“Dopo il successo di critica di Tommy si poneva un altro banco di prova alto come una montagna. E io dovevo superarlo, qualsiasi cosa gli Who avrebbero registrato in seguito. Sarei stato in grado di farlo? E se sì, cos’altro avrei dimostrato? Quale altra direzione stava per prendere la mia vita?” (Pete Townshend)
Quando Tommy venne pubblicato nel maggio del 1969, fu descritto da qualcuno come “Il primo capolavoro formale del rock”. Appena un anno dopo, il famigerato Live At Leeds registrato il giorno di San Valentino del 1970 nell’università della cittadina britannica, fu accolto come “Il definitivo olocausto dell’hard rock” e dopo ben 45 anni è tuttora considerato uno degli album dal vivo migliori di sempre. Alla luce di tutto questo non stupisce pensare quale momento d’oro stesse vivendo alla fine del 1970 il quartetto di Sheperd’s Bush. L’ingresso a pieno diritto del gruppo nel ristretto olimpo delle rockstar aveva portato all’interno della band una nuova consapevolezza. A rafforzare la loro posizione, in quell’anno i Rolling Stones stavano vivendo un momento di appannamento, mentre i Beatles si erano appena sciolti. Al contrario gli Who sembravano avere gli Dei dalla loro parte, o almeno così sembrava.
Tommy era stata la svolta, l’atteso cambio di marcia. L’attenzione del pubblico non era più rivolta verso il singolo da classifica, ma verso l’album nella sua interezza, e Pete Townshend era stato perfettamente in grado di capire ed interpretare questo nuovo desiderio da parte della gente, scrivendo una delle prime “opere rock” della storia. Ad onor del vero la prima in assoluto fu S.F.Sorrow dei The Pretty Things uscito nel dicembre 1968, mentre Arthur degli sfortunatissimi Kinks venne pubblicato solo nell’ottobre del 1969. L’opera rock non era un semplice concept album, ma una storia destinata anche ad un pubblico diverso da quello prettamente musicale come quello teatrale, televisivo o cinematografico. Roger Daltrey, facendo suo il personaggio del ragazzino cieco muto e sordo, aveva raggiunto la completa maturità come cantante ed interprete, John Entwistle e Keith Moon, nonostante gli eccessi sregolati della loro vita privata, erano sul palco una vera forza della natura, così diversi, (Entwistle immobile on stage come una quercia in mezzo ad un tornado, ma devastante nella sua nuova potente e tecnica interpretazione del basso elettrico, e Moon gigione assoluto con le sue continue gag ed il suo modo di riempire ogni varco sonoro con un nuovo colpo di bacchetta), ma allo stesso tempo una perfetta macchina da guerra, capaci di stemperare e di rendere pura forza elettrica sul palco anche gli eccessi autocelebrativi e tronfi della versione in studio di Tommy. Basti ascoltare il secondo CD dell’Edizione Deluxe del Live At Leeds, ristampato nel 2004, che propone tutta l’opera rock dal vivo sul palco dell’università per rendersi conto del livello incredibile raggiunto dai quattro.
Ma nonostante il consenso di pubblico e critica Townshend era estremamente inquieto. Era lui il compositore, stava a lui dimostrare ancora qualcosa di importante, confermarsi nell’olimpo degli Dei del rock’n’roll. Le sue emozioni si bilanciavano a fatica tra l’eccitazione per la sfida, e la paura di non essere in grado di comporre qualcosa che potesse essere allo stesso tempo nuova come Tommy, e potente come il Live at Leeds. Insomma, nonostante il suo ego, a volte all’allora venticinquenne compositore, superarsi sembrava un’impresa impossibile.
Nell’agosto del 1970, dopo lo show degli Who al festival dell’isola di Wight, Townshend iniziò a concepire l’idea di una nuova opera chiamata Lifehouse. Una storia ambientata in un cupo futuro dove l’ecosistema della Terra è ormai arrivato al collasso e i governi di tutto il mondo cercano di costringere la gente comune ad una specie di letargo forzato, facendola vivere solo di esperienze virtuali tramite il collegamento ad un sistema di computer chiamato la Griglia: insomma, una visionaria anteprima del mondo virtuale di internet. La musica dal vivo e la Lifehouse (unico luogo dove ognuno avrebbe potuto cantare la propria canzone in armonia con la terra) sarebbero state le uniche ancore di salvezza dal letargo. Nella sua visione, la liberazione viene messa in atto da un gruppo di disperati e nerd che, organizzando un concerto rock e creando una sinergia perfetta tra musicisti e pubblico, riescono ad hackerare la Griglia risvegliando tutti dal letargo. Anche qui, come in Tommy, sarebbe stato l’isolamento a portare alla trascendenza finale, ma ad un livello molto più alto di comprensione.
Seguendo l’idea di Lifehouse, il chitarrista cominciò a lavorare sempre più con i sintetizzatori, ma non riusciva a farsi seguire dal resto della band: “E’ come cercare di spiegare l’energia atomica ad un gruppo di cavernicoli!” sbottò un giorno con la moglie Karen dopo aver cercato di spiegare il concetto della sua nuova creazione al resto della band. Ma Townshend non si perse d’animo, registrò da solo i demo delle canzoni che avrebbero dovuto far parte dell’opera e aprì, con il resto della band, nel febbraio del 1971, lo Young Vic Theatre di Londra ad una serie di concerti/seminari dove i quattro avrebbero potuto suonare le nuove canzoni cercando lo stesso feedback del pubblico che era al centro della nuova opera. In realtà i seminari non ebbero affatto l’effetto e la reazione entusiastica voluta e spinsero il chitarrista verso una preoccupante deriva depressiva, visto anche il successivo allontanamento del produttore e mentore Kit Lambert dal progetto e dalla sfera affettiva di Townshend.
Ma lo stesso Kit Lambert tornò a sorpresa, invitando la band a registrare le nuove canzoni in uno studio di registrazione appena inaugurato a New York chiamato Record Plant. Visto l’entusiasmo della band per il viaggio e per il nuovo materiale, le registrazioni furono ottime, ma purtroppo Lambert era ormai palesemente schiavo delle droghe pesanti e una lite con lo stesso Townshend fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Il giorno seguente la band prese armi e bagagli e se ne tornò a Londra. Fortunatamente il gruppo riuscì a riallacciare i contatti con lo storico produttore Glyn Johns e riprese le registrazioni del nuovo album all’interno dei mitici Olympic Studios di Londra (attualmente riconvertiti in multisala cinematografica).
Furono programmati altri due concerti/seminari allo Young Vic ad aprile, ma dopo i primi due la band si rese conto che l’audience era lì non per interagire come era nelle loro intenzioni, ma per ascoltare “My Generation”, le nuove canzoni e per vedere come la band era in grado di distruggere gli strumenti a fine esibizione. Townshend fece un ultimo disperato tentativo per spiegare a Johns il concetto dietro a Lifehouse e per inserire i brani del nuovo disco seguendo la sequenza della sua storia, ma il produttore fu irremovibile: per lui la sequenza dei brani doveva essere diversa ed era assolutamente fondamentale per la resa musicale. Fu così che Glyn Johns mise l’ultimo chiodo sulla bara di Lifehouse.
A posteriori è buffo pensare che il miglior album degli Who e uno dei dischi rock più grandi di sempre sia nato in realtà da un fallimento. Due elementi chiave che erano dietro alla concezione musicale di Lifehouse si trovano su Who’s Next (questo il titolo scelto per la pubblicazione dell’album nell’agosto del 1971, titolo che ha il duplice significato di “il nuovo disco degli Who” e di “avanti il prossimo”): l’uso dei sintetizzatori e delle basi preregistrate, elementi che Townshend aveva tenacemente difeso e conservato e che vengono usati per la prima volta nel rock in modo assolutamente innovativo. La copertina dell’album, tra le più iconiche della storia del rock, mostra i 4 intenti a sistemarsi i pantaloni dopo aver pisciato su un monolite. Sembra che l’idea fosse venuta a Moon ed Entwistle (e a chi altri se no…) durante una discussione riguardante il famoso film 2001: Odissea Nello Spazio.
La copertina ed il retro, che immortalava i quattro dopo uno show a Leicester, non piacquero un granché a Townshend, anche se ebbe un notevole riscontro di critica e pubblico, ma era sicuramente una soluzione migliore dell’altra ipotesi di retro copertina che vedeva Keith Moon strizzato in un corpetto femminile. La foto fu fortunatamente scartata, ma campeggia tuttora sui megaschermi durante l’esecuzione live di uno di quei singoli che non ha mai trovato posto in scaletta negli album ufficiali della band: “Pictures Of Lily”.
L’album si apre proprio con il sintetizzatore in primo piano di “Baba O’Riley”, (brano che già dal titolo omaggia sia il guru spirituale di Townshend, Meher Baba, che il compositore minimalista Terry Riley). Una delle canzoni più conosciute del gruppo, che contiene già tutta la fluidità, la dinamicità e la tensione che si trova seguendo ogni solco dell’album, la canzone verrà scelta anche come sigla di CSI:NY, secondo spin-off della famosa serie televisiva CSI. Mentre il sintetizzatore è ancora impegnato a rincorrersi ecco partire in sequenza il piano dello stesso Townshend, il basso poderoso di Entwistle e lo stacco perentorio della batteria di Moon che, insieme all’energia chitarristica di Townshend, fanno decollare il brano che diventa puro inno anthemico quando Daltrey inizia a cantare:
“Out here in the fields I fight for my meals.
I get my back into my living.
I don’t need to fight to prove I’m right
I don’t need to be forgiven
Don’t cry. Don’t raise your eye. It’s only teenage wasteland”
Le acrobazie ritmiche di Moon sono, allo stesso tempo, precise e poderose, Daltrey ormai sembra aver raggiunto la piena consapevolezza delle sue capacità vocali, Entwistle è senza dubbio il miglior bassista rock per distacco e Townshend è assolutamente perfetto nel suo vigore chitarristico. Il finale è incredibilmente trascinante con il violino di Dave Arbus degli East Of Eden che porta tutti per mano, accelerando il ritmo, al centro di una giga forsennata.
“Bargain” inizia lentamente ma si dimostra presto un numero di rock impetuoso. Si rimane sempre sconcertati ad ascoltare la ritmica di Moon che, come al solito, non si accontenta di tenere il ritmo, ma riesce ad andare dietro come un pazzo a chitarra e basso. L’intermezzo è perfetto per rilassare le membra prima che l’elettricità torni più forte di prima. “Love Ain’t For Keeping” è la canzone più breve del lotto e vede un Townshend impeccabile all’acustica, una traccia quasi country folk che faceva parte anch’essa della scaletta di Lifehouse. “My Wife” è un brano composto e cantato da John Entwistle che qui si diletta anche nel suonare il piano e i fiati. Il brano venne scelto curiosamente come B-Side del 7″ di “Baba O’Riley”. “The Song Is Over” chiude la prima facciata dell’album e originariamente era anche la canzone che chiudeva l’intero Lifehouse. Una ballata condotta dal piano di Nicky Hopkins (pianista e tastierista che ha suonato in moltissimi album dei più famosi gruppi dei ’60 e ’70 tra cui Kinks, Beatles e Stones), e che vede curiosamente Townshend cantare i primi versi.
“I’ll sing my song to the free, to the free”
La parte centrale vede anche il ritorno del sintetizzatore e il solito scatenato Moon che chiude il brano da par suo. La seconda facciata si apre con “Getting In Tune”, anch’essa introdotta dal piano di Nicky Hopkins ed il basso di Entwistle prima che il cantato ricco di pathos di Daltrey faccia decollare il pezzo, il finale ha il sapore della jam psichedelica con tutti i musicisti letteralmente scatenati.
“Getting in tune to the straight and narrow.”
La successiva “Going Mobile” vede ancora il cantato di Townshend. Unica canzone registrata senza l’apporto di Daltrey, era uno dei momenti più leggeri del concept di Lifehouse, che descriveva la felicità nel possedere una casa mobile.
“I don’t care about pollution I ‘m an air-conditioned gypsy
That’s my solution. Watch the police and the taxman miss me. I’m mobile”
“Behind Blue Eyes” è uno dei capolavori nel capolavoro, una ballata che doveva esprimere il punto di vista del villain di Lifehouse, Jumbo, sempre incattivito e pieno di rabbia perché non riesce a reggere alle pressioni e alle tentazioni che lo circondano.
“My love is vengeance, that’s never free”
Un arpeggio fantastico, un Daltrey da fantascienza, uno stacco centrale elettrico che fa uscire fuori tutta la rabbia di Jumbo, prima che le atmosfere si rilassino di nuovo.. Eh si, Jumbo crede davvero di essere un fondo un bravo ragazzo…
“No one know what is like to be the bad man, to be the sad man
Behind blue eyes”
E si arriva così senza fiato al gran finale. Alla canzone che chiude tuttora tutti i concerti degli Who. Una delle canzoni più belle, energetiche e trascinanti della intera storia del rock. Introdotta dal sintetizzatore ed innescata da uno stratosferico e inarrestabile Keith Moon. Come descrivere altrimenti “Won’t Get Fooled Again?” All’interno potete trovare tutto quello che si può chiedere ad una vera canzone rock: energia, forza, carisma, tensione, una chitarra che si danna senza sosta, una batteria martellante, potente e creativa, un basso roboante, una voce maestosa, un ritornello capace di diventare un inno anthemico, un intermezzo di sintetizzatori che riesce a creare una suspence elettrizzante prima che arrivi una delle rullate più celebri della storia alla fine del quale l’urlo di Roger Daltrey è quanto di più liberatorio possa esserci.
“I’ll tip my hat to the new constitution
Take a bow for the new revolution
Smile and grin at the changes all around
Pick up my guitar and play
Just like yesterday
And I’ll get on my knees and pray
We don’t get fooled again”
Cosa rimane da dire su un album simile? Alcune versioni rimasterizzate sono davvero degne di nota: quella su CD del 1995 contiene alcune tracce registrate nelle prime sessioni al Record Plant di NY tra cui quella “Pure And Easy” che doveva essere la canzone cardine di Lifehouse come “Amazing Journey” lo era stata per Tommy e la prima versione di “Behind Blue Eyes“, più un paio di tracce registrate live allo Young Vic nell’aprile del 1971. Ma la ristampa più completa è sicuramente la Deluxe Edition uscita nel 2003 nella doppia versione 2 CD o 3 LP comprendente ben 14 canzoni registrate live allo Young Vic e 6 tracce delle prime registrazioni al Record Plant.
Who’s Next in definitiva rimane il capolavoro di una band leggendaria, un album registrato con una qualità sonora impensabile a quei tempi da quattro musicisti al top della loro forma. un equilibrio perfetto tra hard rock, rock classico, espedienti sonori innovativi ed un inaspettato romanticismo, composto da canzoni superbe, insuperate ed insuperabili. Può bastare per invitarvi a riscoprirlo?
“Dopo l’uscita di Who’s Next divenni più irritabile che mai, ma mi ripresi quando mi accorsi che in qualche modo Glyn Johns aveva compiuto un miracolo mettendo insieme un album coerente partendo dalle macerie di Lifehouse. Era il primo vero e proprio disco di inediti degli Who dopo tanto tempo.” (Pete Townshend)
WHO’S NEXT (1971 – Track Record):
01. Baba O’Riley 5:09
02. Bargain 5:34
03. Love Ain’t For Keeping 2:11
04. My Wife 3:41
05. The Song Is Over 6:41
06. Getting In Tune 4:50
07. Going Mobile 3:43
08. Behind Blue Eyes 3:39
09. Won’t Get Fooled Again 8:38