“Got a feeling inside, I can’t explain
A certain kind, I can’t explain
Feel hot and cold, I can’t explain
Down in my soul, I can’t explain”
Sono le 20:20 in punto, ho messo piede sul prato di Hyde Park dalle 13:00 minuto più minuto meno. Ho già visto Sleaford Mods, Gaz Coombes, Johnny Marr, i Kaiser Chiefs e Paul Weller esibirsi sul Great Oak Stage, quel palco talmente enorme che riesce a rendere piccoli perfino dei giganti come gli Who (anche se in realtà Roger Daltrey è tutt’altro che un gigante con i suoi 168 cm…), ma sono totalmente impreparato alla fortissima scarica di brividi che sembra attraversare ogni parte del mio corpo quando Pete Townshend urla al microfono:
“You are a long way away, but we will fuckin’ reach you.”
prima di attaccare con il riff kinksiano di “I Can’t Explain”. Un’emozione talmente forte che quando parte il ritornello faccio fatica a cantare per il groppo in gola. Quelle emozioni che nemmeno il diciannovenne Townshend riusciva a spiegarsi quando metteva sul piatto The Freewheelin’ di Bob Dylan e Mingus Ah Um di Charlie Mingus, o ascoltava Devil’s Jump di John Lee Hooker e Green Onion dei Booker T. & The M.G.’s. Quando poi cercava di riportare le sue forti sensazioni epidermiche su carta, riceveva in cambio un semplice “Non lo so spiegare”. Il brano uscì come singolo nel dicembre 1964 negli USA e nel gennaio 1965 nel Regno Unito, quando il gruppo aveva appena ripreso il suo glorioso nome, scelto da Richard Barnes, compagno di stanza di Townshend all’Ealing Art College. C’era stata infatti una breve parentesi in cui la band si era esibita con il nome di The High Numbers, scelto dal loro primo manager Peter Meaden per identificarsi ancora meglio con il movimento Mod. Numbers infatti era il nome del gruppo di luogotenenti Mod impegnati a seguire ed aggiornare la moda). Riascoltandola adesso, sembra incredibile come possa suonare ancora attuale dopo 51 anni. Chiudo gli occhi e la immagino incisa nel 2015 dagli Arctic Monkeys, non ho dubbi che avrebbe un riscontro siderale…
Per un attimo la memoria torna indietro a quel giorno di novembre 2014, in cui navigando in rete mi ero imbattuto nella notizia che gli Who avrebbero suonato a Hyde Park per una delle ultime tappe europee del tour celebrativo dei loro 50 anni di carriera all’interno del British Summer Time. Il tour, con ogni probabilità, sarebbe stato l’ultimo di una lunghissima serie. Santi numi!!! Gli WHO!!! Una delle band più trascinanti ed importanti della storia del rock si sarebbe esibita nella città dove tutto era iniziato nel 1959 sotto il nome di Detours: Londra (città che amo in maniera irrazionale e sconfinata). The Who: semplicemente una delle band che prima o poi (certo, sarebbe stato meglio prima…) sarebbe NECESSARIO vedere dal vivo, anche se i due superstiti hanno all’incirca 70 anni e ormai da 13 anni manca del tutto la sezione ritmica a memoria più incredibilmente dirompente della storia della musica. Insomma, per farla breve, con la mente avevo già programmato tutto, e pochi giorni dopo aver letto la notizia in rete avevo già acquistato sia il volo aereo che il biglietto del concerto.
“Sul palco stavo sollevato sulla punta dei piedi e con le braccia tese imitavo un aereo in picchiata. Quando sollevavo la chitarra sopra la testa, mi sembrava di reggere il peso insanguinato di secoli infiniti di guerre insensate. Esplosioni, Trincee, Cadaveri . Il rock per me era infiammarsi dal vivo, spingersi oltre i confini usuali, fino al completo esaurimento” (Pete Townshend)
Questo era il credo di Pete Townshend nel 1965 a vent’anni, ed io avrei dato non so cosa per poter assistere ad uno di quei concerti incendiari della band, quando Roger Daltrey faceva roteare il filo del microfono vorticosamente, Townshend distruggeva rabbioso la sua chitarra dopo una serie infinita di salti, Keith Moon per puro spirito di imitazione distruttiva prendeva a calci grancassa e tom e John Entwistle era fermo immobile alla sinistra del palco come per dare stabilità al tutto. In quel periodo le loro storiche esibizioni nei festival più importanti dell’epoca, a Monterey nel 1967, a Woodstock nel 1969, all’Isola di Wight nel 1970, ed il famigerato Live at Leeds registrato il giorno di S.Valentino del 1970 (considerato all’unanimità uno dei migliori album dal vivo di tutti i tempi), avevano imposto il live act del gruppo nato ad Acton (ovest di Londra), come il più incredibile, energetico, fragoroso e coinvolgente del momento.
“Nel 1970, dopo Tommy, non riuscivo a trovare molte idee e stavo scrivendo canzoni per puro divertimento, tutti cercavamo di divertirci insieme anche lavorando come band. Forse è per questo che non compresi subito quanto di quel mio blocco creativo si riflettesse nei versi di The Seeker, una canzone di cui scrissi il testo ispirandomi a una persona incontrata realmente. Quel veterano del Vietnam dagli occhi spiritati che qualche anno prima degli Stati Uniti, aveva afferrato mia moglie Karen per un braccio e non voleva lasciarla andare…” (Pete Townshend)
“Focusing on nowhere
Investigating miles
I’m a seeker
I’m a really desperate man”
Nessuna pausa, nessuna possibilità di riprendermi dal flusso emozionale derivato dall’apparizione sul palco di uno dei gruppi più importanti per la mia formazione musicale, perché parte subito “The Seeker”. Come “I Can’t Explain”, è un altro di quei brani mai inseriti in un album ufficiale ma pubblicato esclusivamente come singolo, che riesce a trovare posto (meritatamente) in scaletta. Pete Townshend sembra stranamente calmo, rilassato, quasi felice, Roger Daltrey canta molto meglio di quanto mi aspettassi dopo i suoi recenti problemi alle corde vocali che gli avevano fatto saltare proprio gli show di Londra dello scorso dicembre. Invecchiato, certo, ma sempre appassionato mentre calpesta energico il palco come un animale in gabbia. Pino Palladino è al solito preciso e tecnicamente impeccabile (ma quanto manca la potenza di John Entwistle nell’economia della band), mentre il vero motore del gruppo è il figlio di Ringo Starr: Zak Starkey è infatti assolutamente irrefrenabile e sembra semplicemente essere l’unico sostituto possibile dell’insostituibile Keith Moon.
Roger Daltrey imbraccia l’acustica e parte “Who Are You”, riconosciuta naturalmente sin dal primo accordo, suonata perfettamente e seguita con trasporto da tutti, compreso chi conosce la band solo grazie alle sigle dei vari CSI. Ultimo rigurgito di un gruppo che all’epoca (1978) stava collassando, la canzone è stata scritta da Townshend in un momento di completa frustrazione riguardo al controllo delle sue royalties come autore e della situazione finanziaria della band in generale, e registrata nel momento forse peggiore del gruppo, con un Keith Moon ormai praticamente incapace di suonare decentemente in studio, presagio della sua morte, che avverrà poche settimane dopo l’uscita del disco omonimo. E mentre non si è ancora spenta l’eco della domanda posta da Roger “Who, who, who, who? Who are You?”, Pete per presentare la canzone seguente si rivolge proprio al suo vecchio compagno di mille avventure dicendogli:
“Questa canzone appartiene a te Roger”
Ed ecco arrivare “The Kids Are Alright”, corredata da un video che mostra le classiche Vespa e Lambretta modificate usate dai mods per le varie scorribande sulle strade di Londra e della costa britannica, sfondo perfetto per le armonie di quello che piano piano è diventato un inno del movimento insieme alla classica “My Generation”. L’immagine fissa sul megaschermo di quel gran cazzone che è stato Keith Moon strizzato in un corpetto nero che sembra uscito dall’epoca vittoriana, introduce un altro brano mai pubblicato all’interno di un album ufficiale ma uscito solo come singolo nel 1967: quella “Pictures Of Lily” eseguita dalla band con gran classe ed un po’ di nostalgia. Leggenda vuole che quella stessa foto fu scartata, fortunatamente, come possibile copertina di Who’s Next. Pete introduce la canzone così, parlando del passato mod e di un artista che si era esibito un’oretta prima sullo stesso palco:
“Se proprio volete saperlo, noi siamo adesso ovviamente troppo vecchi per essere Mods. Noi eravamo Mods, voi eravate Mods. Paul Weller ha avuto una parte importante nella nostra carriera. Con i The Jam ha riportato in auge l’interesse per i Mods e per la band in generale. Da quando ha lasciato i Jam ha intrapreso una splendida carriera solista restando fedele ai suoi principi. Questa canzone ce l’ha richiesta via email e la facciamo specialmente per lui. Non la facciamo da un po’ e forse farà schifo. Ma ci proveremo. Si chiama Pictures Of Lily“.
“La canzone voleva essere solo un commento ironico sullo squallore sessuale dello showbiz, in particolare della musica pop, un mondo di immagini da cartolina su cui ragazzi e ragazze potessero fantasticare. E’ storia nota che la versione definitiva di Pictures Of Lily parla di un ragazzo salvato dalle frustrazioni sessuali dell’adolescenza grazie al padre che gli regalava cartoline erotiche con cui masturbarsi.” (Pete Townshend)
“In uno dei tanti viaggi lontano da casa che facevo con gli Who, iniziai a convincermi che la mia nuova ragazza mi tradisse. Fu quel tipo di paranoia, di pensiero irrazionale, che mi spinse a scrivere I Can See For Miles, una delle mie migliori canzoni di quel periodo. Scrissi una prima versione del testo sul retro del mio memorandum presentato nella causa tra il nostro ex produttore Shel Talmy e la Polydor. Forse è per questo che la canzone, dedicata alla folle gelosia immaginaria di un cornuto, ha il tono inquisitorio di un’azione legale…” (Pete Townshend)
L’unico estratto da The Who Sell Out del 1967 è la splendida “I Can See For Miles”, suonata raramente dalla band nell’era Keith Moon, ma diventata recentemente intoccabile in scaletta. La canzone viene presentata così da Pete: “Molte persone qui probabilmente non erano neppure nate quando molte di queste canzoni che stiamo suonando adesso vennero scritte e registrate per la prima volta. La prossima canzone viene dal 1967, così con ogni probabilità ci saranno alcune persone che non erano state nemmeno concepite… Speriamo che la conosciate comunque. Questa è I Can See For Miles”. Il brano viene suonato in maniera estremamente intensa, cantata parola per parola dal pubblico, che con un occhio guarda la band sul palco mentre l’altro viene irrimediabilmente attratto dalle splendide immagini proiettate dietro ed ai lati del palco. Alla fine del brano Pete prende ancora il microfono ed urla:
“La prossima canzone è per la gente di qualunque età, qualsiasi posto, qualsiasi epoca, ovunque!”
Eccolo finalmente! L’inno dei mod dell’epoca!! Accolta da un boato già dalle prime note, “My Generation” è la canzone che lanciò gli Who nel 1965 verso una fama planetaria soprattutto per il verso finale del ritornello, quel “I hope I die before I get old” che tanto colpì l’immaginario dei giovani dell’epoca. Certo, i ragazzi cui la band si rivolgeva nella metà dei sessanta, quelli della classe operaia, non ci sono più, si sono dispersi, ma questo non impedisce alle persone di ogni età accorse ad Hyde Park di accendere fumogeni e torce e di ballare e cantare come se tutti quegli anni si fossero dissolti in un secondo. Quei ragazzi, saranno forse diventati dei settantenni borghesi agiati, e anche la stessa “My Generation” con ogni probabilità non ha più quel deflagrante impatto emotivo che aveva un tempo. Ma per un attimo tutti dimenticano il passato, compreso lo stesso Roger Daltrey, che riesce a trasformarsi per un attimo nel ragazzo ventenne che la cantava e la rende travolgente come sempre grazie anche al drumming incessante di Zak Starkey ed al basso pulsante di Pino Palladino. Il rock n’ roll ha passato momenti maledettamente duri e nel 2015 non se la passa benissimo, ma Pete la dedica alle persone di ogni età la performance è perfettamente sincronizzata con quel famoso film in bianco e nero girato dall’ex mentore del chitarrista e manager della band Kit Lambert, che vede i nostri esibirsi al Railway Hotel nel 1964, concerto diventato famoso perché proprio su quel palco Townshend distrusse (in quel frangente senza volerlo davvero) la prima di una lunga serie di chitarre.
“People try to put us d-down (Talkin’ ‘bout my generation)
Just because we g-g-get around (Talkin’ ‘bout my generation)
Things they do look awful c-c-cold (Talkin’ ‘bout my generation)
I hope I die before I get old (Talkin’ ‘bout my generation)”
Nei “titoli di testa” proiettati sui megaschermi prima dello show, la band ha chiesto espressamente a tutti di accendere i led dei telefonini e la fiammella degli accendini durante l’esecuzione di “Behind Blue Eyes”, primo estratto in scaletta di quel Who’s Next che rimane probabilmente il capolavoro del gruppo, anche se paradossalmente nato dalle macerie di un ambizioso progetto incompiuto chiamato Lighthouse, la più grande frustrazione di Townsend come autore. Infatti Pete non riuscì mai a realizzarlo se non pochi anni fa ed in forma completamente diversa da come era stato ideato e progettato. “Behind Blue Eyes” è uno dei capolavori nel capolavoro, una ballata che doveva esprimere il punto di vista del personaggio malvagio di Lifehouse, Jumbo, sempre incattivito e pieno di rabbia perché non riesce a reggere alle pressioni e alle tentazioni che lo circondano. La resa live è straordinaria, con lo stacco centrale elettrico che fa uscire fuori tutta la rabbia di Jumbo/Townshend, prima che le atmosfere si rilassino di nuovo. Questo concerto, questo evento, sarà filmato da una serie impressionante di telecamere e finirà in un DVD, Da un lato trovo la cosa fantastica, avrò la testimonianza di un vero e proprio evento a cui ho avuto la fortuna di assistere personalmente, dall’altra il timore è che tutto questo potrebbe rendere l’intera performance troppo morbida e perfetta quando si sa, i vecchi leoni ruggiscono più forte quando qualcuno o qualcosa da loro noia. Parte “Bargain” e l’atmosfera inizia a riscaldarsi con un’altra delle canzoni migliori di Who’s Next e tra le mie preferite in assoluto, presentata così da Townshend:
“La prossima canzone parla di come fare un patto con Dio. Probabilmente non una buona idea… E’ una delle prima canzoni che ho scritto nel periodo ’70/’71 per un progetto chiamato Lifehouse dove, ci crediate o no, avevo previsto l’arrivo di internet”
Facendo così esplicito riferimento alla sua opera mai realizzata che si trasformò in Who’s Next. “Bargain” è uno dei picchi del concerto, una straordinaria esecuzione estremamente emozionante con i due che si alternano alle parti vocali mentre i maxischermi mostrano la band negli anni ’70 aumentando, se possibile, il coinvolgimento emotivo. Subito dopo viene eseguita una canzone uscita solo come singolo nel 1972: quella “Join Together”, che doveva anch’essa far parte dell’ambiziosa opera Lifehouse. Le immagini che scorrono sullo sfondo e ai lati del palco focalizzano l’attenzione prima sulla band nei ’70 con effetti vintage, poi sulle 60.000 persone accorse a Hyde Park, che cantano all’unisono come richiesto esplicitamente da Daltrey prima del brano: “Se volete cantare, cantate questa canzone.”, ed è spettacolo puro!
“Nonostante la battuta d’arresto di Lifehouse, ero ancora convinto che in qualche modo avremmo potuto assorbire energia creativa dai nostri fan. Ci saremmo ritrovati in loro.” (Pete Townshend)
Arriva poi il momento di una delle canzoni più “recenti” del set, quella “You Better You Bet” tratta dal mediocre Face Dances del 1981, L’inizio degli ’80 è stato un periodo di grandissima crisi per il gruppo dopo la scomparsa di Keith Moon e la sua sostituzione con Kenney Jones degli Small Faces/Faces, batterista che non è mai andato troppo a genio musicalmente a Roger Daltrey pur essendo amico di tutti i componenti della band. Risulta difficile dar torto al cantante, che on stage non riusciva più a danzare sulla grancassa del drumkit come faceva un tempo. Abituati al rutilante Moon, il drumming di Jones sembrava rendere estremamente statico il suono degli Who. La realtà era un’altra: nessuno in quel momento avrebbe potuto prendere il posto del folle Moonie. In ogni caso la canzone dal vivo con il dinamico incedere dietro i tamburi dell’ottimo Zak Starkey non sembra poi così male e risulta persino divertente. Il tramonto e l’oscurità imminente rendono i giochi di luce sempre più maestosi. E’ il momento giusto per la parte del set dedicata alla storia di Jimmy il Mod: Quadrophenia. Pete Townshend riprende la parola:
“Ci sono così tante persone stasera! Siamo così grati a voi tutti per essere venuti qui, e non lo dico in modo retorico, sono davvero sbalordito, ed è meraviglioso! Gli Who sono diventati famosi per un’opera chiamata Quadrophenia, che parla di quando si hanno 16, 17, 18 anni: un’età complicata per chiunque. Questa è la prima delle due canzoni tratte da Quadrophenia che suoneremo stasera”
Poi imbraccia l’acustica per una splendida esecuzione di “I’m One” cantata dallo stesso chitarrista con l’apporto di Roger Daltrey all’armonica e cori, seguita da una commovente “Love, Reign O’er Me” introdotta meravigliosamente del pianoforte di John Corey, dove il vecchio leone da il meglio di se con un’interpretazione quasi perfetta, appassionante, eccezionale, con un timbro basso e profondo che sembra per un attimo addirittura stupire il suo vecchio compagno di viaggio.
“La regola che avevamo stabilito durante la registrazione di Quadrophenia era di non sopire mai la nostra rabbia musicale, così piena di energia. Non avevamo bisogno di brani usa e getta per dare un po’ di sollievo all’ascoltatore, non avevamo bisogno di luci e ombre, ironia o umorismo. L’urlo ferino di Daltrey sapeva trasmettere una straordinaria gamma di emozioni umane: la tristezza di chi avvizzisce, l’autocommiserazione, la solitudine, l’abbandono, la disperazione interiore, la perdita dell’infanzia oltre a emozioni più ovvie come la rabbia e la frustrazione, la gioia e il trionfo” (Pete Townshend)
Rimango estasiato dal finale di “Love, Reign O’er Me”, si riesce quasi a vedere Jimmy, il protagonista dell’album, mentre ruba una barca e raggiunge remando e tremando uno scoglio in mezzo al mare, gridando poi forte, angosciato e trionfante allo stesso tempo per essere stato in grado di riunire le sue personalità multiple. “Eminence Front” è il brano più recente dell’intero set, cantato da Pete Townshend sul palco come voluto dal produttore Glyn Johns durante la registrazione del canto del cigno di un gruppo che ormai di fatto non esisteva più: il debolissimo It’s Hard del 1982. Anche se il disco fu una cocente delusione, il brano rimane senza dubbio il migliore del lotto e dal vivo, grazie ancora alla dinamica batteria di Zak Starkey (che differenza con la percussività lineare e statica di Kenney Jones!), riesce ad essere un perfetto e trascinante “cuscinetto” prima che arrivi il climax del concerto.
E quel momento arriva quando la band ed il pubblico si infiammano con l’esecuzione incredibile e spettacolare dei brani estratti da Tommy. “Amazing Journey” si unisce con la parte finale di “Overture” prima di confluire in “Sparks” spargendo brividi ovunque. I 60.000 di Hyde Park cantano, rivivono per l’ennesima volta la storia del mago del flipper sordo, muto e cieco con incredibile trasporto. Tommy, pubblicato nel maggio del 1969, è stato il vero e proprio album della svolta, del cambio di marcia, della consapevolezza di essere autori (Townshend) e musicisti (l’intero gruppo) di assoluto livello. Lo stesso Townshend racconta nella sua autobiografia che Roger Daltrey, appropriandosi ed immedesimandosi nel bambino traumatizzato che dopo essere diventato mago del flipper riacquisisce la sua normalità rompendo lo specchio, riuscì a raggiungere la sua definitiva maturità come cantante ed interprete. Ormai è quasi buio e l’impianto luci insieme alle immagini proiettate dietro il palco creano, se possibile, un ambiente ancora più magico. Ma la vera magia viene dalle note provenienti dalla sei corde di Townshend che si piega, si impenna, decolla, improvvisa, sfidando Zak a stargli dietro. Il figlio di Ringo Starr (e figlioccio di Keith Moon) accetta le ostilità e a quel punto sembra davvero di fare un balzo indietro nel tempo quando Pete e Keith si guardavano fissi negli occhi duellando con gli strumenti e la spontaneità e il vigore dei quattro musicisti sul palco avevano reso gli Who la più grande macchina da guerra on stage del pianeta!
“Quando eseguivamo Tommy, spesso mi sembrava di perdere coscienza. Non ero fatto, o perlomeno non ero fatto di droghe. Ero concentrato. Erano le mie sostanze chimiche endogene (le endorfine, la dopamina, la serotonina e l’adrenalina) a procurarmi una scarica in corpo.” (Pete Townshend)
Che differenza con la scaletta del “modfather” Paul Weller (citato e ringraziato dagli Who prima dell’esecuzione di “The Kids Are Alright”), purtroppo imperniata quasi per metà sulle canzoni dell’ultimo (per me deludente) Saturns Pattern. Gli Who non eseguono alcun brano (per fortuna) dal loro ultimo “Endless Wire” risalente al 2006, e fanno esplodere di gioia feroce Hyde Park quando parte il riff iconico di “Pinball Wizard”. I 60.000 cantano in coro all’unisono come solo il pubblico britannico sa fare, ed io provo (con scarsi risultati) ad aggiungermi al coro. L’esecuzione è trascinante e perfetta, anche se il suono del basso di Pino Palladino, pur essendo un eccelso strumentista, non può risultare potente e fantasioso come quello di John Entwistle.
“That deaf, dumb and blind kid
Sure plays a mean pinball!”
A quel punto Roger Daltrey poteva benissimo vederci, sentirci, toccarci e guarirci, cantando quello che è l’inno conclusivo di Tommy: “See Me, Feel Me / Listening To You”, e l’esponenziale incremento emotivo del finale riesce a trasformare un gran concerto in un capolavoro trascinandoci tutti in un turbine di emozioni indicibili. Solo a ripensarci e a rivivere il tutto tramite i molti video che si possono trovare su YouTube (come questo) non provo vergogna a sentire ogni volta un groppo alla gola dalla commozione. Non riesco nemmeno ad immaginare cosa potrò provare quando tra pochi mesi uscirà il DVD.
“Listening to you, I get the music
Gazing at you, I get the heat
Following you, I climb the mountain
I get excitement at your feet
Right behind you, I see the millions
On you, I see the glory
From you, i get opinion
From you, i get the story”
A questo punto del concerto rimangono solo le ultime due canzoni del set: l’apertura e la chiusura del capolavoro Who’s Next. Quando parte l’intro di sequencer di “Baba O’Riley” la folla va in visibilio e avrei voluto che quel momento potesse durare per sempre:
“Don’t cry, don’t raise your eye
It’s only teenage wasteland”
L’urlo della folla di Hyde Park “Teenage Wasteland, It’s Only Teenage Wasteland” sale alto fino al cielo di Londra ormai scuro, ma che fino a poco prima aveva mostrato un tramonto mozzafiato. Fino a quando Roger Daltrey urla “They’re All Wasted!!!” e Pete strapazza la chitarra nella sua mossa tipica, facendo mulinare velocemente il braccio destro: mossa ispirata da Keith Richards e nata dietro le quinte di un concerto dei Rolling Stones a Putney nel dicembre del 1963 come racconta lo stesso Townshend:
“Mentre aspettava che il sipario si aprisse, Keith Richards si scioglieva le articolazioni facendo ruotare il braccio come la pala di un mulino a vento. Poche settimane dopo fummo ancora i supporter degli Stones al Glenlyn Ballroom e quando vidi che Keith non ripetè la mossa a pala di mulino, decisi che l’avrei fatta io.” (Pete Townshend)
Il finale della canzone ispirata già dal titolo a Meher Baba, guida spirituale dello stesso Townshend, è come sempre trascinante con un Daltrey letteralmente scatenato con la sua armonica. Tra le due canzoni viene presentata l’intera band: Simon Townshend (fratello minore di Pete) all’altra chitarra, John Corey e Loren Gold alle tastiere, il direttore musicale dello show (e ottimo polistrumentista) Frank Simes. Poi è la volta di Pino Palladino, presentato così da Pete:
“Siamo molto fortunati ad avere con noi questo fantastico bassista. John Entwistle aveva uno stile unico, ma penso che Pino adesso sia il miglior bassista del mondo”.
Arriva quindi il momento di presentare chi siede dietro i tamburi, e Pete racconta:
“Penso che abbiate visto molte foto di Keith Moon qui dietro. Ci è dispiaciuto così tanto vederlo andare via, ed ogni volta che vedo quelle foto mi manca terribilmente. Ma prima di andarsene, ha regalato una batteria a questo ragazzo quando aveva circa 10 anni. Così, questo ragazzo, ha studiato ai piedi del…non direi ai piedi del maestro…ma ai piedi del cazzone!”
Scatenando così l’ilarità di Hyde Park mentre presenta urlando Zak Starkey.
Inevitabilmente arriva il momento tanto agognato e temuto allo stesso tempo. Il momento della mia canzone forse preferita in assoluto della band dell’ovest di Londra, ed una delle mie preferite in assoluto, ma che sarà l’ultimo brano del concerto. Ci sono nella vita quegli attimi che provi a marchiare a fuoco sulla pelle e in ogni cellula del tuo corpo, momenti di enorme intensità emotiva come quando Pete urla rabbioso: “Sit up there!!!” facendo ruggire la sua chitarra, e facendo partire l’intro di sequencer di “Won’t Get Fooled Again” mentre gli schermi proiettano luci psichedeliche blu. Poi parte QUEL riff di chitarra che scuote e marchia a fuoco i 60.000 di Hyde Park.
“We’ll be fighting in the streets
With our children at our feet”
Il giusto finale di una giornata meravigliosa, una splendida versione del brano che chiude Who’s Next come meglio non si potrebbe, e che chiude un concerto memorabile di un tour chiamato The Who Hits 50!, quello del 50°anniversario di una band storica, che è passata attraverso ogni tipo di esaltazione e traversia. Resta solo il sequencer, mentre tutti aspettano le rullate di batteria, quasi come dovesse apparire quel pazzo di Keith Moon da qualche parte. Parte invece il figlioccio di Keith con un fill stratosferico seguito da quell’urlo pazzesco di Daltrey che conoscono perfino i fans di Csi:Miami. E finisce in gloria, con i ringraziamenti di rito e con il “Be lucky” di Roger Daltrey che fa esplodere Hyde Park per l’ultima volta.
Senza bis, come loro abitudine, si chiude quello che non è stato solo un concerto, ma un evento davvero memorabile. E se da un lato c’è il dispiacere che questa giornata pianificata per mesi sia ormai alle spalle, dall’altro, dopo settimane, ancora rimane fortissima dentro di me quella passione e quell’energia che pochi musicisti sanno fornire, e l’emozione e la soddisfazione di aver assistito ad un momento storico di una band storica. Nota a parte per l’organizzazione dell’evento: assolutamente perfetta!!! Dalla fila composta per l’ingresso al parco dalle ore 13 in punto (ingresso avvenuto in maniera facile, rapida ed indolore), agli stand di ristorazione, all’ingresso nella zona fronte palco che gli assistenti hanno fatto in modo di non stipare all’inverosimile come avviene in molti, troppi, eventi di casa nostra, permettendomi di uscire e rientrare nella zona a mio piacimento grazie al braccialetto apposito. Sui concerti a contorno degli Who cercherò di trovare il tempo di scrivere a parte. Della mezza delusione provocata dal set di Paul Weller ho già parlato in precedenza, ma mi piacerebbe approfondire anche gli show degli altri musicisti che ho visto esibirsi: Gaz Coombes (ex cantante dei Supergrass), Johnny Marr e Kaiser Chiefs sull’enorme Great Oak Stage e Sleaford Mods sul piccolo Summer Stage. In realtà sarei stato curioso di assistere anche alle performances di Vintage Trouble e The Rifles, ma il palco dove si esibivano era dall’altra parte del parco, e oltretutto (visto che Rifles e Sleaford Mods suonavano in contemporanea ai lati opposti di Hyde Park), sono stato costretto ad una scelta, che ha premiato la divertentissima, rabbiosa e energetica esibizione del duo punk-hop di Nottingham.
Poche, pochissime band sono riuscite ad attraversare mezzo secolo avendo ancora qualcosa da dire e riuscendo a scatenare tutta questa energia. Superando dissidi interni, pressioni esterne, problemi legali, crisi di ispirazione, tragici eventi, distruggendosi e ricreandosi, ma trovando sempre il modo per rialzarsi in qualche modo, e trovando dall’altra parte persone per cui a distanza di tanto tempo le loro canzoni e storie hanno ancora un significato profondo, provocando emozioni e sentimento. Tutto questo non si può spiegare a parole, è pura magia. Questi sono ancora oggi gli Who, ed il fatto di aver assistito finalmente, anche senza la più devastante e coinvolgente sezione ritmica dell’intera storia del rock, ad un loro concerto, nella loro città, rimarrà senza dubbio alcuno una delle più forti ed intense emozioni musicali della mia vita!
“Credo che il rock possa fare qualsiasi cosa. E’ il veicolo più potente in tutti i sensi. E’ il veicolo più potente per dire qualcosa, per distruggere tutto, per costruire tutto, per uccidere e ricreare. Ed è in assoluto il veicolo più potente per l’autodistruzione.” (Pete Townshend)
SETLIST:
1. I Can’t Explain (Single – 1965)
2. The Seeker (Single – 1970)
3. Who Are You (Who Are You – 1978)
4. The Kids Are Alright (My Generation – 1965)
5. Pictures Of Lily (Single – 1967)
6. I Can See For Miles (The Who Sell Out – 1967)
7. My Generation (My Generation – 1965)
8. Behind Blue Eyes (Who’s Next – 1971)
9. Bargain (Who’s Next – 1971)
10. Join Together (Single – 1972)
11. You Better You Bet (Face Dances – 1981)
12. I’m One (Quadrophenia – 1973)
13. Love , Reign O’er Me (Quadrophenia – 1973)
14. Eminence Front (It’s Hard – 1982)
15. Amazing Journey / Overture / Sparks (Tommy – 1969)
16. Pinball Wizard (Tommy – 1969)
17. See Me, Feel Me / Listening To You (Tommy – 1969)
18. Baba O’Riley (Who’s Next – 1971)
19. Won’t Get Fooled Again (Who’s Next – 1971)
CREDITS: Tutte le foto sono state scattate da me, eccetto le ultime due, tratte dal backstage blog del sito ufficiale thewho.com. Le frasi scritte in grassetto sono tratte dal libro Who I Am scritto da Pete Townshend e pubblicato nella collana Controtempo da Rizzoli Editore. Un ringraziamento particolare al mio amico Marco Provenziani che ha accettato di condividere con me questa follia…