla di concreto. Esclusi un paio di concerti del 1995 con una nuova band, i La’s, pur non essendosi mai sciolti ufficialmente, non hanno mai dato ulteriori prove della loro esistenza sino al 2005, dieci anni dopo, per una riunione speciale sul palco del Glastonbury Festival. Ci restano una manciata di brani fantastici e questo singolo che troverà posto in numerose colonne sonore tra cui quella del film “Fever Pitch” (in italiano “Febbre a 90”) tratto dal romanzo autobiografico del 1992 scritto dall’autore britannico Nick Hornby.
Lo so, vi avrò fatto due palle enormi con i The Who e con Tommy, sicuramente non la prima rock opera ad essere pubblicata, ma senza dubbio la più famosa (non me ne vogliano i fans di Kinks e Pretty Things). Vi ho già raccontato delle due date che hanno visto la premiata società Townshend/Daltrey suonare nella meravigliosa cornice della Royal Albert Hall tutta la loro prima rock opera per intero dopo 29 anni, per celebrare degnamente il 100° concerto benefico a sostegno del Teenage Cancer Trust: una splendida organizzazione che fornisce preziosa assistenza ai giovani malati di cancro, e di cui Roger Daltrey è presidente onorario. La storia è quella ormai famosa, quella di un ragazzo che perde vista, udito e parola dopo un atto traumatico: l’uccisione dell’amante della madre da parte del padre tornato inaspettatamente dalla guerra dove tutti lo credevano morto. Il ragazzo viene usato da tutti, dalla famiglia, dai compagni di classe, dagli spacciatori di droga, un figlio del dopoguerra come il suo creatore, che trova la sua riscossa in un “salto nell’assurdo”: diventando un mago del flipper, un guru adorato dai suoi nuovi adepti. Quando uscì l’album, nel 1969, Tommy fu davvero la svolta per la band, che acquisì consapevolezza nei propri mezzi, e quelle due sere tra marzo e aprile, anche senza John Entwistle e Keith Moon, sono state un’incredibile esperienza a ritroso nel tempo, cui sono orgoglioso di aver assistito. Visto che dalla seconda serata è stato pubblicato l’ennesimo dvd-cd-vinile, mi sembrava doveroso rivivere insieme la conclusione della rock opera, suonata con il dirompente Zak Starkey (figlio di Ringo Starr e figlioccio del mai dimenticato Keith Moon) dietro ai tamburi e Jon Button al basso insieme agli usuali collaboratori dei due (il fratello di Pete, Simon ai cori e chitarra, Loren Gold e Frank Simes alle tastiere). La magia di “We’re Not Gonna Take It” ha chiuso l’esecuzione di Tommy, portando con se un universo di emozioni, passate anche attraverso quelle meravigliose imperfezioni normali (fatali) per un’opera mai più suonata per intero negli ultimi 30 anni.
Torniamo nella nostra penisola, per trovare uno dei migliori album italiani dell’anno. Il nuovo lavoro dei Julie’s Haircut è un crocevia importante per la band emiliana perché Invocation and Ritual Dance of My Demon Twin viene pubblicato da una delle etichette più importanti del mondo in ambito psichedelico, la britannica Rocket Recordings, che ha nel roster nomi come The Heads, White Hills, Gnod, Anthroprophh e i nostri Ufomammut e Lay Llamas solo per citarne alcuni. Dal 2005 la musica del gruppo si è mossa verso territori più sperimentali, concentrandosi maggiormente sull’improvvisazione e la ricerca sonora, senza perdere contatto con il groove e la melodia che hanno caratterizzato la loro musica fin dalla formazione avvenuta nel 1994. Proprio la grafica di copertina, una celebre fotografia delle dive gemelle del cinema muto Dolly Sisters vestite di perle, è il punto di partenza per una nuova espressività emozionale, creata dalla loro metà uguale ma così diversa. In un brano come “Orpheus Rising” ecco il pulsare ossessivo del basso, lo sbuffare del sax, la voce più presente del solito anche se a volte filtrata, il motorik reiterato a gettare un ponte tra i due gemelli, tra il passato ed il presente della band. Tra voci impalpabili, ipnotiche circolarità che dilatano lo spazio sonoro, improvvisazioni, fiati evocativi e spirito anarchico, l’album si snoda in maniera eccelsa portandoci in un mondo tanto oscuro quanto affascinante, consegnandoci un gruppo che è cosa buona e giusta inserire nell’eccellenza della nostra (martoriata) Italia in musica.
Andiamo a trovare una delle grandi signore della musica d’autore americana. Nata a Chicago ma trasferitasi da giovane a Los Angeles, Rickie Lee Jones si è esibita nei folk club locali prima dell’incontro fatale nel 1977 con Tom Waits,che rimane stregato dalla sua abilità e personalità tanto da diventare il suo pigmalione e intraprendere con lei una relazione sentimentale che durerà tre anni. Ma Tom Waits non è l’unico ad accorgersi del suo talento, anche il capo della Warner, Lenny Waronker, rimane talmente colpito dalla giovane songwriter da lanciarla nell’olimpo della canzone d’autore americana producendo nel 1979 il suo album di debutto omonimo, Rickie Lee Jones. La cantautrice di Chicago, aiutata da una serie di grandi turnisti, tra cui Randy Newman, Steve Gadd, Randy Newman e Dr. John, mise in mostra tutto il suo spettro esecutivo, dalle ballate intrise di blues, al country rock ma anche di incursioni nel jazz, e rhythm and blues, il tutto condito da grandi performance vocali e da momenti di drammatica meraviglia. Nel 1983, dopo il suo secondo album chiamato Pirates, la Jones pubblica un interessante EP intitolato Girl At Her Volcano, che contiene tre brani registrati dal vivo, alcune cover registrate in studio, ed un paio di tracce rimaste fuori dalla scaletta di Pirates. “Letters from the 9th Ward / Walk Away Renée” vede la talentuosa songwriter alle prese con un classico portato al successo dai The Left Banke nel 1966, interpretato con classe e passione.
La leader dei Throwing Muses, Kristin Hersh, per il suo ultimo album solista ha voluto fare le cose in grande. Wyatt At The Coyote Palace infatti si compone di un libro con copertina rigida composto di ben 64 pagine di storie scritte dalla songwriter, alternate ai testi delle canzoni che fanno parte dei due CD inclusi nella confezione. La prosa della Hersh è stata ispirata dal suo figlio autistico Wyatt e dalla sua attrazione per un appartamento abbandonato abitato dai coyote che si trovava proprio accanto allo studio di registrazione di Rhode Island. La Hersh ha suonato da sola tutti gli strumenti, partendo dalla semplicità della classica forma cantautorale (voce e chitarra) per costruire le sue mirabolanti variazioni in bilico tra folk, psichedelia e alt country, permettendosi di tanto in tanto dei fendenti elettrici che sarebbe interessante ascoltare con il supporto della sua vecchia band come l’ottima “Diving Bell” e le sue variazioni sul tema in punta di chitarra acustica. L’album è un succedersi di canzoni ora malinconiche e lievi, ora complesse e inquiete che soddisfa e ci dona la certezza di aver ritrovato un’artista di livello estremamente elevato.
Ho sempre avuto un debole, lo ammetto, per i songwriters riservati, timidi, ipersensibili, personaggi come Nick Drake o Tim Buckley nel passato, oppure come Elliott Smith, Daniel Johnston e Vic Chesnutt nel presente. Nick Drake a 20 anni abbandona progressivamente il prestigioso Fitzwilliam College di Cambridge per dedicarsi quasi esclusivamente alla chitarra acustica e alle sue canzoni. Un suo concerto in un locale di Camden Town a Londra come supporto di Country Joe and The Fish cambia per sempre la sua vita. L’interesse di Ashley Hutchings, bassista dei Fairport Convention, e il conseguente rapporto con il manager del gruppo folk Joe Boyd lo portano ad un contratto con la Island Records. Il suo album di esordio si intitola Five Leaves Left, ed esce il 1 Settembre del 1969, seguito poco più di un anno dopo, il 1 novembre 1970, da Bryter Layter. In questi due dischi Drake viene accompagnato dal meglio dei musicisti folk e non solo, come Dave Pegg, Dave Mattacks, Richard Thompson dei Fairport Convention, Danny Thompson e John Cale tanto per citarne alcuni. Gli arrangiamenti sono del suo amico ed ex compagno di università Robert Kirby. La scrittura del giovane è già matura, i collaboratori perfetti, la sua malinconia in musica terribilmente affascinante. I risultati commerciali sono però al di sotto delle aspettative anche se il riscontro degli addetti ai lavori è più che positivo, Drake in concerto sembra quasi un pesce fuor d’acqua, infastidito dal vociare della platea tanto da reagire spesso in modo arrogante ed antipatico. Bryter Layter, storpiatura della classica espressione inglese brighter, later usata nei bollettini meteorologici, è un disco più maturo e ricco di orchestrazioni rispetto al pur fantastico esordio, ma nonostante la grande qualità artistica, dimostrata dalla “At The Chime Of A City Clock” inserita in scaletta, l’album non ebbe i riscontri sperati. Il fallimento commerciale ebbe un effetto devastante sulla psiche di Drake, insieme ad un uso massiccio di antidepressivi e droghe. L’ultimo lavoro, Pink Moon, sarà un lavoro spoglio, asciutto, crudo, 11 brevi brani che vedono protagonisti solo chitarra e voce, specchio di un’anima ormai sull’orlo dell’abisso, che cerca disperatamente equilibrio e luce. Quella luce che purtroppo si spegnerà definitivamente il mattino del 25 novembre 1974, quando la madre lo trovò riverso sul pavimento di casa, a Tanworth-in-Arden nel Warwickshire: un’overdose di antidepressivi gli era stata fatale. Paradossalmente, come spesso accade, Drake trovò postumo quel successo generale di critica e pubblico che non ebbe mai in vita. La musica era il solo mezzo che aveva per comunicare le sue emozioni, i suoi 3 album sono il mezzo migliore per riscoprirlo nel suo tanto incredibile quanto incompreso (all’epoca) talento.
Chiudiamo il podcast proprio con uno di quei riservati e talentuosi artisti di cui parlavo in precedenza. Sono già passati 14 anni da quel giorno tremendo in cui Elliott Smith ha deciso di porre fine alla sua esistenza terrena in un modo che ancora oggi non è stato mai del tutto chiarito. Nel 1994 Smith, non rispecchiandosi più nel suono rumoroso indie-punk-grunge dei suoi Heatmiser, ha deciso di imbracciare la chitarra acustica per permettere al suo animo e alle sue sensazioni di venire fuori in maniera più naturale. Dallo schietto e sincero folk cantautorale dell’esordio Roman Candle in cui gli accordi si succedonevano con intensità e purezza sottolineando i testi malinconici e densi dei problemi quotidiani e del mal di vivere, era passato ad incidere dischi con fisionomia e arrangiamenti più corposi, ma la meraviglia e la semplicità dei suoi brani non hanno mai smesso di incantare. Figure 8 è stato il suo ultimo lavoro in studio, e “Can’t Make A Sound” è tuttora una delle sue cose più belle in assoluto. Elliott Smith ci ha lasciato tante meraviglie, scritte ed interpretate da un artista fragile e incompreso, la cui delicata e malinconica creatività ci manca ogni giorno di più.
Spero abbiate gradito l’atteso restyling del sito (per questo e molto altro, un grazie speciale va sempre a Franz Andreani), che sta sempre migliorando giorno dopo giorno grazie anche alle vostre segnalazioni. A cambiare non è solo la veste grafica, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Noi ci ritroveremo l’11 novembre con un nuovo episodio di Sounds & Grooves dove sicuramente ascolteremo insieme altre succose novità musicali, come l’incredibile math rock degli Yowie, e (tra le altre cose) faremo la conoscenza di due fantastiche bands italiane come In Zaire e Ant Lion.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. PROTOMARTYR: A Private Understanding da ‘Relatives In Descent’ (Domino – 2017)
02. SWANS: A Little God In My Hands da ‘To Be Kind’ (Young God Records – 2014)
03. ALGIERS: Cry Of The Martyrs da ‘The Underside Of Power’ (Matador – 2017)
04. CUL DE SAC: The Colomber da ‘China Gate’ (Thirsty Ear – 1995)
05. LOU REED: Lady Day da ‘Berlin’ (RCA Victor – 1973)
06. GRANDADDY: Laughing Stock da ‘Under The Western Freeway’ (V2 – 1997)
07. THE VAN PELT: Nanzen Kills A Cat da ‘Sultans Of Sentiment’ (Gern Blandsten – 1997)
08. THE LA’S: There She Goes da ‘The La’s’ (Go! Discs – 1990)
09. THE WHO: We’re Not Gonna Take It da ‘Tommy – Live At The Royal Albert Hall’ (Eagle Records / Universal Music Group – 2017)
10. JULIE’S HAIRCUT: Orpheus Rising da ‘Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin’ (Rocket Recordings – 2017)
11. RICKIE LEE JONES: Letters From The 9th Ward / Walk Away Rene da ‘Girl AT Her Volcano’ (Warner Bros. Records – 1983)
12. KRISTIN HERSH: Diving Bell da ‘Wyatt At The Coyote Palace’ (Domino – 1998)
13. NICK DRAKE: At The Chime Of A City Clock da ‘Bryter Layter’ (Island Records – 1970)
14. ELLIOTT SMITH: Can’t Make A Sound da ‘Figure 8’ (DreamWorks Records – 2000)