Ecco il quattordicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete due album importanti che compiono 30 anni, alcune novità dalle traiettorie inconsuete e altre meraviglie sparse.
Eccoci di nuovo puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questi 74 minuti di musica parleremo del 30° anniversario di Superunknown, probabilmente il capolavoro dei Soundgarden e di The Downward Spiral, apice delle nevrosi e della creatività dei Nine Inch Nails. Parleremo anche della creatività dei Karate e dell’album che inizia a cambiare la storia dei Wilco prima di entrare in un quadrato di traiettorie stranianti ma evocative: dall’angelica voce di Mimi Parker dei Low su un tappeto oscuro allo stravagante ondeggiare di Kee Avil, passando per il blues magniloquente dei Thee Silver Mt. Zion e soprattutto per l’album più discusso del momento, il nuovo di Kim Gordon. Ci sarà spazio per l’anticipo di post-rock a fine ’80 degli A.R. Kane, per le suggestioni atmosferiche di Bat For Lashes e le traiettorie sghembe tra pop e psichedelia dei The Monochrome Set. Il gran finale sarà appannaggio del nuovo album dell’interessante songwriter basca Elena Setién, dell’onirico ondeggiare dei Dirty Three e per la bellezza del drumming essenziale proposto nell’esordio solista del batterista del trio australiano, Jim White. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast parlando di un album che ha appena compiuto la bellezza di 30 anni, e che è uno dei dischi più celebrati della scena di Seattle degli anni ’90. Guardando indietro, parere personale, il grunge è stato probabilmente un genere nostalgico e conservatore, una restaurazione del rock anni ’60-’70 senza che i protagonisti mostrassero lo spessore delle band di 25 anni prima. Probabilmente all’epoca ci si è attaccato a quel movimento in maniera anche sproporzionata alla effettiva valenza storica. Per quanto riguarda i Soundgarden, sicuramente Superunknown è stato l’apice non solo creativo ma anche commerciale di una delle band più famose e centrali di quell’epoca storica grazie a brani come “Fell On Black Days “ oppure la splendida “Black Hole Sun” inserita in scaletta. Il gruppo era composto da Kim Thayil alla chitarra, Ben Shepherd al basso, Matt Cameron alla batteria e Chris Cornell alla voce, che si è tolto la vita il 18 maggio 2017 dopo aver suonato con la band a Detroit.
Quando ero poco più che ventenne, quella voce mi aveva trascinato pur senza riuscire mai a conquistarmi del tutto. La sua identità e presenza non mi apparteneva, era troppo centrale, figo, per chi come me ha sempre amato i personaggi non illuminati a giorno dai riflettori, ma per una stagione è stato senza dubbio chi avrei voluto essere, sostituendo per un attimo i suoi demoni con i miei. “The voice of a generation, an artist for all time” c’è scritto sulla sua tomba, e mi rendo conto che è stato davvero una voce che ha segnato una generazione, quella del grunge, un genere che nonostante tutto, ha saputo entrare ed immedesimarsi nel disagio giovanile dell’epoca.
Continuiamo “festeggiando” il trentesimo compleanno anche dell’album forse più riuscito di una creatura spietata e potente. Trent Reznor ha creato i Nine Inch Nails innestando in un corpo industriale l’anima di un cantautore tanto introspettivo quanto rabbioso. L’esordio nel 1989 con Pretty Hate Machine è di quelli da ricordare, il secondo, The Downward Spiral, addirittura un capolavoro di follia e rabbia condotto da Reznor ribattezzatosi per l’occasione “Mr.Self Destruct”. L’album descrive l’autodistruzione di un uomo dall’inizio della sua disillusa “spirale discendente” fino al punto di rottura definitivo. Un disco che ha ricevuto non solo il plauso della critica ma anche un notevole successo commerciale, consacrando i Nine Inch Nails come uno dei gruppi più importanti nella scena musicale degli anni Novanta.
Reznor aveva concepito il disco dopo la partecipazione dei Nine Inch Nails al festival Lollapalooza, in cui si sentiva sempre più alienato e demotivato. I concerti della band erano noti per la loro radicale violenza sul palco, in cui i membri si comportavano in modo aggressivo, si ferivano, distruggevano gli strumenti e sporcavano i palchi. Il leader del gruppo ha spesso lottato contro la dipendenza da droghe e la depressione, e i temi dell’album hanno gradualmente rappresentato un’allegoria della sua situazione. “Closer” è una canzone sull’odio e l’ossessione per se stessi. Per il disappunto di Reznor, la canzone è stata ampiamente fraintesa come un inno alla lussuria a causa del suo ritornello, che include notoriamente i versi “I wanna fuck you like an animal / I wanna feel you from the inside”. Dopo il seguente, splendido The Fragile, è iniziato il lento declino del gruppo, che non è più riuscito a trovare il giusto spunto vincente.
Geoff Farina, studente del prestigioso Berklee College of Music di Boston, nel 1993 decise di dare un seguito al suo primo progetto Secret Stars formando una vera e propria band insieme al bassista Eamonn Vitt e al batterista Gavin McCarthy. I Karate esordiscono come trio per poi assoldare Jeff Goddard come bassista spostando Vitt alla seconda chitarra e a esordire sulla lunga distanza nel 1996 con un album autointitolato uscito per la Southern Records. Il disco, con la sua alternanza di momenti rallentati ed esplosioni violente, è diventato presto un esempio di incontro tra vari generi musicali, tra slow-core e un ruvido indie rock, suonato da musicisti che hanno una dimestichezza lampante con il jazz.
Il loro slancio intimista e raffinato raggiungerà probabilmente con il seguente In Place Of Real Insight la perfezione formale, ma l’esordio rimane una produzione assolutamente notevole come dimostra la splendida “Gasoline” inserita in scaletta. Il gruppo si è sciolto nel luglio del 2005 a causa dei problemi all’udito di Farina, che non era più in grado di sopportare il rumore sul palco. Fortunatamente, vista la difficile reperibilità dei primi lavori, da tempo fuori catalogo, la benemerita etichetta Numero Group ha ristampato i primi due lavori di Farina e compagni.
I Wilco, appena arrivati al considerevole traguardo del 13° album in studio con l’ottimo Cousin, sono senza ombra di dubbio uno dei gruppi più importanti del panorama musicale contemporaneo. Sappiamo bene che il vero punto di svolta della loro carriera è stato Yankee Hotel Foxtrot, non solo semplicemente il loro quarto album in studio, ma per l’inserimento nel corpo della tradizione del folk/rock americano, di elementi di “disturbo” come rumori digitali e arrangiamenti sghembi e dissonanti che rimarranno come caratteristica della band di americana più importante dell’ultimo ventennio. Ma i germi di quel cambio di passo erano già evidenti nel disco precedente intitolato Summerteeth.
All’epoca la leadership del gruppo era divisa tra Jeff Tweedy e Jay Bennett (che verrà a mancare pochi anni dopo, nel 2001, per un overdose accidentale di ansiolitici), l’ex Uncle Tupelo stava attraversando un momento particolarmente delicato dal punto di vista personale, frustrato per non riuscire a passare abbastanza tempo con la famiglia. Questo lo ha portato a scrivere canzoni che mostravano una visione introspettiva influenzata dalla letteratura del 20° secolo. Il disco mostra l’inizio del cambiamento, sovraincisioni con Pro Tools e momenti dissonanti ed intricati che troveranno poi sviluppo completo nel lavoro successivo. “A Shot In The Arm” è una della canzoni che la band ama ancora suonare spessissimo dal vivo.
Cinque anni fa, colpito dall’intensità emotiva di Double Negative e dal fatto che finalmente facevano tappa a Roma, mi ero recato all’Auditorium della capitale per vedere per la prima volta i Low dal vivo. Ero rimasto sbalordito non solo dalla capacità del trio di controllare rumore e melodie in modo così apparentemente totale, ma soprattutto dalla naturalezza e semplicità da parte dei tre musicisti davvero incredibile. Mi aveva quasi commosso l’essere così sinceramente grato, felice e quasi in imbarazzo da parte di un musicista che calca i palcoscenici da 25 anni come Alan Sparhawk, e allo stesso tempo la timida tenerezza della consorte Mimi Parker che, dopo aver cantato in maniera angelica e suonato i (pochi) tamburi davanti a se con precisione e tribalismo quasi “tuckeriano”, si era concessa solo un veloce saluto con la mano quasi imbarazzato prima di sparire subito dietro al pannello a led posizionato dietro al suo drumkit. É stata la prima cosa cui ho pensato una volta arrivata la terribile notizia della scomparsa di Mimi nel 2022.
Visto che adesso andiamo ad addentrarci in una selva oscura, ho voluto riproporre proprio quel disco in cui i coniugi di Duluth si sono fatti accompagnare dal bassista Steve Garrington, per uno dei viaggi più coraggiosi che abbiano mai intrapreso. L’elettronica, da un po’ di tempo compagna del trio, aveva ormai mutato il DNA della band, alterandolo senza possibilità di ritorno. Gocce di sangue, macerie fumanti di canzoni talmente celate sotto gli spasmi di feedback e la pioggia di detriti cibernetici che quando la voce dei nostri emerge senza filtri è come se una luce celestiale illuminasse all’improvviso la distesa funerea di Mordor. “Fly” è un tributo alla voce meravigliosa di Mimi Parker e a una band che quando riesce ad entrare nel cuore e nell’anima poi non ne esce più,
Da un paio di settimane è stato pubblicato il secondo album solista di un’artista che ha scandito lo scorrere del tempo di noi amanti del rock da tantissimi anni. Kim Gordon, 71 anni a fine aprile, è stata un componente fondamentale dei Sonic Youth, gruppo che ha profondamente influenzato varie generazioni di rock americano e non solo. Pur partendo dall’avanguardia newyorchese, i SY non hanno davvero mai ripudiato il formato della canzone rock, sperimentando, usando gli strumenti in modo totale (soprattutto grazie ad un grande uso di effettistica e accordature inusuali a rendere unico il suono della chitarra), e diventando di fatto una vera e propria istituzione della scena alternativa americana e mondiale.
70 anni e non sentirli, per la voglia di esplorare paesaggi sonori più oscuri e dissonanti, riflettendo il suo interesse crescente per la musica sperimentale, per l’avant-elettronica, per i ritmi hip-hop e trap, per il noise industriale, grazie all’apporto di Justin Raisen (Sky Ferreira, Drake) che già aveva collaborato con lei 5 anni fa per il riuscito No Home Record. Il nuovo The Collective se vogliamo flirta con certe suggestioni in maniera ancora più radicale, quasi “normale” per una persona che pensa a se stessa come un’artista a 360 gradi più che come “semplice” musicista. Un album che, non appena uscito, ha scatenato subito una discussione tra chi lo considera una sorta di capolavoro, e chi non è convinto affatto di questo suono così ostico. E dire che la Gordon (e i SY) sono stati spesso e volentieri spiazzanti, nell’accezione positiva del termine. Il disco è potente, perfettamente calato nell’oggi musicale, un disco avventuroso ed intrigante come dimostra la “Psychedelic Orgasm” inserita in scaletta. E voi da che parte state?
Ho parlato più volte su queste pagine di un collettivo canadese che prende il nome di Godspeed You! Black Emperor, e del loro fascino ipnotico, epico, senza compromessi. Efrim Menuck (chitarra, mellotron e voce), Thierry Amar (basso e voce) e Sophie Trudeau (violino e voce), oltre a far parte in pianta stabile dei GY!BE, avevano dato vita nel 1999 al progetto Thee Silver Mt. Zion. Oltre ai tre membri principali, il collettivo nel corso degli anni ha subito cambiamenti quasi annuali nella formazione, evolvendo per gradi da un trio prevalentemente strumentale all’epoca delle prime registrazioni a un gruppo di otto elementi. L’intento di Menuck era di svincolarsi leggermente da quanto già proposto per proporre un suono più intimo e viscerale rispetto alle epiche lente e lunghe del gruppo madre.
Il settimo (e tuttora, purtroppo, ultimo) capitolo del collettivo usciva dieci anni fa e prendeva il nome di Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything, a sottolineare ancora una volta un profondo diffidare dell’autorità e delle istituzioni, sperando che la sanità mentale possa prevalere in un mondo sempre più impazzito. In questo lavoro i tre sono accompagnati dall’altra violinista Jessica Moss (con loro dal 2001 e fondatrice della Black Ox Orkestar insieme a Thierry Amar) e dal batterista David Payant, a creare un muro di suoni coeso e appassionato, un suono epico tra tensioni post-rock, blues e folk, con l’incrocio tra chitarra e violini a renderlo unico. “Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything” è il brano scelto a rappresentare un album davvero splendido.
“Scrivere canzoni, per me, è come scolpire. Nasce da una parola, un’emozione o un suono iniziale, che poi costruisco, modellandolo in una forma più raffinata, incollata in una struttura artificiale. Altre volte il mio ruolo è quello di scrostarla, raschiarne l’esterno, per rivelare il suo stato naturale e la sua parte all’interno del tutto.” Così si presentava due anni fa la cantautrice, chitarrista e produttrice di Montréal Vicky Mettler, al suo esordio per l’etichetta Constellation sotto il nome di Kee Avil. La Mettler combina chitarra, voce, elettroacustica e produzione elettronica per creare assemblaggi di canzoni che sembrano collassare da un momento all’altro ma che allo stesso tempo riescono ad evolversi come resina appiccicosa che raccoglie e disperde elementi disparati lungo il suo percorso.
Non è affatto un ascolto facile quello di Crease, un album dove Kee Avil concretizzava la sua musica in una chitarra post-punk lavorata a cesello, in un’elettronica sinuosa di fascia bassa, in una tavolozza di microcampionamenti organici e digitali capaci di creare ritmi alternati e propulsivi, nell’intimità ansiosa del suo lirismo e della sua voce finemente lavorati. Canzoni che non lasciano molto spazio alla melodia, che spiazzano non appena sembra che abbiamo trovato una direttrice. Tra post-punk, electro-industrial e avant-pop, quelle di Vicky Mettler sono brani contorti, finemente lavorati, meticolosamente assemblati e pronti a celare la realtà come la maschera indossata sulla copertina dell’album. Un album destabilizzante e sperimentale ma allo stesso tempo estremamente intrigante come dimostra la “Saf” inserita in scaletta. Il 3 maggio Kee Avil pubblicherà Spine, il suo atteso secondo album.
Quasi tutti ricorderanno un tormentone che arrivò in vetta alle classifiche nel 1987, la canzone era “Pump Out The Volume” e gli autori/esecutori erano nascosti dietro il nome M|A|R|R|S per un progetto voluto dal deus ex machina della 4AD, Ivo Watts-Russell. I M|A|R|R|S erano due polistrumentisti provenienti dalla zona est di Londra, Alex Ayuli e Rudi Tambala, insieme ad alcuni membri dei compagni di etichetta Colourbox. Ayuli e Tambala avevano scelto un nome diverso per il loro gruppo, A.R. Kane, ed il loro suono fu propedeutico per una certa rivoluzione in Gran Bretagna che solo anni più tardi trovò la sua definizione in post rock.
Laddove Kevin Shields e i suoi My Bloody Valentine trovavano la strada della catarsi e dell’estasi nei muri di chitarre creando densità sonora, i due londinesi la trovavano nell’equilibrio delle varie forze messe in campo: dub, strumentazione rock, elettronica, pop, minimalismo. I due esordirono nel 1987 con un EP intitolato Lollita, pubblicato proprio dalla 4AD, e prodotto da Robin Guthrie, chitarrista dei Cocteau Twins. il primo album vero e proprio venne pubblicato un anno più tardi. 69 trovò consensi (come purtroppo succede a volte) solo qualche anno più tardi, anticipando in qualche modo dream pop, post-rock e shoegaze tutto in una volta, e mostrando un’inventiva ed una personalità non indifferente. La meraviglia di “Suicide Kiss” non ha davvero tempo ne spazio.
Per l’ormai attesissima rubrica “dischi che non mi ricordavo di avere”, oggi è la volta del disco di esordio della polistrumentista e compositrice Natasha Khan, più conosciuta come Bat For Lashes. Nata a Londra da madre inglese e padre pakistano, il giocatore di squash Rehmat Khan, Natasha ha iniziato a suonare il pianoforte dopo l’abbandono da parte del padre, per veicolare le sue emozioni. Nel 2000 si è stabilita a Brighton per studiare musica e arti visive all’Università di Brighton, dove ha prodotto installazioni sonore, animazioni e performance influenzate da artisti come Steve Reich e Susan Hiller prima di dedicarsi alla musica a tempo pieno. I suoi demo e i suoi concerti a Brighton avevano fatto drizzare le antenne ai responsabili della Echo, un’etichetta discografica di proprietà dell’editore indipendente Chrysalis Music che fungeva da vivaio per gli artisti, prima di ” incanalarli” verso le major.
Nel suo primo lavoro, uscito nel 2006 ed intitolato Fur And Gold, Natasha Khan ha voluto mettere dentro tutto il suo spettro emotivo e sonoro. Accompagnata da moltissimi musicisti tra cui spicca il nome di Josh T. Pearson (Lift To Experience), la songwriter di stanza a Brighton ha dato vita a undici tracce atmosferiche e talvolta cupe, ai confini del folk e del pop-rock di sostanza. Per il podcast ho scelto l’apertura di “Horse & I”, traccia ispirata dal mito di Giovanna d’Arco. Dopo cinque anni di silenzio, la sigla Bat For Lashes è pronta a tornare in pista con il sesto album in studio intitolato The Dream of Delphi, la cui uscita è prevista per il 31 maggio 2024.
Adesso parliamo di un gruppo che si è affacciato sulla scena alla fine degli anni ’70 e che, mea culpa, non ho passato nei miei podcast come avrebbe meritato. Sto parlando dei The Monochrome Set, band che ha ispirato moltissimi gruppi britannici (tra cui gli Smiths) e che, purtroppo, ha avuto pochissimi riscontri commerciali a fronte di una media qualitativa molto alta espressa fino allo scioglimento avvenuto nel 1986. galeotto fu l’incontro all’inizio del 1978 tra uno strano personaggio nato in India che si faceva chiamare semplicemente Bid (il suo vero nome è Ganesh Seshadri), cantante e songwriter, e il chitarrista Thomas W.B. Hardy, meglio conosciuto come Lester Square.
I due, insieme al batterista John D. Haney (ex Art Attacks) e al bassista Andy Warren (ex Adam & The Ants) trovano uno strano rifugio dalle mode imperanti in quel periodo (il passaggio tra post punk e new wave e le devisazioni industriali) in una sorta di pop sghembo che prendeva a piene mani dall’immaginario degli anni 60, impreziosendolo di influssi orientaleggianti vista l’origine del principale compositore. Lanciati da Majo Thompson, ex leader dei Red Crayola, il gruppo firma per una sussidiaria della Virgin, la Dindisc, ed incide l’album di esordio, Strange Boutique. Il disco è uno dei più originali dell’epoca, e racchiudeva le splendide intuizioni armoniche del gruppo senza le tastiere che invece troveremo negli album successivi. I testi astratti e sarcastici, le melodia raffinate che potete ascoltare nella trascinante “Ici Les Enfants” non hanno (quasi inspiegabilmente) portato il successo che avrebbero sicuramente meritato.
Continuiamo il podcast con un’artista che sta davvero facendo un percorso molto interessante. La cantante e polistrumentista basca Elena Setién, dopo anni vissuti in Danimarca, è tornata nella sua terra natale da qualche anno ed ha appena fatto uscire il suo quinto album in studio, il terzo per la Thrill Jockey. Il suo cantautorato, sorretto dal pianoforte o dalla chitarra e impreziosito dalla sua splendida voce, è ricco di trame e di dettagli, con delicati arrangiamenti che vanno a lambire il folk, ma sempre con una spiccata personalità che gli permette di restare intrigante ed eccentrica nel suo approccio al pop mai banale. nell’arco degli anni molti artisti hanno collaborato con lei, da Steve Gunn a Mary Lattimore, passando per i musicisti baschi Xabier Erkizia e Grande Days. Stavolta la sua musica ha attirato l’attenzione di un musicista che appartiene ad un mondo che sembra distante.
Elena Setién e Glenn Kotche si sono incontrati mentre il batterista/percussionista era in tournée in Spagna con i Wilco. Visto che il batterista era stato colpito dal precedente album dell’artista basca, Unfamiliar Minds, i due hanno iniziato a parlare di una collaborazione che si è concretizzata in questo nuovo Moonlit Reveries. Anche se non in tutti i brani è presente Kotche, la sua presenza nell’album ha rinvigorito il desiderio della Setièn di approfondire il ritmo come via d’espressione, incorporando nella sua musica un’architettura ritmica più influenzata dal latino e facendola esclamare: “Stranamente, essendo io un’artista spagnola, ho cercato ispirazione nei ritmi di un batterista di Chicago per arrivare a qualcosa che avesse un’impronta latina. Un modo in qualche modo surreale per arrivarci”. Il brano che rappresenta l’album è la splendida e quasi funk “Surfacing”.
Se Warren Ellis ed il suo violino adesso sono associati senza dubbio ai Bad Seeds di Nick Cave, non va mai dimenticato che insieme a Mick Turner (chitarra) e Jim White, ha dato vita ad un gruppo che per 15 anni ha mostrato un nuovo approccio sonoro estremamente riconoscibile. I Dirty Three sono nati a Melbourne, Australia, e si sono messi in luce già dall’esordio di Sad & Dangerous targato 1994, come un gruppo capace di unire il folk rock e la psichedelia alla musica da camera. Il tutto con una estrema malinconia di fondo. Il segno distintivo del gruppo è senza ombra di dubbio il violino di Ellis che monta un pick-up chitarristico per poterne sfruttare i riverberi del feedback.
Nel 1998 il trio entrò in studio con Steve Albini per creare una sorta di concept album incentrato sul mare. Il risultato è l’emozionante Ocean Songs, un disco dove i tre musicisti riuscirono a ricreare mirabilmente tutte le emozioni, i colori e i suoni del mare. Due anni dopo i tre tornarono in studio riuscendo di nuovo a creare quella tensione musicale e spirituale, e rendendo anche Whatever You Love, You Are un disco capace di colpire, trascinare e commuovere. Il cielo stellato prende il posto del mare, e le pennellate dei tre aprono nuovi mondi con il loro suono emozionale. Ascoltate “I Really Should’ve Gone Out Last Night” e lasciatevi trasportare verso nuove luminose stelle da questi tre straordinari musicisti. Da indiscrezioni sembra che i tre possano entrare di nuovo insieme in studio a distanza di 12 anni dal loro ultimo album in studio, non resta altro che incrociare le dita…
Chiudiamo il podcast lasciando sotto i riflettori il batterista dei Dirty Three: Jim White. Dopo le collaborazioni recenti con George Xylouris a nome Xylouris White e con la chitarrista Marisa Anderson, il batterista australiano, insieme al fido Guy Picciotto, si è chiuso negli studi di registrazione per mettere su nastro il suo primo album solista. Il disco, a scanso di equivoci, è tanto atipico quanto bello ed ispirato. All Hits: Memories uscirà tra una settimana, il 29 marzo, ed è un disco praticamente di sola batteria, a parte alcune macchie sonore messe a disposizione dalla lira di George Xylouris e dalle tastiere di Ben Boye. Ora, dimenticate i muscolari solo di batteria dei vari protagonisti del vagabondare tra tom, piatti e rullante.
Jim White, lo sapete se apprezzate i Dirty Three e le sue collaborazioni con Bill Callahan o Cat Power, è un batterista atipico, usa bacchette, spazzole e mallets come un pittore, evocando ricordi, tracciando storie sui tamburi, costruendo paesaggi tra tribalismo e jazz che sembrano quasi casuali ma casuali non sono mai. La bellezza dell’essenziale, un album che dura nemmeno 25 minuti e che, come dice Bill Callahan nel suo classico stile “libera il tempo, lo lascia giocare, lo lascia pascolare, lo lascia rammentare. Questo è un disco di pensieri, ricordi, interventi chirurgici. Un’operazione chirurgica abile di cui potresti non renderti nemmeno conto che sta accadendo mentre sta accadendo, ma che ti rimette in piedi quando è finita”. Non ci credete? Ascoltate la “Names Make The Name” che chiude il podcast.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete il 33° anniversario di un disco epocale come Spiderland degli Slint e faremo un piccolo excursus nella carriera di Steve Albini dai Big Black agli Shellac (che torneranno tra un mese con un nuovo album), per poi riascoltare il capolavoro pop psichedelico dei The Flaming Lips. Ci sarà anche il grande ritorno di Nick Saloman con i suoi The Bevis Frond, la riscoperta di quello che probabilmente è l’apice del percorso di Cat Power e un tuffo negli anni 80 con il personale Paisley Underground dei Thin White Rope e il post punk californiano ma dal profumo europeo di Abecedarians e Fourwaycross. Riascolteremo la voce profonda e ricca di emozioni di Mark Lanegan prima di ripercorrere le traiettorie italiane di Hugo Race e tuffarci nella redenzione di Jim White. Il gran finale sarà appannaggio delle straordinarie suggestioni canterburyane di Robert Wyatt e del nuovo lavoro di una delle migliori cantautrici di questa generazione: Julia Holter. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. SOUNDGARDEN: Black Hole Sun da ‘Superunknown’ (1994 – A&M Records)
02. NINE INCH NAILS: Closer da ‘The Downward Spiral’ (1994 – Nothing Records)
03. KARATE: Gasoline da ‘Karate’ (1995 – Southern Records)
04. WILCO: A Shot In The Arm da ‘Summerteeth’ (1999 – Reprise Records)
05. LOW: Fly da ‘Double Negative’ (2018 – Sub Pop)
06. KIM GORDON: Psychedelic Orgasm da ‘The Collective’ (2024 – Matador)
07. THEE SILVER MT. ZION MEMORIAL ORCHESTRA: Take Away These Early Grave Blues da ‘Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything’ (2014 – Constellation)
08. KEE AVIL: Saf da ‘Crease’ (2022 – Constellation)
09. A.R. KANE: Suicide Kiss da ‘69’ (1988 – Rough Trade)
10. BAT FOR LASHES: Horse And I da ‘Fur And Gold’ (2006 – Echo)
11. THE MONOCHROME SET: Ici Les Enfants da ‘Strange Boutique’ (1980 – Dindisc)
12. ELENA SETIÉN: Surfacing da ‘Moonlit Reveries’ (2024 – Thrill Jockey)
13. DIRTY THREE: I Really Should’ve Gone Out Last Night da ‘Whatever You Love, You Are’ (2000 – Touch And Go)
14. JIM WHITE: Names Make The Name da ‘All Hits: Memories’ (2024 – Drag City)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) March 22, 2024