Le avventure in musica di Sounds & Grooves proseguono con i podcast della 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nel diciottesimo podcast stagionale di Sounds & Grooves troverete uno sguardo sull’hardcore anni ’90, un po’ di pop sghembo e molte meraviglie assortite
Torna l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 17° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) già sapete, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo più di 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Il diciottesimo viaggio partirà con il noise oltraggioso dei Butthole Surfers, la visceralità dei Jesus Lizard, l’hardcore colto e maturo di Unwound e Fugazi e la conferma dei Protomartyr. Andremo anche a ripescare la psichedelia dei Flaming Lips, il suono cristallino dei The Chills e il pop sghembo di Dirty Projectors e Grizzly Bear. Lo sguardo tornerà indietro verso un ispirato Beck di annata, il primo splendido album di Mark Oliver Everett aka Eels e l’eleganza di Neneh Cherry. Il finale sarà appannaggio di una delle canzoni più indimenticabili degli Air e di uno dei progetti di elettronica più interessanti degli ultimi anni: Space Afrika. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast spingendo subito sull’acceleratore. La storia di questo gruppo inizia alla Trinity University di San Antonio, in Texas, alla fine degli anni Settanta, quando gli studenti Gibson “Gibby” Haynes e Paul Leary si incontrarono per la prima volta. Nonostante fossero ragazzi non propriamente convenzionali, entrambi sembravano destinati a carriere “normali”. Haynes, capitano della squadra di pallacanestro del Trinity e “ragioniere dell’anno” della scuola, si laureò trovando subito lavoro in un’autorevole società di contabilità del Texas, mentre Leary continuò a frequentare il college per conseguire un Master of Business Administration. Ma la vita privata dei due era non così lineare, visto il consumo di alcool e droghe e non solo. Nel 1981, Haynes e Leary pubblicarono la rivista Strange V.D., che presentava foto di disturbi medici anormali, accompagnate da spiegazioni fittizie e umoristiche delle malattie.Dopo essere stato sorpreso con una di queste foto al lavoro, Haynes lasciò lo studio contabile e si trasferì a San Antonio insieme a Leary.
Iniziarono a suonare in alcuni locali e il loro modo oltraggioso di presentarsi e di suonare, un hardcore violento e provocatorio, colpì così tanto Jello Biafra da spingerlo a mettere il gruppo sotto contratto con la sua Alternative Tentacles. Il nome scelto non poteva essere normale, così ecco a voi i Butthole Surfers. Dopo un EP omonimo (conosciuto anche come Brown Reason To Live o Pee Pee The Sailor), la band passò alla Touch And Go. Per questa importantissima etichetta dell’underground americano pubblicarono nel 1985 il loro debutto Psychic Powerless… Another Man’s Sac. Insieme alla voce e al sax di Haynes e alla chitarra di Leary ecco il basso di Bill Jolly e le batterie di King Coffey e Theresa “Nervosa” Taylor, scomparsa da pochissimo per un male incurabile. Il disco è un dirompente esempio della modalità oltraggiosa del gruppo che si muove con sconcertante “normalità” dal noise alla psichedelia, da echi di Captain Beefheart all’hardcore punk. “Mexican Caravan” è solo l’incipit di una band assolutamente devastante e originale.
Restiamo con il piede pesante sul pedale e sempre in orbita Touch And Go. I Jesus Lizard sono stati insieme a Fugazi una delle band cardine dell’hardcore negli anni ’90. Le loro nevrosi e tensioni, la loro musica sghemba, deforme, singhiozzante, rumorosa, spasmodica e nevrotica ha davvero coinvolto un’intera generazione. La band è nata dalle ceneri di due formazioni: i Rapeman di Steve Albini e gli Scratch Acid di David Yow. La sezione ritmica di questi ultimi formata da David Sims e Rey Waysham confluì proprio nei Rapeman prima di riunirsi di nuovo a Yow formando nel 1988 i Jesus Lizard con Duane Denison, e una drum-machine al posto di Waysham prima di assumere Mac McNeill.
Liar è il terzo album della band, disco che aveva il non facile compito di vedersela con il suo fortunato predecessore, un monolite chiamato Goat. In realtà il disco non fa certo rimpiangere il precedente, confrontandosi da pari a pari in maniera egregia. I ritmi tribali, l’energia inesauribile, i deliri vocali di Yow che compensa la sua ugola non propriamente dotata con dei feroci sproloqui che faranno tendenza rendono anche questo lavoro assolutamente importante. In “Puss” la band invoca un ritmo quasi doom sprofondando in un inferno inquietante e coinvolgente.
Gli Unwound sono stati dei veri e propri giganti dell’hardcore americano degli anni ’90. I riff granitici e le soluzioni ricche di spasmi e di lacerante elettricità li hanno resi tra le migliori band del genere e non solo. Justin Trosper, voce e chitarra, Vern Rumsey, basso, e Sarah Lund, batteria già nel 1993 con il primo vero album, Fake Train, avevano gettato le basi per una carriera sfolgorante, trovando forse la piena maturità con il successivo New Plastic Ideas. Il debutto mostra un gruppo già in grado di mostrare un’incredibile capacità di scrittura che rimarrà ad un livello qualitativamente altissimo fino alla fine della loro parabola artistica.
L’album si snoda tra grandi scariche nevrotiche e splendide soluzioni armoniche che non rinunciano alla potenza espressiva come in questa “Nervous Energy”. Qualche anno fa la Numero Group, etichetta specializzata in preziosi recuperi, ha raccolto tutti gli album (di complessa reperibilità e mai ristampati in un’epoca in cui viene ristampato praticamente ogni cosa) della band in quattro imperdibili cofanetti, integrando il tutto con un live inedito che ne racchiude l’incredibile energia on stage. Lo scorso anno Justin Trosper, Sara Lund e Jared Warren erano tornati ad un’attività on stage. Warren è il nuovo bassista della storica formazione hardcore americana, dopo la prematura scomparsa, quasi tre anni fa, del membro fondatore Vern Rumsey deceduto a soli 47 anni in circostanze mai del tutto chiarite.
Strano pensare che i Fugazi, nonostante siano riconosciuti come una della band fondamentali dell’hardcore americano, rimangano davvero pressoché sconosciuti al grande pubblico. Eppure il loro leader Ian McKaye è una delle menti più lucide del rock americano, fondatore anche dei seminali Minor Threat e ideatore dell’etichetta indipendente Dischord. La sua strada, che percorre con determinazione e grande coerenza, è quella di un’intellettualizzazione dell’hardcore che diventa più intimo, sia pur lacerato da tensioni mostruose. Dopo che la loro saga straordinaria è stata capace di partire con un lavoro clamoroso come Repeater, il quartetto formato da Ian McKaye (voce e chitarra), Guy Picciotto (chitarra), Joe Lally (basso) e Brendan Canty (batteria) è stato capace di incanalare meravigliosamente la sua straripante energia in altri due dischi enormi come Steady Diet Of Nothing e In On The Kill Taker .
Il quarto lavoro in studio ha visto la luce nel 1995 sotto il nome di Red Medicine. La stesura dell’album ha richiesto diversi mesi di jam session e registrazioni a Guilford House, una tenuta di campagna isolata situata a Guilford, nel Connecticut. Il disco è stato capace di portare il loro hardcore evoluto su un piano ancora più raffinato e in qualche modo intellettuale, come dimostra la straordinaria “Long Distance Runner” che chiude l’album. La band, che ha fatto dell’integrità il proprio marchio di fabbrica, è ufficialmente in pausa dal 2002, dopo l’uscita del loro ultimo album in studio The Argument (2001). I Fugazi sono, senza ombra di dubbio, uno dei gruppi più importanti e seminali degli ultimi 30 anni.
Quando a Detroit il cantante Joe Casey si unì ad una band chiamata Butt Babies, nessuno poteva prevedere che si sarebbe creata un’alchimia estremamente potente chiamata Protomartyr. Composti dal chitarrista Greg Ahee, dal batterista Alex Leonard e dal bassista Scott Davidson (oltre che dal già citato Casey), i Protomartyr sono diventati sinonimo di assemblaggi caustici e impressionistici di politica e poesia, letterale e obliqua. Sin dal loro debutto del 2012, No Passion All Technique, il quartetto di Detroit padroneggia l’arte di evocare il luogo: l’umiltà del Midwest della loro città natale, così come lo sguardo ai raggi X dell’America che deriva dalla loro posizione di vantaggio.
Da poco è stato pubblicato il sesto lavoro, il terzo per la Domino, intitolato Formal Growth In The Desert che abbandona per un attimo le contaminazioni di archi e fiati del precedente senza intaccare le lucide dinamiche emozionali che confermano e sanciscono il ruolo portante che i Protomartyr hanno ottenuto meritatamente nel mondo dell’alternative rock a stelle e strisce. Nel nuovo album la sensibilità cinematografica della narrazione di Casey si manifesta sia nella critiva all’inquietante tecno-capitalismo sia nell’elaborazione dell’invecchiamento, della paura nel futuro e nella possibilità di amare. Come al solito è difficile scegliere un brano che si eleva al di sopra della media. Alla fine la scelta è caduta sullo splendido incedere di “Let’s Tip The Creator”. Impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla voce baritonale di un leader che è capace di creare scenari straordinari sia nell’incedere recitativo che nei refrain ossessivi.
Voi malcapitati che seguite i miei podcast su Radio Rock The Original conoscete bene la mia predilezione per i Flaming Lips da Oklahoma City. Wayne Coyne, Steven Drozd e Michael Ivins non hanno mai smesso di sperimentare, di cambiare pelle, di giocare a modo loro sia con il pentagramma che con tutto quello che gli ruota attorno. Questa è sempre stata (forse) la loro dannazione e (sicuramente) la nostra benedizione. Un calderone istrionico che abbracciava all’inizio la psichedelia pura, ma che non ha mai disdegnato di confrontarsi con diversi altri stili musicali. Dai giochi sul palcoscenico con le mani giganti (recentemente rubate e poi ritrovate), il supermegafono, la bolla di plastica dentro la quale Wayne Coyne si muove sul pubblico, i giochi pirotecnici, i milioni di coriandoli, fino alle sperimentazioni sul suono stesso della band con i famosi “parking lot experiments”, ovverosia 40 cassette create dal gruppo che dovevano essere suonate contemporaneamente all’interno di un parcheggio.
Come dicevamo, la band è partita da un approccio psichedelico e garage, diventando una sorta di discepoli dei 13th Floor Elevators a distanza di tre lustri. Allora sono voluto tornare indietro fino al 1989, quando usciva il loro terzo album intitolato Telepathic Surgery. Il disco era nato come un concept, inizialmente la band aveva intenzione di creare un collage sonoro di 30 minuti. Il piano è stato poi scartato ma i resti di questa idea originale sono evidenti nella struttura sciolta e serpeggiante dell’album e nell’epica “Hell’s Angel’s Cracker Factory”. L’album prende il nome da un verso della canzone “Chrome Plated Suicide”. “Right Now” è uno dei brani più travolgenti di quello che probabilmente è uno dei migliori dischi di Wayne Coyne e compagni. Piano piano i ragazzi di Oklahoma City sono riusciti a dosare sempre meglio i propri ingredienti diventando una delle band più importanti della storia recente del rock. Ultimamente l’ispirazione di Wayne Coyne e compagni sembra leggermente appannata, ma visto quante cose belle ci hanno fatto ascoltare nel corso degli anni direi che possiamo perdonarli senza problemi.
Durante gli anni ’80 i The Chills non solo erano uno dei gruppi di punta del rock della Nuova Zelanda, ma avevano anche scatenato un movimento estremamente interessante di gruppi ed etichette: il cosiddetto Dunedin Sound. La band ha sempre avuto come leader Martin Phillipps, con la sua chitarra planante e la voce cristallina. Un gruppo che ha avuto una storia travagliata i The Chills, con Phillips come unico punto fermo nonostante i periodi tormentati che lo hanno costretto a fermare il suo progetto per moltissimi anni. Risolti, speriamo definitivamente, i problemi di droghe e depressione, Phillips nel 2015 ha festeggiato i 35 anni di vita della sua sigla decidendo di tornare ad incidere il primo album di materiale nuovo dopo ben 19 anni di silenzio.
Silver Bullets è un album che ce lo restituisce in grandissima forma. Nei solchi del disco si mescolano l’approccio naif dei primi anni 80 con le mature riflessioni dovute al superamento dei suoi problemi personali. Rimane il suo smisurato talento nella creazioni di un impianto melodico e di creazioni armoniche assolutamente trascinanti e strabilianti. Ascoltando “Underwater Wasteland” molti dovrebbero prendere appunti sul come è possibile costruire canzoni dalle melodie e dinamiche perfette. A maggio è uscito The Chills: The Triumph & Tragedy of Martin Phillipps, un documentario sulla band neozelandese realizzato grazie ad un crowdfunding dove viene narrata in prima persona dalo stesso Phillipps la storia di un musicista che è passato dal grande successo a decenni di debiti e dipendenze. Fortunatamente il ritorno alla musica ed il faccia a faccia con i suoi demoni gli hanno permesso di riprendersi anche fisicamente.
I Dirty Projectors di David Longstreth hanno sempre percorso la propria personale via verso un pop d’autore. Il folk pop viene declinato dal leader della band in maniera multiforme, ora direttamente, ora utilizzando schegge impazzite e schizofreniche in bilico tra jazz ed elettronica. Da 3 anni ormai non fanno sentire la loro voce, mentre l’ultimo lavoro sulla lunga distanza, il caleidoscopico ed elettrizzante Lamp Lit Prose, risale addirittura al 2018. Per apprezzare le loro idee sonore sono voluto andare a ritroso nel tempo per trovare un album che al momento dell’uscita, nel 2009, mi aveva davvero entusiasmato. Bitte Orca, quinto album in studio del collettivo, è stato probabilmente l’apice di una parabola artistica tra le più interessanti dell’ultimo decennio, un suono mai scontato, in continua mutazione.
Longstreth usa tutti i trucchi del mestiere, strumenti usati con maestria e precisione chirurgica, cori irresistibili e ritornelli che entrano in mente e non ne escono più. Un perfetto incontro tra il pop-rock e la sperimentazione, brani apparentemente semplici ma che sviscerati mostrano tutta la loro complessità. Da non sottovalutare anche la partecipazione all’interno del disco di Sufjan Stevens, Decemberists e Grizzly Bears, gruppo di cui parleremo tra poco. “Cannibal Resource” è il brano che apre un album che rimane su un ipotetico podio di tutte le loro uscite.
Di Beck Hansen, per tutti semplicemente Beck, credo di non aver parlato molto in questi anni di podcast su radiorock.to. Eppure è un artista di grande valore, capace di colpire molti cuori grazie alla sua capacità di scrittura e alla sua versatilità stilistica. Nato in California dall’artista statunitense Bibbe Hansen (una delle cosiddette “superstar” di Andy Warhol) di origini norvegesi, svedesi ed ebraico-tedesche, Beck resta con lei e il fratello a Los Angeles dopo la separazione dei genitori. A LA viene influenzato dalle diverse proposte musicali della città, dall’hip hop alla musica latina, e dall’arte scenica della madre, tutti temi trattati nelle sue opere e nei suoi lavori. Il successo arriva nel 1994 con il suo terzo album in studio intitolato Mellow Gold e soprattutto con il singolo “Loser”, capace di catapultare l’artista californiano in cima alla Alternative Airplay statunitense per cinque settimane consecutive.
Il disco che ho voluto proporre è Sea Change, ottavo lavoro in studio, in cui Beck abbandona in parte sia i vari campionamenti sia i testi ironici e criptici per una narrazione più lineare. I testi infatti parlano di perdite amorose e desolazione, solitudine e malinconia, e il motivo è la rottura con la sua fidanzata di lunga data, la stilista Leigh Limon. Prodotto da Nigel Godrich (Radiohead, The White Stripes, Sonic Youth, PJ Harvey) il disco vede anche la presenza di una splendida sezione di archi, che ne aumenta la profondità espressiva. La scelta del brano è caduta sulla splendida ed evocativa “Round The Bend”.
Ha compiuto da poco 60 anni Mark Oliver Everett, cantante, chitarrista, autore, più conosciuto semplicemente come E o Mr.E, leader della band Eels. La sua grande abilità di songwriter ha sempre dovuto fare i conti con una vita che gli ha spesso riservato un conto salato da pagare: fu lui diciannovenne a trovare il cadavere del padre (il noto fisico Hugh Everett III, creatore dell’Interpretazione a molti mondi della Meccanica quantistica) deceduto per un infarto, e ha dovuto trascorrere la sua adolescenza facendo i conti con il dramma della sorella, che soffriva di gravi disturbi psichici causati soprattutto dalla dipendenza da sostanze stupefacenti.
Il suo modo personale di uscire dal dolore si è trasformato in un’abilità incredibile nel mettere a nudo anche i lutti più personali (la sorella morirà suicida nel 1996 e la madre nel 1998 per un cancro ai polmoni) scrivendo canzoni allegre su temi tristi e canzoni tristi sulla felicità. L’album che lo ha lanciato nell’olimpo dei songwriters è stato Beautiful Freak, che nel 1996 ha mostrato al mondo la sua abilità nel miscelare con ironica maestria lo-fi, pop e rock come dimostra la splendida “Not Ready Yet“. Il suo ultimo album, uscito lo scorso anno, si intitola Extreme Witchcraft, ed è il quattordicesimo della sua lunga e splendida carriera.
Edward Droste è un autore e musicista che ha sempre amato mischiare strumenti elettronici ed acustici mettendoli al servizio di una scrittura interessante e non convenzionale. Il suo progetto solista, Grizzly Bear, diventa realtà nel 2004, quando aiutato dal batterista Christoher Bear pubblica l’esordio intitolato Horn Of Plenty. Ai due si aggiungono presto Daniel Rossen (voce, chitarra, banjo e tastiere) e Chris Taylor (basso, cori, flauto, clarinetto e sax), facendo diventare i Grizzly Bear un vero e proprio quartetto messo sotto contratto da un’etichetta importante e dedita soprattutto ai suoni elettronici come la Warp Records.
Veckatimest è il loro terzo album in studio uscito nel 2009, disco che prende il nome da Veckatimest Island, una piccola isola nella Dukes County, nel Massachusetts. Prodotto dal bassista e polistrumentista Chris Taylor, l’album è entrato nella Billboard 200 statunitense alla posizione numero 8, vendendo 33.000 copie solo nella prima settimana di pubblicazione. All’album ha collaborato Nico Muhly negli arrangiamenti e Victoria Legrand (Beach House) in un brano. Il loro pop-folk psichedelico è sempre più coinvolgente nelle melodie ad ampio respiro, un suono che non perde mai equilibrio e ricercatezza come dimostra la splendida “Two Weeks” inserita in scaletta.
Di una straordinaria artista come Neneh Cherry abbiamo parlato in molte altre occasioni, anche quando giovanissima militava nei Rip Rig & Panic, band del marito Bruce Smith, cui prestava spesso e volentieri la sua splendida voce. Nata come Neneh Mariann Karlsson ha utilizzato il cognome del padre adottivo, il celebre trombettista jazz Don Cherry. Dopo l’esperienza con la celebre band, Neneh Cherry prova con successo l’avventura solista negli anni ’90 con due buoni lavori come Homebrew e Man. raggiungendo il successo nel 1994 con “7 Seconds”, duetto con il senegalese Youssou N’Dour.
Ancora un decennio di silenzio prima di formare una nuova band chiamata CirKus con Burt Ford (soprannome dell’attuale marito Cameron McVey). Molte collaborazioni, prima di tornare ad incidere insieme al gruppo avant-jazz The Thing un album di cover intitolato The Cherry Thing, in cui esplorava avidamente le sue radici. Il suo primo album solista dopo 18 anni è uscito nel 2014 e si intitola Blank Project, realizzato con la complicità di un genio dell’elettronica come l’inglese Kieran Hebden aka Four Tet. Un disco dove le atmosfere e i ritmi tribali si sposano perfettamente con la splendida voce di Neneh Cherry come dimostra la “Spit Three Times” inserita nel podcast.
Era il 1998, la propulsione dei due fenomeni musicali del decennio, brit-pop e grunge si stava progressivamente spegnendo. Anche il trip-hop, che aveva vissuto anni splendidi, sembrava arrancare anche se era proprio l’elettronica che sembrava aver effettuato una sorta di sorpasso sulle chitarre andando a rendere il suono sempre più ibrido. Proprio a gennaio di quell’anno i francesi Nicolas Godin (chitarre, basso, archi e percussioni) e Jean-Benoît Dunckel (tastiere e sintetizzatori), con il nome di AIR, irrompono sul mercato discografico con il loro album di esordio intitolato Moon Safari, capace di diventare disco importante e di culto, e facendo conoscere il duo di Versailles in tutto il mondo con i loro accordi e le loro melodie fluttuanti e colorate.
Nel disco troviamo una specie di ossessione per il suono analogico degli anni ’70, le colonne sonore, l’uso di strumenti come il sintetizzatore Moog, Mellotron, Korg MS-20 e vocoder, miscelato alle influenze del più moderno trip-hop, suggestioni esotiche, un pizzico di kraut e dance elettronica e un gran senso della melodia. I singoli “Sexy Boy” e “Kelly Watch the Stars” (omaggio al personaggio di Kelly Garrett della serie televisiva Charlie’s Angels) hanno subito fatto centro, ma a colpire è il lavoro nella sua interezza, che farà coniare ad alcuni giornalisti affamati di nuovi neologismi il termine “easytronica”. Il brano scelto per rappresentare il disco è sempre stato tra i miei preferiti, una ballata elettroacustica intitolata “All I Need” impreziosita dalla splendida voce di Beth Hirsch. Il duo è tuttora, almeno sulla carta, in attività, anche se il loro ultimo lavoro in studio risale ormai a ben 11 anni fa.
Ogni tanto ci sono alcuni suoni provenienti dalla galassia elettronica che riescono a colpirmi in maniera particolare. Il finale di questo podcast è appannaggio di un duo chiamato Space Afrika, che con l’album Honest Labour è riuscito a modificare la techno degli esordi per andare a creare un suono rallentato, rarefatto e notturno che prende qualcosa dal dubstep modificandolo in maniera personale. Joshua Inyang e Joshua Reid vengono da Manchester (anche se Reid adesso vive a Berlino), ed è proprio la città britannica ad essere immortalata nella copertina del disco, piovosa, notturna, illuminata dai lampioni e dalle luci delle macchine che si riflettono nella strada bagnata e sulla pensilina della “loro” fermata dell’autobus.
Gli Space Afrika hanno messo a fuoco ben 19 tracce tanto frammentarie e varie nel loro spaziare emotivo dall’ambient all’industrial, dall’hip-hop al dubstep con parti cantate, featuring, archi e chitarre in sottofondo, quanto incredibilmente coeso nel messaggio musicale. Il titolo dell’album in realtà è un tributo a un membro della famiglia nigeriana di Inyang, che, per la sua lealtà era chiamato proprio Honest Labour. In realtà i due hanno sempre descritto il loro modus operandi creativo come “labour of love” per cui è possibile che il riferimento sia anche a loro stessi. Un disco notturno, ammaliante, coinvolgente, dove textures di suoni vanno sempre perfettamente alposto giusto. Per rappresentare il disco ho scelto il primo brano in scaletta, quella “Yyyyyy2222” che ci fa entrare in un mood che indugia su territori hip-hop trasfigurati in pop orchestrale dalla pioggia che cade su una Manchester notturna. Uno dei migliori album del 2021.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Il prossimo episodio di Sounds & Grooves sarà l’ultimo della 17° stagione di radiorock.to prima della pausa estiva. All’interno troverete il ripescaggio dei meravigliosi Human Switchboard, il folle caleidoscopio sonoro dei Fiery Furnaces, il ritorno degli energetici Wolfhouds e il primo straordinario episodio solista di un grande artista come David Lance Callahan. Andremo anche a ripescare il meraviglioso calderone di stili che hanno reso immortali i Minutemen, le suggestioni sonore dei Red Krayola e della straordinaria coppia David Byrne-Brian Eno. Troverete il lirismo malinconico ed affascinante di Mark Eitzel da solo e con gli American Music Club, il grande ritorno degli Everything But The Girl e l’ultimo lavoro solista di Ben Watt. Il finale sarà dedicato alla scrittura straordinaria, ironica e malinconica di David Berman con i suoi progetti Purple Mountains e Silver Jews e un ennesimo tributo a Mimi Parker dei Low con una delle canzoni più oniriche del duo di Duluth. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to. A tutti voi l’augurio di passare una splendida estate!!! Ci risentiamo a settembre.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web. Potete anche scrivere a stefano@stefanosantoni14.it
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. BUTTHOLE SURFERS: Mexican Caravan da ‘Psychic… Powerless… Another Man’s Sac’ (1984 – Touch And Go)
02. THE JESUS LIZARD: Puss da ‘Liar’ (1992 – Touch And Go)
03. UNWOUND: Nervous Energy da ‘Fake Train’ (1993 – Kill Rock Stars)
04. FUGAZI: Long Distance Runner da ‘Red Medicine’ (1995 – Dischord Records)
05. PROTOMARTYR: Let’s Tip The Creator da ‘Formal Growth In The Desert’ (2023 – Domino)
06. THE FLAMING LIPS: Right Now da ‘Telepathic Surgery’ (1989 – Restless Records)
07. THE CHILLS: Underwater Wasteland da ‘Silver Bullets’ (2015 – Fire Records)
08. DIRTY PROJECTORS: Cannibal Resource da ‘Bitte Orca’ (2009 – Domino)
09. BECK: Round The Bend da ‘Sea Change’ (2002 – Geffen Records)
10. EELS: Not Ready Yet da ‘Beautiful Freak’ (1996 – DreamWorks Records)
11. GRIZZLY BEAR: Two Weeks da ‘Veckatimest’ (2009 – Warp Records)
12. NENEH CHERRY: Spit Three Times da ‘Blank Project’ (2014 – Smalltown Supersound)
13. AIR: All I Need (feat. Beth Hirsch) da ‘Moon Safari’ (1997 – Source)
14. SPACE AFRIKA: Yyyyyy2222 da ‘Honest Labour’ (2021 – Dais Records)
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Da venerdi scorso è online il nuovo Episodio di Sounds & Grooves dove troverete un omaggio a Andy Rourke degli The Smiths, per poi proseguire con il dream pop degli Slowdive(band), le meraviglie oniriche dei Bark Psychosis e molte altre meravigliehttps://t.co/la7h7iuXOT
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) June 6, 2023