Ecco il quindicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete alcuni ripescaggi importanti, un paio di novità dalle traiettorie inconsuete e altre meraviglie sparse.
Eccoci di nuovo puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questi 77 minuti di musica parleremo del 33° anniversario di un disco epocale come Spiderland degli Slint e faremo un piccolo excursus nella carriera di Steve Albini dai Big Black agli Shellac (che torneranno tra un mese con un nuovo album), per poi riascoltare il capolavoro pop psichedelico dei The Flaming Lips. Ci sarà anche il grande ritorno di Nick Saloman con i suoi The Bevis Frond, la riscoperta di quello che probabilmente è l’apice del percorso di Cat Power e un tuffo negli anni 80 con il personale Paisley Underground dei Thin White Rope e il post punk californiano ma dal profumo europeo di Abecedarians e Fourwaycross. Riascolteremo la voce profonda e ricca di emozioni di Mark Lanegan prima di ripercorrere le traiettorie italiane di Hugo Race e tuffarci nella redenzione di Jim White. Il gran finale sarà appannaggio delle straordinarie suggestioni canterburyane di Robert Wyatt e del nuovo lavoro di una delle migliori cantautrici di questa generazione: Julia Holter. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast parlando di un album che ha appena compiuto la bellezza di 33 anni, e che è uno dei dischi più importanti e influenti pubblicati negli anni ’90. «Sfortunatamente ‘Spiderland’ è il canto del cigno degli Slint, che come tanti gruppi non hanno saputo resistere alle pressioni interne tipiche della vita di ogni band. Ma è un disco fantastico, che chiunque sappia ancora farsi coinvolgere dalla musica rock non dovrebbe perdere. Tra dieci anni sarà una pietra miliare e bisognerà fare a botte per comprarne una copia. Battete tutti sul tempo». Così scriveva profeticamente Steve Albini sul Melody Maker (il più antico magazine musicale del mondo, che dal 2000 in poi si è unita con il NME diventando da qualche anno una pubblicazione esclusivamente online), ed aveva perfettamente ragione.
Spiderland degli Slint, dopo essere uscito quasi sottotraccia nel 1991, è stato presto travolto dall’onda in piena del grunge. Il tempo fortunatamente saprà essere galantuomo, e l’album resterà sempre lì, a galla, come i componenti del gruppo nella famosa foto di copertina scattata da Will “Bonnie Prince Billy” Oldham. Spiderland saprà essere a suo modo estremamente influente nei suoni a venire, per il suo modo di scardinare tutti i dogmi del rock così come era conosciuto fino a quel momento: dall’abbattimento della strofa-ritornello al cantato recitativo apparentemente privo di emozione. I timbri armonici della chitarra di David Pajo, il contrappunto dell’altra chitarra di Brian McMahan (ex Squirrel Bait), la batteria ottundente e matematica di Britt Walford, l’ipnotico basso di Todd Brashear e la voce dello stesso McMahan a cucire il tutto, ora recitativa, ora isterica. Ascoltate “Breadcrumb Trail” per essere trasportati all’interno del vortice di un suono che sarà di fondamentale importanza per il rock degli anni ’90.
Steve Albini è stata una figura chiave di un certo tipo di intendere il rock. Personaggio importante sia come musicista che dietro alla consolle in veste di produttore. Albini, di chiara origine italiana, ha iniziato nel 1981 a creare il suo suono tanto claustrofobico quanto dirompente con i Big Black, per continuare qualche anno più tardi con i Rapeman. Dopo lo scioglimento di questi ultimi, Albini nel 1989 ha deciso protestare platealmente contro l’industria discografica delle major, colpevole, secondo lui, di ingannare e sfruttare finanziariamente i propri artisti. Pur bloccandosi come musicista per qualche anno, Albini non ha mai smesso di regalare il suo tocco abrasivo a moltissime band che lo hanno ingaggiato come sound engineer.
Quando però ha deciso di tornare nelle vesti di musicista lo ha fatto in grande stile, con un nuovo gruppo, gli Shellac, ed un album come At Action Park. Nel frattempo non era rimasto con le mani in mano collaborando con gli stessi Fugazi, gli Slint, i Jesus Lizard. At Action Park è un tornado che risucchia vorticoso tutto quello che incontra, violento e matematico allo stesso tempo, un suono che implode nel nulla anziché esplodere, come dimostra “My Black Ass”. Il basso di Bob Weston, la chitarra di Albini, e la batteria di Todd Trainer si fanno beffa della fisica diventando rispettivamente massa, velocità e tempo, controllando il suono e spezzettandolo magistralmente a loro piacimento. A sorpresa, il gruppo ha annunciato l’uscita di un nuovo album dopo dieci anni di silenzio. Il sesto disco del gruppo di Chicago si intitolerà To All Trains, e verrà pubblicato come sempre dalla Touch and Go il 17 maggio 2024.
Abbiamo parlato già in abbondanza di come Steve Albini sia tuttora uno dei personaggi più importanti ed influenti dell’intera storia del rock indipendente americano, e non solo. Chitarrista, autore, produttore, ingegnere del suono, critico musicale. Leader di Rapeman, Shellac, produttore di Nirvana, Pixies, Sonic Youth, PJ Harvey, Fire! e chi più ne ha più ne metta. Aspro critico dell’industria musicale che ha sempre combattuto dall’interno, ha lavorato a più di 1500 album, anche se non tutti apprezzano il suo modo di registrare il suono dietro al mixer.
Albini ha fondato i Big Black nel 1982 pubblicando il primo album, Atomizer, quattro anni più tardi insieme all’altro chitarrista Santiago Durango e al bassista Dave Riley. L’uso abrasivo e aggressivo delle chitarre, l’uso della drum machine e il canto brutale di Albini con i testi spinti a violare tabù e altri argomenti controversi come omicidi, stupri, abusi sessuali sui minori, incendi, razzismo e misoginia, sono le caratteristiche che li hanno resi imprescindibili. Ascoltate “Kerosene” per capire l’importanza della band negli anni a venire.
Voi malcapitati che seguite i miei podcast su Radio Rock The Original conoscete bene la mia predilezione per i Flaming Lips da Oklahoma City. Wayne Coyne, Steven Drozd e Michael Ivins non hanno mai smesso di sperimentare, di cambiare pelle, di giocare a modo loro sia con il pentagramma che con tutto quello che gli ruota attorno. Questa è sempre stata (forse) la loro dannazione e (sicuramente) la nostra benedizione. Un calderone istrionico che abbracciava all’inizio la psichedelia pura, ma che non ha mai disdegnato di confrontarsi con diversi altri stili musicali. Dai giochi sul palcoscenico con le mani giganti (recentemente rubate e poi ritrovate), il supermegafono, la bolla di plastica dentro la quale Wayne Coyne si muove sul pubblico, i giochi pirotecnici, i milioni di coriandoli, fino alle sperimentazioni sul suono stesso della band con i famosi “parking lot experiments”, ovverosia 40 cassette create dal gruppo che dovevano essere suonate contemporaneamente all’interno di un parcheggio.
Insomma, i Lips ci hanno sempre disegnato una O di meraviglia sulle labbra non solo per la loro musica ma anche per le loro trovate geniali. Alla fine degli anni ’90 Coyne, Drozd e Ivins tentano l’ennesima virata, stavolta verso il pop, naturalmente declinato a modo loro. Nel 1999 The Soft Bulletin mostra un gruppo attento a comporre melodie più tradizionali e orecchiabili, una sorta di pop acido ma più accessibile, mentre il loro precedente album Zaireeka era un quadruplo album di suoni sperimentali destinati a essere riprodotti su quattro impianti stereo separati contemporaneamente. Anche i testi si fanno più seri e riflessivi senza abbandonare le atmosfere psichedeliche e la vena surrealista. La produzione di Dave Fridmann e gli arrangiamenti orchestrali, avvicinano i Lips ai Mercury Rev, ma il tipico vezzo di giocare con il pop di Coyne lo rende davvero un esperimento riuscito. La dolce psichedelia di “Feeling Yourself Disintegrate” è stata la mia scelta per rappresentare l’album.
Parliamo adesso di cantautorato al femminile. Ho voluto inserire in scaletta un’assoluta eccellenza come Chan Marshall, più conosciuta con lo pseudonimo di Cat Power. Uno dei talenti più cristallini degli anni novanta, carattere introverso, muove i primi passi nel mondo della musica dopo essersi trasferita a New York City. Dopo un paio di lavori di riscaldamento, il suo modo malinconico e ruvido di esporsi trova compimento nel 1998 con lo splendido Moon Pix, registrato in Australia con Jim White e Mick Turner dei Dirty Three. Cinque anni più tardi, Cat Power da alle stampe il suo capolavoro assoluto, You Are Free, un disco dove anche le collaborazioni “ingombranti” di Dave Grohl, Warren Ellis e Eddie Vedder non intaccano le atmosfere oniriche e malinconiche interpretate dalla Marshall.
13 brani tra folk e indie rock, country e soul, dove Cat Power riversa racconti autobiografici e rilegge pagine importanti della storia della musica come “Crawlin’ Black Spider” di Johnny Lee Hooker, per l’occasione rinominata in “Keep On Runnin”. Uno dei vertici del disco è la trascinante “Speak For Me”, dove l’artista si fa aiutare dal basso e dalla batteria di Dave Grohl. Lo scorso anno Chan Marshall ha fatto uscire Cat Power sings Dylan: The 1966 Royal Albert Hall Concert, dove l’artista ha eseguito per intero il set che Bob Dylan suonò nell’omonima location il 26 e il 27 maggio del 1966.
Come sapete, The Bevis Frond sono la creatura di Nick Saloman, prolifico chitarrista, cantante e songwriter dal talento unico che nel corso degli ultimi 40 anni ha pubblicato quasi 30 album e svariati singoli ed EP, facendo diventare la sua creatura una band di culto in tutto il mondo. Nick ha sempre perseguito un percorso musicale tutto suo ed originale, ispirandosi tanto alla scena alternative, indie e college quanto ad un sound che, secondo le sue intenzioni, doveva essere figlio di un’ipotetica triade formata da Hendrix, Wipers e Byrds. Nick Saloman è anche il soggetto di un nuovo film documentario intitolato Little Eden che racconta la straordinaria storia della band con una colonna sonora tratta dal loro catalogo che copre quattro decenni.
Il nuovo album, come ormai consuetudine per gruppo di Walthamstow, si compone di ben settantacinque minuti spalmati su diciannove tracce, dove Saloman e i suoi sodali, Paul Simmons (chitarra), Louis Wiggett (basso) e David Pearce (batteria), dipingono melodie che abbracciano la psichedelia degli anni ’60, il folk inglese, l’art-punk di Seattle, esplorazioni chitarristiche Hendrixiane. Una consuetudine che miracolosamente riesce a non annoiare mai, come nel nuovo Focus On Nature, Il loro 27° album in studio, il terzo con la Fire Records. Un album che parla del futuro del nostro pianeta, di natura, inquinamento, guerre e crisi climatica, e da cui ho tratto un’oscura visione dell’austerità del dopoguerra intitolata “Leb Off”.
Se il Paisley Underground è stato un importante movimento nato all’inizio degli anni ’80 sulla costa Ovest degli Stati Uniti caratterizzato da una riscoperta e dalla attualizzazione del suono psichedelico, i Thin White Rope capitanati dal cantante/chitarrista Guy Kyser e dal chitarrista Roger Kunkel, ne hanno espresso una originale variante che si discostava dai gruppi dello stesso periodo ed accomunati all’interno della stessa scena. I due leader, irrequieti già nei continui cambiamenti di sezione ritmica, hanno sempre inseguito una visione personale, dalle liriche introspettive, dagli incroci chitarristici dal grande impatto, dalla polverosa identità desertica.
Il loro esordio discografico risale al 1985 e si intitola Exploring The Axis, che mette subito in chiaro la visione di Kyser e compagni, la solitudine dell’individuo in grandi spazi aperti, filosofia sviluppata subito dalla splendida cavalcata impazzita di “The Real West”. Successivamente il gruppo tenterà un approdo verso le major mantenendo l’integrità di scrittura e pubblicando l’ottimo Sack Full Of Silver nel 1990, ma finirà, purtroppo, schiacciato dal grunge e da altre mode che di fatto li costringeranno a sciogliersi, privando il grande pubblico del loro enorme fascino malinconico e irrequieto.
Gli Screaming Trees sono sempre stati associati alla scena grunge di Seattle, ma in realtà venivano da Ellensburg, 170 chilometri dalla città più grande dello stato di Washington, e a renderli in qualche modo “diversi” c’era l’amore di Mark Lanegan per le band degli anni ’60 che aveva dato vita ad una profumata mistura di psichedelia, folk e hard rock che forse non ha prodotto i risultati sperati in termini commerciali ma che è sempre stata estremamente piacevole e decisamente sopra la media qualitativa. Lanegan però ha probabilmente raggiunto il suo apice compositivo nel corso della sua carriera solista, iniziata nel 1990 con The Winding Sheet, album in cui iniziava a volersi smarcare dai paletti che ormai, nel bene o nel male, identificavano il suo gruppo.
La sua voce “maltrattata”, sepolcrale, profonda, riconoscibile, ha trovato una strada importante e decisiva con il seguente Whiskey For The Holy Ghost, un disco scritto e registrato nei ritagli di tempo consentiti dal fitto calendario degli Screaming Trees. L’album doveva essere una rapida esperienza di registrazione, invece si è protratta per quattro anni in cui Lanegan ha riscritto, riregistrato e mixato continuamente i brani secondo una sensibilità interna, chimicamente incrinata dall’uso di droghe, che a volte sfiorava la paranoia. Insieme al sodale Mike Johnson (Dinosaur Jr.), Lanegan è riuscito ad esprimere la sua disperazione, affrontando i suoi demoni e dandogli voce tra un’ubriacatura e una sigaretta, trasformando il country blues in un’esperienza personale di incredibile intensità emotiva, come nella rauca “Dead On You”. Gli abusi al suo fisico e il Covid avevano ridotto quell’omone di un metro e novanta a una sorta di spettro, i giorni tra la vita e la morte raccontata nel libro “Devil In A Coma”, l’ennesima disintossicazione, una lenta ripresa dopo essersi trasferito con la moglie Shelley Brien a Killarney, in Irlanda, ci aveva fatto sperare che fosse invincibile. Ma il 22 febbraio di due anni fa, ecco arrivare la notizia che temevamo.
Anche questa volta torna la ormai leggendaria rubrica “dischi che non ricordavo di avere”. Stavolta ad avere l’onore di comparire nella rubrica è un artista a suo modo assolutamente importante che è ormai di casa nella nostra penisola. Hugo Race è nato nel 1960 a Melbourne, e dopo aver fatto parte della scena musicale post-punk australiana viene reclutato da Nick Cave per far parte della primissima formazione dei suoi Bad Seeds, con cui incide From Her To Eternity pubblicato nel 1984. Dopo il primo tour mondiale con i Bad Seeds, Hugo lascia Cave e torna a Melbourne per creare i The Wreckery insieme a Edward Clayton-Jones. Alla fine degli anni ’80 si trasferisce in Europa, prima a Londra e poi a Berlino Ovest, dove pubblica cinque album a nome Hugo Race & The True Spirit.
Da sempre innamorato dell’Italia, Race si è trasferito nel 1999 a Catania, iniziando a costruire uno stretto rapporto con la scena musicale underground italiana (La Crus, Afterhours, Cesare Basile, tanto per citarne alcuni), prima di trovare una perfetta sinergia con il gruppo romagnolo Sacri Cuori. Proprio con l’apporto di Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli è nato nel 2010 il disco Fatalists (da cui ho tratto “Too Many Zeroes”), il cui titolo ha dato origine alla band (Hugo Race Fatalists) con cui ha registrato cinque album che mostrano l’amore comune per la riscoperta della tradizione e le suggestioni cinematografiche. Nel 2007, Hugo si è unito al cantautore americano Chris Eckman (The Walkabouts) per creare i Dirtmusic, gruppo che mostra una voglia incessante di esplorare strade nuove e culture diverse.
Negli anni ’80 in California, hanno mosso i loro primi passi gli Abecedarians. La band si era formata nel 1983 a Newport Beach, California, grazie all’incontro tra Chris Manecke (voce, chitarra e tastiere), Kevin Dolan (batteria) e John Blake (basso). Il gruppo aveva esordito in versione live calcando il palco di un club chiamato Concert Factory. Il locale era conosciuto come Cuckoo’s Nest dal 1978 al 1981 e aveva un’ottima reputazione come uno dei migliori locali punk in circolazione. Questi concerti ebbero una discreta risonanza, tanto che il loro primo singolo “Smiling Monarch” venne addirittura prodotto da Bernard Sumner dei New Order e pubblicato dalla storica Factory Records di Manchester, tanto per rimarcare le coordinate sonore del trio californiano.
L’album di esordio Eureka, anche se non molto lungo, mostra l’energico post-punk della band, condotta magistralmente dal synth e dalla chitarra di Manecke come potete ascoltare nella splendida “Ghosts” inserita in scaletta. Dopo un secondo album uscito due anni dopo nel 1988, la band si sciolse definitivamente. Eureka è stato ristampato recentemente con l’aggiunta di alcuni brani inediti grazie all’intervento del sempre prezioso Bruce Licher che nel 1990 ha pubblicato per la sua etichetta Independent Project un doppio 10″ con alcuni brani inediti.
Loro sono un altro gruppo finito prematuramente nell’oblio, ma che è tornato attivo, con mia grande sorpresa, da qualche anno. Siamo a Los Angeles nel 1984 quando il cantante chitarrista Tom Dolan incontra il batterista Biff Sanders e decide di dar vita ad una band che possa esprimere la sua personale idea di post-punk. Con l’innesto della chitarra e del flauto di Courtney Davies e del basso e synth di Steve Gerdes ecco pronta la prima formazione dei Fourwaycross. Un primo album uscito solo su cassetta e un album l’anno successivo per mostrare la propria idea di band post-punk scuro, una mutazione americana del sound di gruppi come Killing Joke, Gang Of Four o Joy Division. L’anno successivo Dolan lascia la band sostituito da Beth Thompson, cambio che muta le linee guida della band portandola verso un suono meno scuro e più disteso.
Il gruppo inciderà altri due album con Brad Laner come chitarra aggiuntiva prima di sciogliersi definitivamente nel 1991. Anche qui troviamo lo zampino del grande Bruce Licher (Savage Republic, Scenic), padre della trance californiana e proprietario della Indipendent Project Records, che nel 1993 ha pubblicato per la sua etichetta Pendulum, un breve riassunto (10″ + 7″) del loro materiale inedito composto dal 1984 al 1990. “There’s A Place”, scritto da Dolan, è uno di quei brani incisi ad inizio carriera, manifesto di una band dal sound unico che ha avuto la capacità di mantenere la propria integrità continuando allo stesso tempo a ridefinire la loro musica.
Continuiamo il podcast con un’artista cui devo le mie scuse. Nel taggare lo scorso podcast sulla mia pagina Facebook, avevo erroneamente confuso il Jim White batterista dei Dirty Three con l’omonimo songwriter nato in Florida, che, in maniera molto carina, mi ha fatto notare l’errore. Rimedio subito, visto che il suo album uscito a fine 2017 aveva saputo colpirmi al cuore così tanto da inserirlo al volo nella mia personalissima Playlist annuale. Jim White incide dal 1997 canzoni estremamente classiche, peccatore folgorato sulla via di Damasco che rielabora in chiave moderna le sue radici country e hillbilly. Waffles Triangles and Jesus è un album composto da dodici canzoni scintillanti che sanno essere tanto tradizionali quanto moderne.
White si è divertito a creare questi ibridi di musiche antiche con testi moderni, e le sue storie di peccati e redenzioni, di dolori e di rinascite sono sempre in grado di coinvolgere e commuovere. Il disco, il suo sesto registrato in studio, è uno dei più riusciti e coinvolgenti. D’altra parte uno che, tra i tanti mestieri praticati, ha guidato il taxi a NYC per 13 anni di storie da raccontare ne deve avere parecchie. White ama attingere a piene mani dal patrimonio musicale storico americano ponendosi al crocevia tra cultura, musica, e fede religiosa. Tra momenti malinconici ed altri più estroversi e pop il disco si mostra sempre vitale e piacevole. “Here I Am” non è solo un mettersi a nudo ma semplicemente una della canzoni più belle e trascinanti pubblicate nel corso del 2017.
Lui è stato semplicemente uno dei più straordinari artisti degli anni ’70. Nato a Bristol ma trasferitosi da piccolo a Canterbury, Robert Wyatt assorbì l’amore del padre per la musica jazz condividendola con i suoi compagni di scuola. Amici come Brian e Hugh Hopper, Mike Ratledge e Dave e Richard Sinclair, cui si aggiunse qualche anno dopo prima Daevid Allen, un curioso musicista e studente d’arte proveniente dall’Australia, poi un cantante e polistrumentista chiamato Kevin Ayers. L’influenza di Allen, di sette anni più “vecchio”, fu enorme per il giovane Wyatt, che di li a poco si mise dietro ai tamburi formando i Wilde Flowers con Ayers alla voce, Hugh Hopper al basso, Richard Sinclair alla chitarra ritmica e Brian Hopper alla chitarra e sax. Il gruppo non pubblicò nulla, ma fu la pietra angolare della cosiddetta scena di Canterbury. Dopo lo scioglimento dei Wilde Flowers, i fratelli Sinclair, più attratti dalle melodie, formarono i Caravan, mentre Wyatt, Allen, Ayers e Ratledge fondarono i Soft Machine. Alla fine degli anni ’60 Ratledge era diventato leader di una band che a Wyatt cominciava a star stretta. Il batterista aveva già fatto uscire il suo primo album solista (lo splendido The End Of An Ear) e aveva formato una nuova band, i Matching Mole quando, il 1 giugno 1973, durante la festa di compleanno di Gilli Smyth, frontsinger dei Gong e compagna di Allen, ebbe l’incidente che gli cambiò la vita.
Il suo intento era quello di fare uno scherzo agli invitati: uscire da una finestra, camminare per qualche metro sul tetto della casa, e rientrare dal vano scale fino all’ingresso. Ma non aveva fatto i conti con la percezione sensoriale compromessa dall’alcool. Bastò un piede in fallo sul tetto per provocare una devastante caduta dal terzo piano. Il risultato fu quasi più benevolo di quanto avrebbe potuto essere: qualche mese di ospedale e la paralisi dalla vita in giù. Lo stesso Wyatt commento così l’incidente: “Il dottore era stupefatto. Mi disse: ‘Doveva essere proprio ubriaco per rimanere così rilassato mentre cadeva dal terzo piano’. Se fossi stato appena un po’ più sobrio, probabilmente oggi non sarei qui: avrei teso tutto il corpo per la paura e quindi mi sarei fracassato.”
Come facilmente immaginabile, l’idea di vivere su una sedia a rotelle ebbe un effetto notevole sulla psiche di Wyatt, che iniziò a vagare ondivaga dalla speranza alla depressione. Wyatt aveva già scritto alcune canzoni per il terzo album dei Matching Mole, ma la sua drammatica condizione gli regalò una nuova visione musicale, introspettiva e magica. Rock Bottom è un capolavoro assoluto, prodotto da Nick Mason dei Pink Floyd e suonato da musicisti straordinari come Hugh Hopper e Richard Sinclair al basso, Gary Windo al clarinetto, Mongezi Feza alla tromba, Mike Oldfield alla chitarra, Fred Frith alla viola, Laurie Allan alla batteria e la compagna di vita Alfie a sostenere la parte vocale. Rock Bottom è un viaggio all’interno di un artista che dalla nuova condizione ha imparato a “sognare e pensare veramente attraverso la musica”. Le sue tastiere e la sua voce nell’apertura della struggente “Sea Song”, non smettono di regalare brividi ad ogni ascolto. Incipit perfetto di un disco che non dovrebbe mancare in nessuna collezione di dischi.
Chiudiamo il podcast con Julia Holter, senza dubbio una delle songwriter più talentuose della sua generazione. Californiana, studente in pianoforte e appassionata di letteratura greca, ha già dagli inizi, preferito un approccio onirico e minimalista, cambiando lentamente pelle, album dopo album, aggiungendo beat elettronici, elaborazioni sonore fino ad approdare ad un maturo eclettismo pop. Se già Loud City Song nel 2013 aveva colpito per la piccola rivoluzione sonora dell’artista californiana, tra Laurie Anderson e Kate Bush, Have You In My Wilderness due anni dopo ne ribadisce il cambiamento. Dal riconoscimento come autrice e musicista colta, il passo fatto nel 2015 ha consolidato l’ingresso della Holter in una sorta di paradiso indie-mainstream in cui ha avuto i suoi riconoscimenti anche dal punto di vista commerciale.
Dopo che, con Aviary nel 2018, ha dato vita ad un lavoro complesso e sperimentale, assemblato alla perfezione con cui ha dimostrato per l’ennesima volta il suo straordinario talento, la Holter torna dopo una lunga pausa dovuta alla pandemia e alla maternità con un nuovo lavoro di una bellezza accecante, elegante e magico, ispirato proprio dal capolavoro di Robert Wyatt che abbiamo ascoltato in precedenza. In Something in the Room She Moves, la Holter elabora in modo vivido la complessità, la profondità e lo stupore di una confluenza di esperienze diverse vissute negli ultimi anni. Basandosi su uno spirito di giocosità, la californiana ha scavato a fondo in uno stile di produzione che ricorda le sue prime registrazioni, trovando nella notte il momento ideale per sperimentare la sua creatività. La title track che chiude il podcast è uno dei brani più indimenticabili di un album splendido.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete diverse nuove uscite come Pissed Jeans, Melvins e Big|Brave, riscopriremo insieme un vero e proprio capolavoro come Rusty dei Rodan e ascolteremo tante altre piccole e grandi meraviglie. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. SLINT: Breadcrumb Trail da ‘Spiderland’ (1991 – Touch And Go)
02. SHELLAC: My Black Ass da ‘At Action Park’ (1994 – Touch And Go)
03. BIG BLACK: Kerosene da ‘Atomizer’ (1986 – Homestead Records)
04. THE FLAMING LIPS: Feeling Yourself Disintegrate da ‘The Soft Bulletin’ (1999 – Warner Bros. Records)
05. CAT POWER: Speak For Me da ‘You Are Free’ (2003 – Matador)
06. THE BEVIS FROND: Leb Off da ‘Focus On Nature’ (2024 – Fire Records)
07. THIN WHITE ROPE: The Real West da ‘Exploring The Axis’ (1985 – Frontier Records)
08. MARK LANEGAN: Dead On You da ‘Whiskey For The Holy Ghost’ (1994 – Sub Pop)
09. HUGO RACE: Too Many Zeroes da ‘Fatalists’ (2010 – Interbang Records)
10. ABECEDARIANS: Ghosts da ‘Eureka’ (1986 – Southwest Audio Reproductions)
11. FOURWAYCROSS: There’s A Place (Recorded in 1984) da ‘Pendulum’ (1993 – Independent Project Records)
12. JIM WHITE: Here I Am da ‘Waffles, Triangles & Jesus’ (2017 – Loose)
13. ROBERT WYATT: Sea Song da ‘Rock Bottom’ (1974 – Virgin)
14. JULIA HOLTER: Something In The Room She Moves da ‘Something In The Room She Moves’ (2024 – Domino)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) April 5, 2024