Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 12°stagione di RadioRock.to The Original
Sperando che siano state di vostro gradimento tutte le novità messe in campo dalla 12° stagione di radiorock.to, dall’atteso restyling del sito all’hashtag #everydaypodcast che ci caratterizza, per finire (last but not least) alla qualità della musica e del parlato che speriamo sempre sia all’altezza della situazione e soprattutto delle vostre aspettative. La Radio Rock in FM come la intendiamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni stiamo tenendo accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata. Tutto questo e molto altro è www.radiorock.to The Original. Il secondo episodio è il mio piccolissimo tributo in realtà a tre grandi della musica che sono venuti purtroppo a mancare nell’ultimo mese. Personaggi di epoche e stili diversi come Holger Czukay (bassista e mente dei Can), Grant Hart (batterista e songwriter degli Husker Du), e Charles Bradley, cui il destino ha riservato una fine tanto triste quanto beffarda. Il tutto condito da numerose splendide novità come il ritorno dei Dream Syndicate dopo quasi 30 anni, l’atteso nuovo album dei The National, la perfetta fusione tra classicità e sperimentazione di Chris Forsyth e il racconto folk a tinte noir di un Micah P. Hinson in splendida forma. Non mancate di farci sentire il vostro affetto e di darci il vostro apporto quotidiano. E’ una stagione importante, ci siamo rifatti il trucco per offrire anche dal punto di vista grafico e funzionale con un sito web nuovo di zecca al passo con i tempi. Eccoci. Siamo tornati.
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Come detto, la notizia della morte di Grant Hart è stata devastante. La sua band ha davvero segnato un’epoca. Gli Hüsker Dü si sono sciolti alla fine degli anni 80. Da quel momento in poi i tre membri della band (il cantante/chitarrista Bob Mould, il batterista Grant Hart, ed il bassista Greg Norton) hanno fatto vite completamente separate, anche se un anno fa era stato pubblicato un nuovo sito di merchandising ufficiale, che aveva fatto pensare ad una reunion che avrebbe avuto del clamoroso. La band di Minneapolis era sempre in bilico tra la cupa introspezione di Mould e la spavalderia di Hart, che si spartivano da (quasi) buoni fratelli la scrittura delle tracce dei dischi. Zen Arcade è stato un disco epocale, un doppio concept album nell’era dell’hardcore, 23 brani dove ci sono tutti gli estremi, cervello e cuore, melodia e rumore, la ricerca di se stessi in un monolite che non è mai stato prima così intimo e spettacolare. “Turn On The News” è la classica cavalcata spettacolare firmata proprio da Hart.
Grant Hart aveva 56 anni. Si sapeva dei suoi problemi di salute ma nessuno si aspettava una fine così repentina. Il suo ultimo album in studio da solista è uscito nel 2013 e si intitola The Argument. Una sorta di concept album, come lo era stato Zen Arcade, un’altra epopea ambiziosa, dedicata alla caduta dell’uomo e tratta da un manoscritto inedito di William Burroughs, a sua volta ispirato dal Paradiso Perduto di Milton. Un disco dove Hart mostra tutta la sua capacità di scrittura e le sue infinite varianti. Un disco convincente e commovente, che ha uno dei suoi apici nella splendida “I Will Never See My Home”. Mi scuso per i problemi tecnici che ho avuto in fase di registrazione che hanno bloccato per una decina di minuti la registrazione e completamente tagliato il brano. Riascoltatelo a questo link. Impossibile non commuoversi.
Gli Yawning Man sono un gruppo rock californiano, formato nel 1986 da Gary Arce, Alfredo Hernández, Mario Lalli e Larry Lalli. Sono considerati la principale fonte di ispirazione del genere poi codificato come desert rock. La loro musica è influenzata dal jazz, dall’hard rock, dalla psichedelia e dal punk. Il gruppo si forma dopo lo scioglimento degli Across the River, nel 1986, prendendo il nome da un personaggio presente in un musical di Tom Thumb del 1958. Gli Yawning Man cominciano ad esibirsi durante diversi generator party, feste organizzate in mezzo al deserto dove generatori diesel venivano utilizzati per alimentare gli amplificatori e permettere alle band di suonare. Artisti come John Garcia, Josh Homme e Brant Bjork assistono a questi concerti e ne rimangono fortemente influenzati, ad esempio, in un album seminale per lo stoner come …And The Circus Leaves Town dei Kyuss, c’ è proprio una cover degli Yawning Man: “Catamaran”. Nel 1994 Mario e Larry Lalli fondano una band parallela chiamata Fatso Jetson, mescolando le loro radici psichedeliche e doom con sonorità surf rock, punk, blues e hard rock anni settanta. Archaic Volumes è il loro sesto album in studio, che vede insieme ai cugini Lalli la batteria di Anthony Tornay e il sax di Vincent Meghrouni, bene in vista nella trascinante “Back Road Tar”.
Ah, che tempi devono essere stati i primi anni ’80 a Minneapolis, con il primato cittadino diviso tra Husker Du e The Replacements. Con l’approccio da songwriter eclettico del cantante Paul Westerberg che iniziava a prendere potere in seno alla band, e con la chitarra di quel pazzo di Bob Stinson assolutamente irrefrenabile nei loro album migliori come Tim, e nei loro inni generazionali che immaginiamo cantati a squarciagola dai fan dei ‘Mats in concerto…quando il concerto veniva portato a termine senza particolari follie naturalmente, il che non accadeva troppo spesso. Paul Westerberg si è dedicato alla carriera solista dopo lo scioglimento del gruppo nel 1991. Le sue prime composizioni come artista solista sono apparse nella famosa colonna sonora del film del 1992 Singles. Il suo primo album 14 Songs esce un anno più tardi, e mostra tutte le qualità di scrittura che lo avevano fatto apprezzare come cantante dei ‘Mats. L’album vede anche la collaborazione di Ian McLagan, ex tastierista dei Faces, una band che il cantante ha sempre citato come una delle sue influenze principali. “First Glimmer” testimonia l’abilità di Westerberg nel costruire canzoni scintillanti e assolutamente perfette.
Quello che avevamo annunciato a febbraio è diventato realtà. Cinque anni dopo essersi riuniti esclusivamente per alcuni concerti, i The Dream Syndicate, una delle band cardine del Paisley Underground hanno pubblicato il loro primo album dopo ben 29 anni di silenzio, How Did I Find Myself Here? infatti è il primo disco della band di Steve Wynn dopo Ghost Stories uscito nel 198La band che vede oltre a Wynn il batterista originale Dennis Duck, il bassista Mark Walton (che si unì al gruppo dopo l’uscita di Medicine Show) e il chitarrista Jason Victor, che suona nei The Miracle 3, l’altra band di Steve Wynn, aveva iniziato a registrare l’album nel 2016. Ed è un album incredibilmente bello, che suona allo stesso tempo attuale e classico, con il cameo finale di Kendra Smith, bassista originaria della band che decise di lasciare nel 1983 dopo lo splendido debutto di The Days of Wine and Roses. La title track è un’assoluta meraviglia di oltre 11 minuti, prodotta da Chris Cacavas che suona anche l’organo, dove si accavallano energia e sogno, chitarre che duellano e momenti di sperimentazione, il tutto con una scrittura ispirata e riconoscibile. Uno degli album dell’anno senza alcun dubbio.
Un’altra notizia terribile per il mondo della musica è arrivata il 5 settembre, con la morte di Holger Czukay, bassista fondatore di una delle band più influenti e seminali della storia del rock, i Can. Purtroppo per la leggendaria band tedesca che ha lasciato un segno enorme non solo nel Krautrock, ma nella intera storia della musica, si tratta della seconda perdita nel corso del 2017. Infatti a gennaio era stato il batterista e metronomo della band Jaki Liebezeit a morire dopo una polmonite fulminante. Czukay non era solo un bassista, infatti grazie alla sua esperienza, era stato anche ingegnere del suono durante la registrazione dei grandi classici della band come Tago Mago e Ege Bamyasi, ed è ricordato anche come un pioniere del sampling. Future Days è il loro quarto album in studio e l’ultimo in cui canta il giapponese Damo Suzuki. Rispetto ai precedenti presenta una decisa virata verso sonorità ambient, con composizioni in stile jazz e contributi vocali minimi, specialmente nella title track e nella lunga suite “Bel Air” che si prende l’intera seconda facciata dell’album. L’album ha influenzato moltissime band della scena post rock inglese, soprattutto una che prenderà il nome proprio da una delle migliori tracce incluse in questo album, “Moonshake”.
Lo scorso anno, in cima alla playlist di Sounds & Grooves era salito The Rarity Of Experience, un lavoro splendido, dove Chris Forsyth insieme alla sua Solar Motel Band è riuscito a far convivere grazia e follia, tradizione e sperimentazione. In questo album il chitarrista di Philadelphia ha bilanciato perfettamente l’amore per il suono chitarristico trascendente degli anni ’70 con la sperimentazione dei giorni nostri. Il doppio album è un maestoso monumento allo strumento principe del rock che viene portato in trionfo da una ritmica sostenuta su centinaia di chilometri di strade blu. L’ex Peeesseye torna sul luogo del delitto con un album più corto intitolato Dreaming In The Non-Dream composto da sole quattro lunghe tracce, dove, con una formazione leggermente modificata (senza la seconda chitarra di Nick Millevoi e con un cambio dietro i tamburi dove adesso siede Ray Kubian), mantiene lo stesso elevatissimo standard qualitativo. Basti ascoltare la splendida “Have We Mistaken The Bottle For The Whiskey Inside?”
Sui Moonshake ho scritto un lungo articolo che ne ripercorre tutti i passi dagli esordi allo scioglimento. La band è stata formata da David Callahan e Margaret Fiedler nel 1990 scegliendo un nome che ne sancisse in maniera inequivocabile il legame con il krautrock (come abbiamo ascoltato prima, “Moonshake” non è altro che uno dei brani che compongono il seminale Future Days dei Can). I due leader trovano presto un loro equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa. Un anno dopo, il mini Big Good Angel vede sei brani divisi equamente tra i due leader in un ambientazione più quieta che mostra la devozione al suono dei Can e certifica il talento e le giuste ambizioni della band. Basti ascoltare la tesa “Séance” a firma Callahan, che lascia presagire quello che sarà il futuro del gruppo orfano della Fiedler. La tensione creativa e non solo tra i due leader diventerà sempre più forte, fino a quando il tour della band in Nord America nel corso del 1993 li porterà a scontarsi apertamente fino alla separazione. I Moonshake, inseriti nel filone post-rock britannico, sono stati semplicemente uno dei gruppi più originali degli anni novanta il cui unico torto è stato di essere stati troppo facili per l’avanguardia e troppo intellettuali per la massa.
Lo ammetto spudoratamente, ho dei problemi con alcuni gruppi che attualmente sembrano avere un ottimo seguito di critica e pubblico. Faccio i nomi: Arcade Fire, The War On Drugs e The National. Seppur amando alcune delle canzoni comprese in album come The Boxer, il gruppo dei fratelli Dessner e Devendorf, completato dalla bella voce baritonale di Matt Berninger non è mai riuscito davvero a coinvolgermi emotivamente. Il settimo album della band di Cincinnati, Ohio, si intitola Sleep Well Beast e sembra ben più ispirato del precedente Trouble Will Find Mepubblicato quattro anni prima. L’uso dell’elettronica è ben misurato e mai invadente, consentendo alla band una profondità forse inedita. I testi sono un approfondimento delle relazioni interpersonali e soprattutto del momento in cui le stesse arrivano ad un punto critico. Non mancano messaggi anti-Trump, esplicitati con un uso più grintoso delle chitarre. Un uso sapiente di chiari e scuri che risulta stavolta convincente al mio palato, una maturità di scrittura che convince come nella splendida “The System Only Dreams In Total Darkness”.
David Thomas è il fondatore dei leggendari Pere Ubu, band di Cleveland cardine del post punk lacerato da incubi industriali. Ex Rockets From The Tombs e critico musicale sotto lo pseudonimo di Crocus Behemoth, Thomas è personaggio introverso, solitario al limite della paranoia. Le sue nevrosi urbane e pulsioni schizofreniche lo hanno portato ad essere un un profondo innovatore nello stile di canto, stridulo e disperato, con cui ha espresso il suo sentimento di alienazione. Parallelamente ai Pere Ubu, ha fondato nel 1994, il progetto David Thomas & Two Pale Boys, in cui insieme a Keith Moliné (banjo, violino e chitarra) e Andy Diagram (tromba) crea questa sorta di trasversale folk urbano con cui disegna una geografia astratta del suono. 18 Monkeys On A Dead Man’s Chest è un album splendido, e “Little Sister” una ballata di amara dolcezza fatta a suo modo. Il modo e la maniera di un uomo che a distanza di decenni non smette mai di stupire.
Micah P. Hinson, folksinger nato a Memphis ma texano d’adozione, è ormai da anni una delle voci più interessanti del songwriting americano. Le sue liriche autobiografiche, sarcastiche e profonde, si sposano perfettamente con la sua visione cinematica e il suo modo dolcemente violento di interpretare la tradizione americana. Micah si è sempre confermato anche live come grande intrattenitore, raccontando storie della sua vita personale e della grande periferia americana, quella dove il massimo della vita è andarsi a sbronzare al bar o trangugiare un six pack davanti alla tv. Stavolta per il suo nuovo Micah P.Hinson presents The Holy Strangers, il songwriter ha voluto creare una «moderna opera folk» dove raccontare la storia di una famiglia in tempo di guerra, andando a scandagliare i vari momenti dei vari componenti, dalla nascita ai primi amori, passando per matrimoni, figli, conflitti, morte e suicidi. «Viviamo con loro e moriamo con loro» ha aggiunto in un comunicato stampa, «seguendone le decisioni, gli errori e le bellezze attraverso tutti gli strani e gloriosi luoghi in cui la vita ci porta». Una storia ambiziosa ma raccontata quasi come fosse una colonna sonora con splendidi affreschi sonori in gran parte strumentali, che ci fanno visualizzare perfettamente la storia tra ballate country e suggestioni folk, raccontati da Micah con la sua inconfondibile voce bassa ed emozionale, come la “The Great Void” che ho inserito in scaletta.
Siamo nel novembre del 1971 quando un gruppo formato da neri e bianchi conquista la vetta della classifica americana degli album tramutando le stelle della bandiera americana in fiori. E’ la rivolta in musica voluta da Sly Stone e dalla sua creatura chiamata Sly and the Family Stone che nel 1971 debutta direttamente al numero 1 delle classifiche Billboard Pop Albums e Soul Albums con There’s A Riot Goin’ On. Il periodo per la band era di grandi pressioni dopo il successo dell’album precedente Stand! e l’entusiasmo suscitato dalla loro esibizione al Festival di Woodstock. La Epic Records premeva per avere un nuovo album di successo, mentre il movimento delle Pantere Nere chiedeva a Stone di rendere la sua musica più “militante” sul versante politico dell’indipendenza dei neri, e di rimpiazzare i bianchi Greg Errico e Jerry Martini con musicisti di colore. Queste pressioni rendevano lo stesso Stone sempre più schiavo delle droghe, il che ebbe come conseguenza il quasi isolamento del leader in sala di registrazione. Il risultato è stato un album dalle atmosfere più scure pur restando fedele al caleidoscopio stilistico che, includendo tra i vari elementi jazz e psichedelia, rendeva unico il suo sound. Il disco sarà di enorme influenza per artisti bianchi e neri, sia nelle lunghe jam soul-funk tendenti al dub (risultato delle numerose sovraincisioni e manipolazioni dei nastri da parte di Sly), che nelle tracce più di atmosfera come “Just Like a Baby”. Insomma, un capolavoro.
Era davvero impossibile non voler bene a Charles Bradley che nel 2011 ci aveva stupito, ed in qualche modo commosso, con il suo splendido esordio avvenuto in tarda età. Il brutto male che lo aveva colpito un paio di anni fa si è ripresentato portando con se il suo conto salatissimo, e ce l’ha portato via poche settimane fa. Il suo terzo e purtroppo ultimo album in studio, Changes, è l’album di un artista ormai completo e confidente del suo status di stella dell’attuale panorama soul, che riusciva a padroneggiare sia la classicità del genere che i diversi innesti stilistici con grande naturalezza. Fa sorridere dire “album della maturità” per un artista che aveva appena spento 67 candeline, ma è proprio così, perché il soul-singer padroneggia ogni brano con una abilità ed una forza emotiva davvero impressionante come dimostra la splendida e trascinante “Nobody But You”. Il suo non è stato un revival, ma la sua vera essenza, la sua realtà, ed è stato questo a conquistare e a fare tutta la differenza del mondo. Ci mancherà moltissimo la sua passione e la sua musica. Bradley, come Sharon Jones, nella vita aveva combattuto molte battaglie e aveva sempre vinto, è sempre stato troppo forte e ha sempre avuto un cuore troppo grande per lasciarsi andare. Ha trascorso gli ultimi mesi della sua vita alternando le cure ai tour, mostrando sul palco la stessa feroce determinazione e intensità di sempre. On stage, era una forza magnetica di pura vita, piena di sangue e sudore, un’esplosione di urla e scuotimenti, capace di conquistare il cuore di chiunque lo vedesse on stage.
Chiudiamo il podcast con un’artista di cui abbiamo parlato due settimane fa. Terry Callier negli anni ’90 si era reinventato collaborando con artisti della scena trip-hop come i Massive Attack (cui aveva prestato la voce per una canzone meravigliosa come “Live With Me”), e pubblicando un album nuovo (Timepeace) a ben diciannove anni dal precedente. Proprio il successo di questo grande ritorno (che si aggiudicò il premio Time For Peace delle Nazioni Unite per migliore impresa artistica che contribuiva alla pace nel mondo) rivelò ai suoi colleghi della University of Chicago la sua parallela carriera di musicista, e come risultato ci fu (incredibilmente) il licenziamento in tronco. Callier, nato proprio a Chicago nel 1945, era stato tra i primi nel periodo a cavallo tra i ’60 ed i ’70 ad unire il folk ed il soul grazie alla sua splendida chitarra e alla sua voce calda e passionale. Nel 1972 esce il secondo album di Callier, dal titolo Occasional Rain. Nonostante il discreto successo del singolo “Ordinary Joe”, le vendite non furono quelle sperate in partenza, anche se nell’album ci sono altre perle come questa “Trance On Sedgewick Street”. La musica di Terry Callier è un mix di ricercatezza e accessibilità ma all’epoca il grande pubblico preferiva seguire le classiche linee guida della Motown. La cosa incredibile è che nel 1983 Callier si ritirò dalle scene per dedicarsi agli studi di programmazione informatica, venne assunto alla University of Chicago e frequentò le scuole serali al college per arrivare a laurearsi in sociologia. Il resto, il lungo silenzio ed il fortunato ritorno è storia, storia purtroppo interrotta nel 2012 quando un brutto male ce lo porta via a soli 67 anni.
Spero abbiate gradito l’atteso restyling del sito (per questo e molto altro, un grazie speciale va sempre a Franz Andreani), che sta sempre migliorando giorno dopo giorno grazie anche alle vostre segnalazioni. A cambiare non è solo la veste grafica, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook. Noi ci ritroveremo il 13 ottobre con un nuovo episodio di Sounds & Grooves dove sicuramente parleremo di altre succose novità musicali, come quella dei miei beniamini Dead Rider, e andremo a ricordare un altro immenso artista che ci ha lasciato da poco come Tom Petty.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. HUSKER DU: Turn On The News da ‘Zen Arcade’ (SST Records – 1984)
02. GRANT HART: I Will Never See My Home da ‘The Argument’ (Domino – 2013)
03. FATSO JETSON: Back Road Tar da ‘Archaic Volumes’ (Cobraside – 2010)
04. PAUL WESTERBERG: First Glimmer da ‘14 Songs’ (Sire / Reprise Records – 1993)
05. THE DREAM SYNDICATE: How Did I Find Myself Here da ‘How Did I Find Myself Here?’ (Anti- – 2017)
06. CAN: Moonshake da ‘Future Days’ (United Artists Records – 1973)
07. CHRIS FORSYTH & THE SOLAR MOTEL BAND: Have We Mistaken The Bottle For The Whiskey Inside? da ‘Dreaming In The Non-Dreaml’ (No Quarter – 2017)
08. MOONSHAKE: Séance da ‘Big Good Angel’ (Too Pure – 1993)
09. THE NATIONAL: The System Only Dreams In Total Darkness da ‘Sleep Well Beast’ (4AD – 2017)
10. DAVID THOMAS & TWO PALE BOYS: Little Sister da ‘18 Monkeys On A Dead Man’s Chest’ (Glitterhouse Records – 2004)
11. MICAH P.HINSON: The Great Void da ‘Micah P. Hinson Presents The Holy Strangers’ (Full Time Hobby – 2017)
12. SLY & THE FAMILY STONE: Just Like A Baby da ‘There’s A Riot Goin’ On’ (Epic – 1971)
13. CHARLES BRADLEY: Nobody But You da ‘Changes’ (Dunham / Daptone Records – 2016)
14. TERRY CALLIER: Trance On Sedgewick Street da ‘Occasional Rain’ (Cadet Records – 1972)