Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 12°stagione di RadioRock.to The Original
Speriamo che siano state di vostro gradimento tutte le novità messe in campo dalla 12° stagione di radiorock.to: dall’atteso restyling del sito, al nuovo hashtag #everydaypodcast che ci caratterizza, per finire (last but not least) alla qualità della musica e del parlato che speriamo sempre sia all’altezza della situazione e soprattutto delle vostre aspettative. La Radio Rock in FM come la intendiamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni stiamo tenendo accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata.
Il terzo episodio di Sounds & Grooves racchiude il mio piccolissimo tributo ad un gigante della musica come Tom Petty, ma la splendida “Runnin’ Down A Dream” è solo una parte di questa lunga cavalcata sonora di circa 81 minuti che vede anche un piccolo viaggio nella musica di frontiera italiana con Sacri Cuori e 2Hurt, la furia di Pissed Jeans, Unwound e Nine Inch Nails, e la destrutturazione di blues/soul/funk creata da Todd Rittmann (ex US Maple) ed i suoi fantastici Dead Rider. La seconda parte è più riflessiva e malinconica, con la psichedelia malinconica di Galaxie 500 e Mazzy Star, il suggestivo incanto da crooner di Richard Hawley, il post rock americano dei The For Carnation e quello britannico di Hood e Bark Psychosis. Non mancate di farci sentire il vostro affetto e di darci il vostro apporto quotidiano. E’ una stagione importante, ci siamo rifatti il trucco per offrire anche dal punto di vista grafico e funzionale con un sito web nuovo di zecca al passo con i tempi. Eccoci. Siamo tornati.
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Apriamo le danze con il ritorno delle eterne promesse dell’hardcore/noise Pissed Jeans. Il loro quinto disco intitolato Why Love Now li consacra ai livelli più alti. L’album, co-prodotto dalla regina della no wave Lydia Lunch, è una continua e mastodontica esplosione: dodici tracce che mostrano una rabbia controllata a stento e convogliata nei giusti binari dalla voce di un sempre più convincente Matt Korvette. “Activia” è uno dei brani più immediati e coinvolgenti di un disco (e di un gruppo) che stupisce una volta di più per potenza muscolare e scrittura raffinata. Tra l’altro in alcuni brani c’è da segnalare anche la presenza della voce narrante della scrittrice Lindsay Hunter.
Uno dei due chitarristi degli U.S. Maple (autori di 5 pregevoli album dal 1995 al 2003 e perfetta incarnazione di quel fenomeno che andava sotto il nome di “Now Wave”), Todd Rittmann, nel 2009 ha creato i Dead Rider, un nuovo progetto con cui portare a compimento la sua missione di scomporre e ricomporre vari generi musicali. Rittmann con i suoi nuovi compagni di avventura: Matthew Espy, batteria, Andrea Faugh, tromba e tastiere, e Thymme Jones, elettronica, tastiere, fiati e batteria (questi ultimi due anche nei Cheer-Accident) aveva già convinto tre anni fa con un album intitolato Chills On Glass, che aveva incantato per il gioco degli incastri, e per l’abilità di Rittmann e compagni di creare un’equilibrata alchimia tra ingredienti apparentemente molto diversi. A tre anni di distanza la band ci riprova, cambiando riferimenti stilistici ma facendo di nuovo centro. Con Crew Licks l’obiettivo del restauro diventa la black music, e il dipanarsi delle nove tracce diventa presto come il gioco della pentolaccia, con i quattro che mettono nella famosa pignatta di terracotta soul, funk, psichedelia anni’70, e poi a turno la colpiscono con violente mazzate. Prendiamo ad esempio “The Floating Dagger” che chiude la prima facciata, un trascinante ritmo alt-funk che i Red Hot Chili Peppers attuali possono sono sognarsi, con il sassofono di Noah Tabakin (ospite ricorrente di Rittmann e soci) che si muove suadente come un serpente a sonagli pronto ad attaccare ad ogni stacco di batteria prima che un finale rumorista spappoli il tutto in una coltre sintetica.
Diciamocela tutta, siamo un po’ tutti ancora sotto shock per la scomparsa di Tom Petty, autore che ha sempre avuto la capacità di scrivere storie, e di scriverle bene, con il dono della semplice magia da artigiano che possedeva. Per ricordarlo degnamente ho scelto Full Moon Fever, che non è solo il primo album a suo nome senza la sigla associata dei The Heartbreakers, ma soprattutto il disco della maturità di un grande artista. Profondamente attaccato alle sue radici Tom Petty è sempre stato una sorta di eroe americano, e questo primo album che porta il suo nome è la summa delle esperienze maturate con la sua band e di quelle fresche create insieme ai Traveling Wilburys, una sorta di supergruppo di eroi del rock provenienti dalle decadi passate (George Harrison, Bob Dylan, Roy Orbison, Jeff Lynne e lo stesso Petty) creato con il compito di riprendere i modelli del rock anni ’60 e rivederli aggiornandoli agli anni ’80. L’esperienza con questi mostri sacri è confluita in questo album, dove si alternano ballate meravigliose come “Free Fallin'” a cavalcate veloci come la fiammeggiante “Runnin’ Down A Dream”, con un fantastico Mike Campbell alla chitarra e un Jeff Lynne raffinato regista. La Gibson Flying V rappresentata sulla copertina del suo album di esordio con gli Heartbreakers è piantata nel cuore di ognuno di noi. Ciao Tom.
(Don) Antonio Gramentieri, non è solo uno straordinario chitarrista, autore, cantante e produttore, ma anche una delle persone più piacevoli da seguire su Facebook per cultura musicale, passione, competenza e proprietà di scrittura. Oltre ad aver scritto le parole più belle e toccanti su Tom Petty ed averci deliziato con il primo album “solista” a nome Don Antonio, è il muro portante dei Sacri Cuori, band formata nel 2006 e che ha debuttato su disco nel 2010 con uno splendido album intitolato Douglas & Dawn. Alla realizzazione dell’album oltre al nucleo formato da Gramentieri, Massimo Sbaragli al basso, Diego Sapignoli alle percussioni ed il polistrumentista Christian Ravaglioli, hanno partecipato anche grandi personaggi come John Convertino dei Calexico, Howe Gelb dei Giant Sand, Marc Ribot, James Chance. Il disco è stato missato a Bristol da John Parish che da il suo contributo in uno dei pochi brani cantati. Le atmosfere sono quelle della musica di frontiera americana, arricchite dall’amore per la musica cinematica italiana ed il blues, il risultato è un flusso di grande suggestione come dimostra la splendida “House Of Dust” che vede Marc Ribot come ospite alla chitarra e Anders Pedersen del “giro” Giant Sand alla lap steel. Oltre a lavorare sui propri progetti, i componenti del gruppo, in diverse formazioni, hanno fatto da backing band, in studio o dal vivo, ad artisti internazionali come Hugo Race nei due album usciti a nome Hugo Race Fatalists, Dan Stuart dei Green on Red, Richard Buckner e Robyn Hitchcock.
Con il loro sesto lavoro in studio intitolato Eat My Skin, ancora una volta i 2Hurt sono riusciti a tirar fuori un album di grande rock italiano, anche se profondamente intriso di umori americani. L’ennesimo disco suonato con passione, sangue e sudore da un gruppo di grande spessore e talento che, forse, fa uscire l’album della completa maturità. Il gruppo in questo nuovo lavoro suona in scioltezza, i cinque sono una formazione collaudata e stabile da 6 anni ormai, e il piacere che provano a stare insieme e suonare in rilassatezza senza tensioni è avvertibile. “Can’t Tell A Man” si lega a doppio filo con l’album precedente On Bended Knee, un treno in corsa dove ancora una volta sono gli intrecci del violino con gli strumenti “classici” del rock a creare il marchio di fabbrica che rende il sound dei 2Hurt perfettamente riconoscibile. Il disco è in perfetto equilibrio tra scosse elettriche e ispirate ballate, dimostrando che si può essere anche derivativi, ma alla fine è la scrittura fa la differenza, e quella della band romana rimane sempre ispirata.
Gli Unwound sono stati dei veri e propri giganti dell’hardcore americano degli anni ’90. I riff granitici e le soluzioni ricche di spasmi e di lacerante elettricità li hanno resi tra le migliori band del genere e non solo. Justin Trosper, voce e chitarra, Vern Rumsey, basso, e Sarah Lund, batteria già con il precedente Fake Train avevano gettato le basi per una carriera sfolgorante, trovando la piena maturità con il successivo New Plastic Ideas (1994) che ne cesella le capacità compositive e l’incredibile capacità di scrittura che rimarrà incredibilmente alta qualitativamente fino alla fine della loro parabola artistica. L’album si snoda tra grandi scariche nevrotiche e splendide soluzioni armoniche, come in questa “Usual Dosage”. Recentemente l’etichetta specializzata in preziosi recuperi Numero Group ha raccolto gli album (mai ristampati e di non troppo facile reperibilità) della band in quattro imperdibili cofanetti, ristampandone anche Fake Train e pubblicando un live inedito che ne racchiude l’incredibile energia on stage.
Ci sono tre americani ed un australiano che si trasferiscono e mettono su una band a Montreal, in Canada. Non è una barzelletta, ma la vera storia degli Ought, che tanto piacevolmente ci avevano già colpito con il loro esordio More Than Any Other Day che già mostrava un suono maturo, a tratti nevrotico, urgente, con la chitarra e la voce del leader Tim Beeler Darcy a proporsi come erede naturale di Tom Verlaine. Il secondo Sun Coming Down, che è uscito nel 2015 sempre per la straordinaria etichetta canadese Constellation, non delude le attese proponendo sempre il loro sound dissonante ma armonico allo stesso tempo, un post punk nervoso alla Feelies che riesce anche a superare il già ottimo debutto. Se vogliamo trovare un difetto alla band, possiamo dire che in un insieme eccelso mancano le canzoni davvero memorabili, ma la “Men For Miles” inserita in scaletta mostra un gruppo in gran forma e sicuro delle proprie potenzialità. Li aspettiamo per il “difficile” terzo album.
Arriviamo alla seconda metà del podcast con i Nine Inch Nails condotti da Trent Reznor, che è riuscito a mettere su una creatura spietata e potente, innestando in un corpo industriale l’anima di un cantautore tanto introspettivo quanto rabbioso. L’esordio nel 1989 con Pretty Hate Machine è di quelli da ricordare, il secondo concept The Downward Spiral addirittura un capolavoro di follia e rabbia condotto da Reznor ribattezzatosi per l’occasione “Mr.Self Destruct”. Lo splendido doppio album The Fragile è l’apice delle nevrosi e della creatività del suo leader che si lascia andare a briglie sciolte. “We’re In This Together”, è stato l’ultimo brano concepito per l’album in ordine strettamente cronologico, una canzone che il suo creatore ha cercato di spiegare così: “Sembra qualcosa che non è. Sembra un pezzo luminoso e invece vuole essere il contrario. Fastidioso, opprimente. Un pezzo che cerca di cogliere un mondo che sta per collassare.” Il brano, dallo sviluppo violento e dalla coda di ampio respiro, è un mini bignami della meraviglia che si trova a piene mani sparsa sulle sei facciate del triplo album, recentemente ristampato ad un prezzo (finalmente) accessibile. Subito dopo con With Teeth (2005) è iniziato il lento declino del gruppo, fino ai giorni nostri, ma chissà se i nuovi EP appena uscito riusciranno a risollevare le azioni di Reznor e compagnia.
Si cambia decisamente atmosfera passando dagli incubi post industriali di Trent Reznor alla rassicurante e calda voce da crooner di Richard Hawley. Fu il suo amico Jarvis Cocker nel 1997 a salvarlo dalla deriva di alcool e droghe che lo stava trascinando, portandolo in tour con i suoi Pulp. Successivamente ancora Cocker, dopo aver sentito alcuni demo nella sua casa di Sheffield, lo convinse a tornare in studio per completare il suo primo lavoro solista. Nel 2001 Late Night Final fu un discreto successo di critica, e bastò per rilanciare le sue quotazioni e fargli trovare lo slancio per proseguire la sua carriera. Coles Corner è il suo quarto lavoro in studio, dove Hawley (che appare in copertina con un mazzo di rose in mano) fa riferimento alla sua amata Sheffield, con un richiamo al luogo dove gli amici, gli innamorati si danno appuntamento per incontrarsi. “The Ocean”, scelto anche come singolo, colpisce e avvolge con la sua voce calda, gli arrangiamenti orchestrali ricchi ma mai pesanti, e la classe di un artista apprezzato anche da molti musicisti come Mike Mills dei R.E.M. e Scott Walker che ne tesse spesso le lodi.
Quattro anni fa c’è stato il ritorno di una band dopo ben 17 anni di silenzio. Non che le reunion siano al giorno d’oggi un fatto straordinario, ma differentemente da altri, il comeback dei Mazzy Star di Hope Sandoval e David Roback è stato più che dignitoso. Nel 1987 a Pasadena, durante un tour degli Opal con i The Jesus and Mary Chain, Kendra Smith (già nei Dream Syndicate), bassista e cantante della band, decide di far perdere le proprie tracce. Il chitarrista David Roback (già nei Rain Parade col fratello Steven) chiama allora a sostituirla una giovane cantautrice di cui aveva prodotto il disco d’esordio, Hope Sandoval. Al ritorno della Smith, Roback decide di lasciare gli Opal e di formare, con la Sandoval, un nuovo gruppo: i Mazzy Star. La band unisce la passione per l’indie rock più narcolettico e il folk con il proprio passato legato alla scena Paisley Underground. Il pop rock onirico del gruppo diventa capolavoro con il secondo album So Tonight That I Might See, registrato e pubblicato nel 1993 con l’ausilio di Jason Yates al basso e di Keith Mitchell (recentemente scomparso) dietro ai tamburi. La malinconia e la dimensione sognante la fanno da padrona, un rifugio sicuro dai clamori del grunge che sta per esplodere, come nella meraviglia di “Bells Ring”, dove la voce di Hope Sandoval si fa largo stordendoci dolcemente tra le tessiture dilatate della chitarra di Roback.
Sicuramente influenti per i Mazzy Star sono stati il chitarrista Dean Wareham, il batterista Damon Krukowski e la bassista Naomi Yang, che dai banchi dell’università di Harvard si sono trasferiti sul palco sotto il nome di Galaxie 500. Nei loro quattro anni di attività, dal 1987 al 1991 hanno pubblicato tre album e soprattutto hanno comunicato in modo semplice e dimesso la malinconia ed il disagio di una generazione. Band di culto, diretti in studio da un produttore come Mark Kramer (ex Butthole Surfers e collaboratore di John Zorn) che creerà in parte il loro suono pieno di riverberi, i tre riprendono le atmosfere dei Velvet Underground dissanguandole e anestetizzandole, soprattutto nel loro album centrale e più riuscito, quell’On Fire da cui ho estratto la suggestiva “Decomposing Trees” con l’intervento del sassofono ad aggiungere tensione ed estasi sonora. Dal loro suono nasceranno non solo i Mazzy Star, ma anche altre band slowcore come Low o Red House Painters, pervase dalla stessa lenta malinconia. Naomi Yang e Damon Krukowski continueranno la loro carriera più tardi in studio come Damon & Naomi, ma quella è un’altra storia.
Andiamo in Inghilterra e andiamo a rovistare nello scrigno segreto del post-rock britannico. Gli Hood vengono fondati a Wetherby, cittadina non distante da Leeds, dai due fratelli Richard e Chris Adams che cercano di mediare i movimenti che in quel momento andavano per la maggiore in Inghilterra (shoegaze e britpop) con l’indie rock statunitense. Dopo alcuni 7″ e tre lavori sulla lunga distanza abbastanza acerbi e confusi, la band trova finalmente la quadratura del cerchio collaborando con Matt Elliott (all’epoca con i Third Eye Foundation) e pubblicando Rustic Houses Forlorn Valleys. L’album dilata il suono ed unisce in sei lunghi ed articolati brani il meglio del post-rock Made in England. E’ un album che in qualche modo si può paragonare al fantastico Hex dei Bark Psychosis (che ascolteremo nel gran finale) per il modo in cui le pause ed i silenzi riescono a vivisezionare l’anima, per i crescendo emozionali, i field recordings, i brevi giri chitarristici. Mentre i Bark Psychosis scattano un’istantanea del caos e della dispersione metropolitana, gli Hood hanno come paesaggio immaginario l’isolazionismo della campagna, con i rintocchi ovattati e la ricchezza di suoni che vanno a dipingere una serie di spettrali paesaggi rurali. “Your Ambient Voice” rivela l’alba di un mondo dimenticato, un orizzonte immaginario dove abbandonarsi ai sogni.
Abbiamo già parlato più volte (mi perdonerete per questo) degli Squirrel Bait, apparentemente una delle tante band hardcore con all’attivo un EP e un solo album, ma in realtà entrati nella leggenda perché dal loro scioglimento si sono formate alcune tra le band più importanti del rock alternativo americano degli anni ’90. Il chitarrista Brian McMahan andrà a formare gli Slint insieme all’ex batterista dei Bait Britt Walford, mentre l’altro chitarrista David Grubbs formerà i Bastro, i Bitch Magnet e i Gastr Del Sol insieme a Jim O’Rourke. Dopo l’esperienza Slint, nel 1995 Brian McMahan e David Pajo insieme a John Herndon e Doug McCombs dei Tortoise danno vita al progetto The For Carnation pubblicando il primo EP intitolato Fight Songs. Dopo un secondo EP il gruppo si prende una pausa, tornando nel 2000 con un album eponimo che vede una line up profondamente modificata che vede McMahan come unico superstite. L’album è un viaggio narcolettico e cinematico di profonda suggestione, un disco cui sono particolarmente legato perché l’ultima traccia, “Moonbeams”, è stata anche la canzone che ha chiuso il mio viaggio in FM su Radio Rock 106.6 a Roma nell’aprile del 2000. “Snoother” è il perfetto esempio della tensione apatica e dei toni struggenti di un album tra i miei preferiti dell’era post rock americana.
Chiudiamo il podcast con un quello che, lo ammetto spudoratamente, è uno dei miei album della vita. Gli incubi e sogni dei Bark Psychosis hanno ispirato il critico Simon Reynolds a coniare uno dei termini più abusati in musica negli anni ’90, “post-rock”. Quando si parla della band di Graham Sutton (chitarra e voce), Daniel Gish (tastiere e piano), John Ling (basso e campionatore), e Mark Simnett (batteria e percussioni) la mente va sempre a vagare di notte nei sobborghi londinesi descritta in capitoli cinematici di rara suggestione onirica all’interno di quel tesoro nascosto chiamato Hex (1994). In copertina c’è la chiesa di St. John at Hackney vista di notte dai binari vicino alla stazione di Stratford, mentre sul terreno si stagliano le ombre dei componenti del gruppo, una zona che recentemente ha visto la costruzione del Parco Olimpico di Londra. I paesaggi industriali urbani, desolanti e crepuscolari che hanno ispirato l’artwork li ritroviamo tra i solchi del disco, in un’alternanza di silenzi e di miniature sonore, cortometraggi immaginifici. Quando si ascolta “Absent Friend” tra arpeggi di chitarra, tastiere avvolgenti e voce sussurrata, una lacrimuccia si fa strada tremante, tratteggiando un paesaggio sonoro che provoca la catarsi dell’anima. Graham Sutton tornerà a sorpresa solo 10 anni più tardi a rispolverare il nome Bark Psychosis con un album, Codename: Dustsucker, che provoca qualche sussulto per le atmosfere simili al predecessore pur non eguagliandone l’impatto sonoro ed onirico. Album che vede dietro i tamburi Lee Harris dei Talk Talk.
Spero abbiate gradito l’atteso restyling del sito (per questo e molto altro, un grazie speciale va sempre a Franz Andreani), che sta sempre migliorando giorno dopo giorno grazie anche alle vostre segnalazioni. A cambiare non è solo la veste grafica, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook. Noi ci ritroveremo il 27 ottobre con un nuovo episodio di Sounds & Grooves dove sicuramente parleremo di altre succose novità musicali, come lo splendido ultimo Protomartyr, rivivremo una serata speciale per gli Who alla Royal Albert Hall, e tra le altre cose, andremo a ricordare due immensi songwriters appartenenti ad epoche diverse come Nick Drake ed Elliott Smith.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto

TRACKLIST
01. PISSED JEANS: Activia da ‘Why Love Now’ (Sub Pop – 2017)
02. DEAD RIDER: The Floating Dagger da ‘Crew Licks’ (Drag City – 2017)
03. TOM PETTY: Runnin’ Down A Dream da ‘Full Moon Fever’ (MCA Records – 1989)
04. SACRI CUORI: House Of Dust da ‘Douglas & Dawn’ (Interbang Records – 2010)
05. 2HURT: Can’t Tell A Man da ‘Eat My Skin’ (Lostunes Records – 2017)
06. UNWOUND: Usual Dosage da ‘New Plastic Ideas’ (Kill Rock Stars – 1994)
07. OUGHT: Men For Miles da ‘Sun Coming Down’ (Constellation – 2015)
08. NINE INCH NAILS: We’re In This Together da ‘The Fragile’ (Nothing Records – 1999)
09. RICHARD HAWLEY: The Ocean da ‘Coles Corner’ (Mute – 2005)
10. MAZZY STAR: Bells Ring da ‘So Tonight That I Might See’ (Capitol Records – 1993)
11. GALAXIE 500: Decomposing Trees da ‘On Fire’ (Rough Trade – 1989)
12. HOOD: Your Ambient Voice da ‘Rustic Houses Forlorn Valleys’ (Domino – 1998)
13. THE FOR CARNATION: Snoother da ‘The For Carnation’ (Domino – 2000)
14. BARK PSYCHOSIS: Absent Friend da ‘Hex’ (Circa – 1994)