Le avventure in musica di Sounds & Grooves proseguono nella 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nel diciassettesimo episodio stagionale di Sounds & Grooves troverete uno sguardo sulla Glasgow degli anni ’90, un ricordo di Andy Rourke e Jeff Buckley e molte meraviglie assortite
Torna l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 17° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) già sapete, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo più di 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Il diciassettesimo viaggio partirà con un omaggio a Andy Rourke degli Smiths, per poi proseguire con il dream pop degli Slowdive, le meraviglie oniriche dei Bark Psychosis, il revivalismo perfetto degli The Last Shadows Puppets, lo sguardo verso il folk dell’est europeo dei Beirut, un viaggio nella Glasgow degli anni ’90 con The Delgados, Mogwai e Urusei Yatsura, il suono di culto dei Family Fodder e il math rock dei 65daysofstatic. Andremo anche a riscoprire le meraviglie dei Three Mile Pilot, il doom avvolgente degli OM, e il cantautorato ispirato di BC Camplight, fermandoci a riassaporare con nostalgia l’unico album in studio di Jeff Buckley a ben 26 anni dalla scomparsa. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con un tributo all’ennesimo artista che ci ha lasciato troppo presto. É stato davvero un brutto colpo apprendere della scomparsa di Andy Rourke, bassista di un gruppo che ha toccato il cuore di molti e di cui è difficile dire qualcosa che non si sappia, visto che tra articoli, libri ed altro sono tantissimi quelli che hanno provato a sviscerare la parabola degli Smiths. Ammetto spudoratamente che da sempre tra Steven Patrick Morrisey e John Martin Maher in arte Johnny Marr (pseudonimo scelto per evitare di essere confuso con il batterista dei Buzzcocks) parteggio per quest’ultimo e che le esternazioni del primo difficilmente mi vanno a genio. In ogni caso questo non mi fa certo dimenticare le pagine meravigliose ed indimenticabili che hanno scritto. L’incontro tra i due, entrambi figli di immigrati irlandesi, avvenne mel 1982 a Manchester tramite una conoscenza comune, Steve “Pommy” Pomfret, un chitarrista che aveva già provato ad unire le sue forze con quelle del cantante. In realtà, già dal quel primo incontro, il povero Pommy capì subito che l’intesa tra i due sarebbe stata talmente totale che non ci sarebbe stato posto per lui nella futura band.
La sinergia tra il cantante e paroliere amante della letteratura decadente e il chitarrista che traeva i suoi suoni dall’amore viscerale per un modo di affrontare la sei corde che discendeva direttamente da Roger McGuinn dei The Byrds ha segnato definitivamente un’epoca. I due, insieme alla sezione ritmica composta da Andy Rourke al basso e Mike Joyce alla batteria, in soli quattro album pubblicati dal 1984 al 1987, hanno in qualche modo influenzato intere generazioni, creando un suono che abbandonava il post punk e la nascente new wave per tornare ad un certo modo di affrontare la melodia, segnata dai testo introversi e carichi di rabbia, passione e ironia del suo frontman. Il secondo album del gruppo si intitola Meat Is Murder e “Barbarism Begins At Home” oltre a dare a Morrisey il modo di parlare di violenze domestiche, è il perfetto manifesto proprio dell’abilità di Rourke. Saranno le manie di protagonismo di “Moz” probabilmente, a decretare la crisi e la fine della band, e le turbolenze finali non potranno mai, per parafrasare una delle loro canzoni più note, spengere quella luce che per alcuni anni è stata davvero abbagliante.

Il podcast continua andando a ripescare un album uscito 15 anni fa e che era già curiosamente fuori dal tempo anche nel momento della sua pubblicazione. Nel 2005 i The Little Flames fanno da supporto agli Arctic Monkeys. Nel retropalco l’incontro tra il chitarrista dei primi, Miles Kane, ed il leader dei secondi, Alex Turner, si trasforma presto in una solida e stretta amicizia. Da quel momento, anche se Kane formerà i The Rascals e Turner proseguirà la (splendida) avventura Arctic Monkeys, il rapporto tra i due non si interromperà mai fino alla decisione di creare un progetto parallelo chiamato The Last Shadow Puppets. Per l’esordio discografico, i due riescono a convincere il produttore James Ford ad aiutarli dietro al mixer e dietro ai tamburi.
The Age Of Understatement esce il 15 aprile 2008. Il disco presenta degli splendidi arrangiamenti orchestrali composti da Owen Pallett ed eseguiti dalla London Metropolitan Orchestra, mentre l’artwork dell’album mostra un’immagine in bianco e nero del 1962, opera del fotografo Sam Haskins, che ritrae una giovane donna seduta sul pavimento. Il disco è stato registrato in un’atmosfera rilassata nella campagna francese, e si allontana dalle traiettorie degli Arctic Monkeys andando a ricercare arrangiamenti naif, il suono Merseybeat e alcune melodie pop francesi del passato. Un tuffo a ritroso nel tempo di enorme classe ed eleganza come dimostra la splendida “My Mistakes Were Made For You” inserita in scaletta. Un album che suona ancora attuale proprio perché già al momento dell’uscita non era legato a nessuna scena contemporanea.

Un altro gruppo da riscoprire sono sicuramente i Family Fodder. Le ristampe da parte della Staubgold dei primi album (soprattutto il primo Monkey Banana Kitchen del 1981), hanno rinnovato l’interesse per una delle band di culto dell’underground londinese nata alla fine degli anni ’70 e capitanata da Alig “Fodder” Pearce (chitarra, basso, sax e tastiere). A muoversi intorno al polistrumentista, produttore e padrone di casa è sempre stata una varietà di musicisti mai statica.
A dare però un’identità definita al loro eccentrico post-punk, sempre in bilico tra pop e sperimentazione, è stata la voce di Dominique Levillain che oscillava tra inglese e francese, per un insieme che è facile riscontrare come una delle influenze più evidenti di un gruppo importantissimo negli anni a seguire come gli Stereolab. Ascoltate per credere la “Savoir Faire” inserita in scaletta, prodotta da Charles Bullen e David Cunningham dei Flying Lizards sotto lo pseudonimo di Executives for Executives. Tra l’altro, proprio questo rinnovato interesse ha portato Alig “Fodder” a riunire la band originale con la sola eccezione di Bee Ororo al posto della Levillain.

Iniziamo un piccolo viaggio in Scozia, partendo da un gruppo i cui membri hanno un curioso interesse comune: il ciclismo. I The Delgados si sono formati nel 1994 dopo che gli amici Alun Woodward (chitarra e voce), Stewart Henderson (basso) e Paul Savage (batteria) erano stati espulsi dalla band dove suonavano allora Bubblegum. Con l’aggiunta dell’allora fidanzata (e poi moglie) di Savage, Emma Pollock (chitarra e voce), la band prese il nome da Pedro Delgado, un ex corridore professionista spagnolo di ciclismo su strada che vinse il Tour de France del 1988. Al posto di cercare un’etichetta per la pubblicazione del loro materiale, i quattro decidono di crearne una ex novo. Ecco quindi che arriva la Chemikal Underground, pronta a mettere sotto contratto anche altri due gruppi emergenti provenienti dall’underground scozzese: i Mogwai e gli Arab Strap. Va da se che è diventata una delle più rinomate etichette indipendenti.
L’8 giugno 1998 il gruppo fa uscire il secondo lavoro, il cui titolo, Peloton, rimanda ancora a suggestioni ciclistiche. Il suono si distacca dal lo-fi che aveva caratterizzato il fortunato esordio Domestiques di due anni prima, presentando arrangiamenti più complessi, melodie pop ad alternarsi con sferzate chitarristiche rumorose, e l’inserimento di archi e fiati come in questa “Clarinet”. Altri tre album in studio, a mostrare sempre la voglia di cambiare, inserendo folk-rock, cambi di tempo, avvicinandosi ad alcune soluzioni tipiche della Too Pure e del post-rock britannico degli anni ’90, prima di chiudere i battenti nel 2004 soprattutto per l’abbandono del bassista Stewart Henderson stanco “di riversare così tanta energia e tempo in qualcosa che non sembra mai ricevere l’attenzione o il rispetto che sento di meritare”. Lo scorso anno la band ha annunciato di essersi riformata e di voler suonare insieme per la prima volta dopo 17 anni.

Visto che ne abbiamo parlato prima, andiamo a trovare i Mogwai, anche se non proponendo un brano dal loro album di esordio per la Chemikal Underground, Young Team, che fece scoprire nel 1997 il post-rock anche alla parte della stampa specializzata britannica meno di nicchia. Il loro approccio melodico e quasi Floydiano alternato a squarci estremamente violenti, ha reso il loro suono estremamente riconoscibile. Stuart Braithwaite (chitarra, voce) e Dominic Aitchison (basso) si sono incontrati a Glasgow nel 1991 e quattro anni dopo hanno creato il primo nucleo dei Mogwai con il vecchio compagno di scuola Martin Bulloch (batteria) e John Cummings (chitarra), cui nel 1999 si unirà Barry Burns (chitarra, piano, sintetizzatore, voce). Il nome della band deriva da quello delle creature del film Gremlins, anche se Stuart Braithwaite ha sempre detto che “il nome non ha un vero significato e abbiamo sempre avuto l’intenzione di trovarne uno migliore, ma come per molte altre cose non ci siamo mai riusciti”. La parola mogwai significa “spirito maligno” o “diavolo” in cantonese.
I Mogwai compongono tipicamente lunghi brani strumentali basati sulla chitarra, caratterizzati da contrasti dinamici, linee melodiche di basso e un uso massiccio di distorsioni ed effetti, con rari interventi vocali. La parte evocativa del loro suono trova sbocco nel 2013 con la composizione della colonna sonora di una serie TV Francese intitolata Les Revenants, adattamento dell’omonimo film di Fabrice Gobert, dove la resurrezione di alcune persone ritenute defunte coincide con alcuni avvenimenti inquietanti ed inspiegabili. Un anno dopo tocca all’album Rave Tapes riprendere da questa nuova visione evocativa ed atmosferica facendo emergere solo a tratti l’elettricità del post-rock degli esordi e guidandoci in un nuovo mondo malinconico e spettrale che potete trovare in “Hexon Bogon”.

Sicuramente i Mogwai sono riusciti a creare in Gran Bretagna un movimento interessante, con alcuni gruppi pronti a muoversi su certe direzioni sonore lasciando spazio alla propria personalità. Questo è sicuramente il caso di un quartetto che avevo in qualche modo quasi dimenticato come i 65daysofstatic. Il gruppo nasce a Sheffield grazie all’incontro, nel 2001, dei polistrumentisti Paul Wolinski e Joe Shrewsbury, che dopo due anni verranno raggiunti da Rob Jones e Simon Wright. I quattro si muovono nei solchi dei Mogwai, con un’alternanza piena di tensione tra momenti di calma e violente cavalcate elettriche.
Diversamente dai Mogwai i quattro, che hanno sempre mantenuto un profilo estremamente basso fornendo notizie su di loro con il contagocce, hanno sempre inserito una importante componente elettronica nei loro solchi.Dal loro splendido esordio sulla lunga distanza The Fall Of Math, uscito nel 2004, ho voluto proporre questa “This Cat Is A Landmine”, solo un esempio della loro modalità di scrittura imprevedibile ed evocativa, interamente strumentale. Il gruppo è ancora in attività nonostante negli ultimi 5 anni non abbia pubblicato nuova musica.

Chi a Glasgow negli anni ’90 era più propenso ad andare sul versante lo-fi e power pop e sicuramente stata una band che prendeva il proprio nome da un manga giapponese: gli Urusei Yatsura. Nel 1993 due studenti della Glasgow University, Graham Kemp e Fergus Lawrie, decidono di formare un gruppo musicale. La cosa prende corpo con l’ingresso di una sezione ritmica formata da Elaine Graham (basso) e da suo fratello Ian (batteria). Il loro entusiasmo e la capacità di scrittura vengono notate da John Peel, pronto ad ospitarli nella sua trasmissione radiofonica sulla BBC. E proprio l’esibizione dei ragazzi di Glasgow alla BBC a far drizzare le antenne ai responsabili dell’etichetta Ché Trading.
Un impeto travolgente che li porta a pubblicare nel 1996 l’esordio We Are Urusei Yatsura, album esuberante tra rumorismo e melodia, con i ritornelli che entrano in testa per non uscirne più. Non ci credete? Ascoltate “First Day On A New Planet” e vi ricrederete. Dopo soli altri due album, gli Urusei Yatsura si sono sciolti nel giugno 2001, lasciando Graham Kemp a lavorare su materiale solista e gli altri membri della band a formare i Projekt A-ko. Nel 2011, Lawrie ha formato il gruppo a tre elementi Angel of Everyone Murder, con Sarah Glass e Lea Cummings al basso, e ha pubblicato un doppio album autointitolato su Kovorox Sound.

All’inizio degli anni ’90, periodo di grande creatività, il cantante chitarrista Pall Jenkins fonda a San Diego i Three Mile Pilot insieme al bassista Armistead Burwell Smith IV e al batterista Tom Zinser. Il gruppo partiva da un certo rallentamento del post-hardcore e indugiava su profondi ed intensi umori post-punk. Il primo album del trio esce nel 1992 e curiosamente presenta un titolo in dialetto siciliano: Nà Vuccà Dò Lupù. Questa declinazione scura e desolata dell’hardcore porterà la band ad avere i favori di una parte degli addetti ai lavori ma mai quel successo di pubblico che avrebbero meritato. Un suono ridotto all’osso (voce, basso e batteria), un’ambientazione passionale ma riservata che trasporta in paesaggi desolati ma affascinanti come dimostra la splendida “Sore Loser” inserita in scaletta.
Dopo altri due album ed un EP, il gruppo si sfalda nel 1997 alla ricerca di altre situazioni sonore. Armistead Burwell Smith IV si unisce ai Pinback mentre Jenkins insieme al tastierista Tobias Nathaniel, tastierista e collaboratore saltuario dei Three Mile Pilot, va a formare un altro splendido gruppo di culto: The Black Heart Procession. A sorpresa il trio si è riformato nel 2009 inizialmente solo per alcuni concerti. Il feeling era talmente buono da portare la band in studio. The Inevitable Past is the Future Forgotten è stato pubblicato nel 2010 e rimane, momentaneamente, l’ultimo album registrato dal trio.

Dopo la chiusura dell’avventura Sleep, band che ha ridisegnato i confini dello stoner rock, il cantante e bassista Al Cisneros insieme al batterista Chris Hakius decisero nel 2003 di formare una loro band, chiamandola OM, un duo dedito ad una sorta di lento rituale doom con precisi riferimenti religiosi. Om è un termine indeclinabile sanscrito che ha il significato di solenne affermazione, ed è anche il mantra più sacro e rappresentativo della religione induista. Già dal nome quindi il duo vuole trasferire in musica una personale declinazione spirituale ed esoterica della psichedelia. Advaitic Songs, è il loro quinto (secondo con il batterista Emil Amos al posto di Hakius) e tuttora ultimo album in studio, pubblicato nel 2012 per la Drag City.
La band si dimostra maestra nel creare ambientazioni evocative e trascendentali, dando vita ad una vera e propria saga oscura, orientaleggiante, mistica e spirituale. Un doppio album che vede la presenza del nuovo membro Robert Aiki Aubrey Lowe (ex 90 Day Men) alla voce e cori, e che presenta ben tre brani su 5 sopra i dieci minuti. Ancora una volta l’iconografia cristiana trova spazio in una loro cover, con Giovanni Battista che campeggia nella copertina dell’album. “State Of Non-Return” è uno dei brani di maggior impatto del disco, perfetta per mostrare la maniera evocativa ed epica di composizione del duo statunitense.

Altro gruppo che non passavo da moltissimo tempo e che ho deciso di riproporre. Zach Condon da Santa Fe, New Mexico ha intrapreso un viaggio molto particolare chiamando la propria creatura musicale Beirut, proprio come la capitale del Libano. Ragione sociale scelta a causa della storia della città che l’ha vista spesso come luogo di scontro tra culture diverse. Da ragazzo Condon è stato trombettista in un gruppo jazz e un viaggio da adolescente in Europa con il fratello gli ha aperto nuovi orizzonti ed un amore per il folk dell’Europa dell’Est che ha sempre cercato di unire con la musica pop e indie rock occidentale sin dall’esordio nel 2006 di Gulag Orkestar (Gulag come l’agenzia governativa sovietica che amministrava la giustizia penale, mentre orkestar è la parola croata per “orchestra”).
Condon ha collaborato sin dall’inizio con di Jeremy Barnes e Heather Trost, non a caso membri di un altro gruppo che prende la propria ispirazione dalla musica dell’Europa orientale: A Hawk And A Hacksaw. Un anno più tardi, per il secondo, ispiratissimo album dei Beirut intitolato The Flying Club Cup, Condon viene ispirato da Jacques Brel e dalle chanson francesi. Affascinato dalla drammaticità e dagli arrangiamenti pop ma sopra le righe di alcune canzoni, Condon si è addentrato in questo territorio quasi sconosciuto iniziando ad affiancare alla sua tromba anche corni francesi e atri ottoni, e lavorando con fisarmonica e organo invece che con l’ukulele. Una sorta di pop classico di grande effetto come dimostra la splendida “Cliquot” che trovate nel podcast. Una musica allo stesso tempo allegra ma malinconica, dimessa e trascinante, che guarda al passato ma suona estremamente originale.

Da ormai 26 lunghi anni, ogni 26 maggio, il pensiero va a Memphis e più precisamente alle rive del Wolf River, un affluente del Mississippi. Impossibile non ripensare a quella maledetta sera del 29 maggio 1997. Jeff Buckley, a bordo di un furgone guidato dal suo roadie Keith Foti, si stava dirigendo verso gli studi di registrazione quando, alla vista del Wolf River, gli viene una voglia improvvisa di rinfrescarsi vista la serata afosa. La riva del fiume è piena di detriti, rifiuti taglienti, per questo Jeff decide di entrare in acqua vestito, con gli stivali addosso. Come detto fa caldo a Memphis, più di 25 gradi anche se sono le 9 di sera. Foti è preoccupato, vede Jeff andare troppo al largo e gli chiede di tornare indietro, ma Jeff non lo ascolta: sta cantando “Whole Lotta Love”. Quando il roadie vede un battello, un rimorchiatore troppo vicino a Jeff urla all’amico di stare attento. Per un attimo Foti gli volta le spalle per mettere al riparo dall’acqua lo stereo portatile, ma quando si gira di nuovo verso il fiume, Jeff Buckley non c’è più.
Il suo corpo verrà trovato solo solo il mattino del 4 giugno, avvistato da un passeggero del traghetto American Queen, impigliato tra i rami di un albero sotto il ponte di Beale Street, la via più importante di Memphis. Gene Bowen (il tour manager di Buckley) riconobbe il corpo da un piercing all’ombelico e dalla maglietta indossata. Nonostante alcuni dubbi dei soliti malpensanti, l’autopsia non rilevò tracce di alcol etilico o di droghe. Il mondo musicale perse un meraviglioso interprete, una voce angelica, un talento cristallino come quello del padre Tim, anche lui morto giovanissimo anche se in circostanze molto diverse. Di lui ci resta troppo poco: un album straordinario come Grace, altre tracce raccolte in qualche frettolosa compilation. Ogni volta che ascolto una meraviglia come “Lover, You Should’ve Come Over” un groppo prende lo stomaco, la commozione di riascoltarlo e la rabbia per aver perso davvero troppo presto un talento enorme.

Quando ha iniziato a pubblicare dischi nel 2005, con il supporto di membri che poi sarebbero entrati a far parte dei War On Drugs e la partecipazione come guest-star all’album Epic di Sharon Van Etten, il futuro di Brian Christinzio aka BC Camplight sembrava luminoso. “Ma se fossi rimasto sarei morto. Punto”. Così il songwriter ha seguito il consiglio di un amico di sfuggire alle sue dipendenze da alcol e droga a Philadelphia e di trasferirsi a Manchester, dando vita nel 2014 al suo album di debutto per Bella Union, How To Die In The North. Ma non aveva fatto i conti con la burocrazia: appena due giorni prima della sua pubblicazione è stato espulso dal paese. Tornato nel Regno Unito (con passaporto italiano), realizza Deportation Blues, ma pochi giorni prima della sua uscita, nel 2016, muore il padre, scatenando un esaurimento che ispira Shortly After Takeoff, l’ultima parte di quella che Christinzio chiama la sua Trilogia di Manchester.
C’è una maledizione che dice che BC Camplight non può andare avanti senza essere rimandato indietro? Che il suo materiale migliore debba necessariamente nascere da un trauma emotivo? Durante la realizzazione del suo nuovo album, The Last Rotation Of Earth, la relazione di Christinzio con la sua fidanzata si è sgretolata dopo nove anni di vita in comune. L’album segue questa rottura, senza dimenticare il passato di battaglie contro la dipendenza e per la sua salute mentale. Il risultato però è un disco straordinario, dove il pop viene a patti con una scrittura coinvolgente e ironica come nell’ispiratissima traccia che da il titolo al nuovo album.

Ci avviciniamo a fine podcast con quello che, lo ammetto spudoratamente, è uno dei miei album della vita. Gli incubi e sogni dei Bark Psychosis hanno ispirato il critico Simon Reynolds a coniare uno dei termini più abusati in musica negli anni ’90, “post-rock”. Quando si parla della band di Graham Sutton (chitarra e voce), Daniel Gish (tastiere e piano), John Ling (basso e campionatore), e Mark Simnett (batteria e percussioni) la mente va sempre a vagare di notte nei sobborghi londinesi descritta in capitoli cinematici di rara suggestione onirica all’interno di quel tesoro nascosto chiamato Hex (1994). In copertina c’è la chiesa di St. John at Hackney vista di notte dai binari vicino alla stazione di Stratford, mentre sul terreno si stagliano le ombre dei componenti del gruppo, una zona che recentemente ha visto la costruzione del Parco Olimpico di Londra.
I paesaggi industriali urbani, desolanti e crepuscolari che hanno ispirato l’artwork li ritroviamo tra i solchi del disco, in un’alternanza di silenzi e di miniature sonore, cortometraggi immaginifici. Quando si ascolta “A Street Scene” tra arpeggi di chitarra, tastiere avvolgenti e voce sussurrata, una lacrimuccia si fa strada tremante, tratteggiando un paesaggio sonoro che provoca la catarsi dell’anima. Graham Sutton tornerà a sorpresa solo 10 anni più tardi a rispolverare il nome Bark Psychosis con un album, Codename: Dustsucker, che provoca qualche sussulto per le atmosfere simili al predecessore pur non eguagliandone l’impatto sonoro ed onirico. Album che vede dietro i tamburi Lee Harris dei Talk Talk.

L’attitudine intimista e introversa di alcune band agli albori degli anni ’90, gli aveva fatto guadagnare l’appellativo (non certo benevolo in realtà) di shoegazers. Nello stesso anno, il 1991, la Creation Records, pubblicando Loveless dei My Bloody Valentine e Just For A Day degli Slowdive era riuscita letteralmente ad aprire un nuovo mondo. I due gruppi erano i due lati della stessa medaglia, più sferzanti i primi, più meditativi i secondi. Due anni dopo la situazione per Neil Halstead e Rachel Goswell non era semplice. Dovevano da una parte confermare il successo dell’esordio, dall’altro soddisfare la Creation Records, che dopo essere stata lasciata in bolletta da Kevin Shields, voleva dagli Slowdive un album facile da promuovere, radiofonico e commerciabile. Inoltre, last but not least, i due dovevano fare i conti con la fine della loro relazione sentimentale.
La collaborazione con Brian Eno non fu abbastanza per Halstead, che non resse a lungo allo stress in sala di registrazione rifugiandosi da solo in un cottage nel Galles. Il secondo album, Souvlaki, uscito ben 30 anni fa e che ha il compito di chiudere il podcast, come detto ha avuto una gestazione tutt’altro che semplice, con il chitarrista pronto a prendere da solo le redini del gruppo. Gli arrangiamenti si fanno più semplici, ma le visioni allucinatorie del leader (le sue allusioni all’uso di sostanze stupefacenti sono abbastanza chiare nei testi) portano i brani su una dimensione onirica, come nella splendida e visionaria “Souvlaki Space Station”. Neil e Rachel rimarranno insieme, fondando i Mojave 3. Gli Slowdive torneranno insieme parecchi anni dopo, pubblicando un nuovo album nel 2017.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete il noise oltraggioso dei Butthole Surfers, la visceralità dei Jesus Lizard, l’hardcore colto e maturo di Unwound e Fugazi e la conferma dei Protomartyr. Andremo anche a ripescare la psichedelia dei Flaming Lips, il suono cristallino dei The Chills e il pop sghembo di Dirty Projectors e Grizzly Bear. Lo sguardo tornerà indietro verso un ispirato Beck di annata, il primo splendido album di Mark Oliver Everett aka Eels e l’eleganza di Neneh Cherry. Il finale sarà appannaggio di una delle canzoni più indimenticabili degli Air e di uno dei progetti di elettronica più interessanti degli ultimi anni: Space Afrika. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web. Potete anche scrivere a stefano@stefanosantoni14.it
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01.THE SMITHS: Barbarism Begins At Home da ‘Meat Is Murder’ (1985 – Rough Trade)
02. THE LAST SHADOW PUPPETS: My Mistakes Were Made For You da ‘The Age Of The Understatement’ (2008 – Domino)
03. FAMILY FODDER: Savoir Faire da ‘Monkey Banana Kitchen’ (1980 – Fresh Records)
04. THE DELGADOS: Clarinet da ‘Peloton’ (1998 – Chemikal Underground)
05. MOGWAI: Hexon Bogon da ‘Rave Tapes’ (2014 – Rock Action Records)
06. 65daysofstatic: This Cat Is A Landmine da ‘The Fall Of Math’ (2004 – Monotreme Records)
07. URUSEI YATSURA: First Day On A New Planet da ‘We Are Urusei Yatsura’ (1996 – ché)
08. THREE MILE PILOT: Sore Loser da ‘Nà Vuccà Dò Lupù’ (1992 – Negative Pulse Records)
09. OM: State Of Non-Return da ‘Advaitic Songs’ (2012 – Drag City)
10. BEIRUT: Cliquot da ‘The Flying Club Cup’ (2007 – 4AD / Ba Da Bing!)
11. JEFF BUCKLEY: Lover, You Should’ve Come Over da ‘Grace’ (1994 – Columbia)
12. BC CAMPLIGHT: The Last Rotation Of Earth da ‘The Last Rotation Of Earth’ (2023 – Bella Union)
13. BARK PSYCHOSIS: A Street Scene da ‘Hex’ (1994 – Circa)
14. SLOWDIVE: Souvlaki Space Station da ‘Souvlaki’ (1993 – Creation Records)
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Da venerdi scorso è online il nuovo Episodio di Sounds & Grooves dove troverete un omaggio a Andy Rourke degli The Smiths, per poi proseguire con il dream pop degli Slowdive(band), le meraviglie oniriche dei Bark Psychosis e molte altre meravigliehttps://t.co/la7h7iuXOT
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