Le avventure in musica di Sounds & Grooves si uniscono al resto della banda per la 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nel quinto episodio stagionale di Sounds & Grooves ci sarà un sentito omaggio a Mimi Parker e Keith Levene
Torna l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 17° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) già sapete, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore e le storture dei nostri tempi come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che Sounds & Grooves vuole seguire, soprattutto in questo periodo confuso ed oscuro.
Nel quinto viaggio della nuova stagione troverete il mio piccolo ma sentito omaggio a due enormi artisti che sono venuti a mancare da poco: Mimi Parker dei Low e Keith Levene dei Public Image Limited. Ci saranno anche le ispirate mutazioni di King Krule, l’entusiasmo intelligente dei Parquet Courts e due maestri di songwriting e arrangiamenti come Robert Forster e Michael Head con la sua Red Elastic Band. Andremo a ripescare la (mai stucchevole) magniloquenza dell’esordio di John Grant e la freschezza di Courtney Barnett. C’è spazio anche per la magia della voce incantevole di Melanie De Biasio, i viaggi crepuscolari degli Spain ed l’intelligente (e solo apparentemente fragile) lo-fi dei Fenster. Il finale sarà appannaggio delle traiettorie stranianti ma evocative di Vicky Mettler alias Kee Avil e delle ambiziose partiture dei These New Puritans. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con il tributo ad un’artista e (non ho dubbi) una persona straordinaria. Tre anni fa, colpito dall’intensità emotiva di Double Negative e dal fatto che finalmente facevano tappa a Roma, mi ero recato all’Auditorium della capitale per vedere per la prima volta i Low dal vivo. Ero rimasto sbalordito non solo dalla capacità del trio di controllare rumore e melodie in modo così apparentemente totale, ma soprattutto dalla naturalezza e semplicità da parte dei tre musicisti davvero incredibile. Mi aveva quasi commosso l’essere così sinceramente grato, felice e quasi in imbarazzo da parte di un musicista che calca i palcoscenici da 25 anni come Alan Sparhawk, e allo stesso tempo la timida tenerezza della consorte Mimi Parker che, dopo aver cantato in maniera angelica e suonato i (pochi) tamburi davanti a se con precisione e tribalismo quasi “tuckeriano”, si era concessa solo un veloce saluto con la mano quasi imbarazzato prima di sparire subito dietro al pannello a led posizionato dietro al suo drumkit.
A distanza di tre anni, i coniugi di Duluth avevano lasciato da parte il fido bassista Steve Garrington e con Hey What avevano proseguito nel loro straordinario percorso sonoro capace di alternare manipolazioni tecnologiche a intense e celestiali armonie alla ricerca di un miracoloso e ibrido equilibrio tra armonia e dissonanze, tra spasmi di feedback e voci eteree, tra gospel e risacche rumoristiche, tra slowcore e avanguardia, Avevamo accolto con preoccupazione le prime notizie sulla malattia di Mimi Parker, un cancro ovarico con cui combatteva da fine 2020 e che speravamo fosse in recessione. L’uscita di Hey What aveva quasi fatto passare la malattia in secondo piano, ma il tumore, vigliacco, aveva altri piani. La cancellazione di parte del Tour 2022 era stata solo la prima avvisaglia, poi, il 5 novembre, la notizia che non avremmo mai voluto leggere.
A colpirmi è stato il cordoglio pressoché unanime di tutto il mondo della musica indipendente e non solo. Tutti (o quasi) hanno avuto un pensiero per Mimi, a dimostrazione del lascito non solo artistico ma anche umano. Il lungo post di Zak Sally, ex bassista dei Low, che potete trovare sulla pagina Facebook della band, è splendido e commovente, cartina di tornasole della meraviglia irradiata dalla cantante-batterista e in generale dalla coppia. La cosa dei Low che lascia stupefatti è pensare come Alan Sparhawk e la sua consorte Mimi Parker dopo aver esordito nel 1994 con un capolavoro come I Could Live In Hope, siano riusciti, a distanza di tanti anni, ancora a sorprendere e ad emozionare. E allora per questo podcast ho voluto in due brani, celebrare due momenti diversi della loro carriera con un comune denominatore (Alan Sparhawk mi perdonerà): la voce emozionante e cristallina di Mimi Parker, anche se il fascino dei Low risiede talvolta proprio nell’alternarsi delle voci dei due.
L’elogio della lentezza, il fascino della malinconia, la perfezione formale di “Embrace”, ballata tratta da Things We Lost In The Fire, esercita, a distanza di 21 anni, un fascino difficile da spiegare a parole, sensazioni che rimangono appiccicate addosso, una forza evocativa emanata da rintocchi spettrali di batteria, accordi di chitarra sospesi nell’aria, il violino che accentua un pathos che non cala mai di tono. Una gemma di folk scuro, costruita alla perfezione tra ombre (molte) e luci (poche) che ne aumentano il potere onirico. Allo stesso modo il chiaroscuro che viene eroso ma mai travolto dalle schegge elettroniche di “Fly” (da Double Negative) a sottolineare come a distanza di tanti anni i due non abbiano perso un grammo della loro visione suggestiva, anzi. Una band che quando riesce ad entrare nel cuore e nell’anima poi non ne esce più, un’artista che con la sua voce celestiale, i suoi precisi colpi di tom e la sua sensibilità ci mancherà da morire. Ciao Mimi.
Ed è stata davvero una settimana tremenda per il mondo della musica (un periodo davvero orribile visto che mentre scrivo è arrivata anche la notizia della scomparsa di un altro grande come Wilko Johnson) percé pochi giorni dopo che Mimi Parker ha lasciato questo piano dell’esistenza, l’11 novembre, è arrivata anche la notizia della scomparsa di Keith Levene, uno dei più innovativi ed influenti chitarristi della storia del rock. Curiosamente, dopo aver fatto il roadie per gli Yes, aveva co-fondato a 16 anni i The Clash con Mick Jones, lasciando però il gruppo prima del debutto, dove è contenuto il suo unico lascito come autore: “What’s My Name”. Si può ben dire che Levene ha rivoluzionato il linguaggio diventando, con la sua sei corde affilatissima, la prima ispirazione per (quasi) tutti i chitarristi post-punk e noise rock degli anni a venire. Quella di Levene è un’altra, enorme perdita per il mondo musicale. Senza la sua ricerca schizofrenica, le sue chitarre in alluminio, le sue soluzioni mai accomodanti, gran parte della musica degli anni ’80 e successiva sarebbe stata molto diversa.
Dopo la fine della più grande “truffa del rock ‘n’ roll”, i Sex Pistols, John Lydon abbandonò il nome di battaglia di Johnny Rotten per fondare proprio insieme a Levene i Public Image Ltd. Ai due si aggiunsero successivamente il bassista Jah Wobble e il batterista Jim Walker. Dopo l’album di debutto che aveva visto Lydon abbandonare le ultime scorie del punk per approdare ad un suono più industriale, scuro e sperimentale, ecco uscire nel 1979 il secondo album, una delle pietre miliari della nascente new wave, un album pubblicato come prima tiratura in tre 12″ contenuti in una tonda scatola di freddo metallo. Metal Box è sorretto dall’imponente basso dub di Wobble. le metalliche sferzate della chitarra di Levene, e la voce di Lydon che si contorce rantolando. La splendida litania di “Swan Lake” rappresenta perfettamente l’ottundente meraviglia di un album storico per il post-punk tutto. Se volete riscoprirlo, la Virgin lo ha recentemente ristampato in un succoso box (naturalmente di metallo) contenente un libro, varie cartoline e ben 4 CD: l’album rimasterizzato, varie B-Sides e BBC Session, dei mix inediti, ed una testimonianza live al The Russell Club (The Factory) di Manchester nel giugno del 1979.
Dopo il doveroso ricordo di due artisti che ci hanno lasciato davvero troppo presto, andiamo a parlare di un ragazzo ancora giovane ma che ha dato già dimostrazione di un grande talento compositivo. Notevolissimo il processo di crescita del londinese Archy Marshall aka King Krule. Il giovanissimo prodotto della working class britannica già aveva colpito moltissimo pubblico e addetti ai lavori nel 2013 con lo splendido 6 Feet Beneath The Moon, ma nel 2017 è riuscito a fare ancora meglio con un doppio album intitolato The Ooz. Marshall agisce come un mutaforma schizoide tra cantautorato classico, modernità, post-punk, swing e jazz con una maturità compositiva clamorosa per i ventitrè anni che aveva all’epoca della pubblicazione di questo disco.
Un interprete multiforme, un talento classe 1994 che fortunatamente non sembra essersi perso per strada e che (spero) ci regalerà ancora moltissime cose negli anni a seguire (anche se il Man Alive! pubblicato due anni fa personalmente non mi ha entusiasmato più di tanto). Il tempo e il talento sono dalla sua parte. La “Biscuit Town” inserita in scaletta non è solo l’apertura ma anche una delle tracce più belle del disco.
Il cantante-chitarrista Andrew Savage e il chitarrista Austin Brown si sono conosciuti a Denton, in Texas, mentre erano entrambi studenti alla University of North Texas, in un club studentesco chiamato Knights of the Round Turntable, dove ascoltavano e condividevano nuovi dischi. Andrew ha poi avuto diversi progetti musicali durante il college, tra cui Teenage Cool Kids e Fergus & Geronimo. Ai due si aggiunse presto prima Max Savage, batterista e fratello di Andrew, poi il bassista Sean Yeaton. Dopo l’università i tre si trasferirono a Brooklyn e dando vita ai Parquet Courts e facendo il loro esordio discografico nel 2011 con American Specialties. La band è arrivata nel 2016 a scrivere il loro quinto eccitante capitolo chiamato Human Performance, un album dove si miscelano in maniera perfetta tutte le loro suggestioni e ispirazioni: indie rock, psichedelia e spruzzate post-punk.
Il tutto condito da uno spiccato senso della melodia e da una capacità di scrittura che riescono ad elevare la band ben al di sopra della media. Pochi hanno la loro personalità, pochi riescono a rendere così attuali generi che hanno avuto il loro apice nel passato. Il loro suono è spesso spigoloso ma capace di aprire squarci melodici di grande effetto, il tutto condito da gran un senso dell’ironia. L’album è il compimento di tutte le loro esperienze ed influenze, tra post-punk e funk, noise, pop e lo-fi, il tutto espresso con una lucidità ed una bravura disarmante, come dimostra la trascinante accelerazione della “Berlin Got Blurry” inserita in scaletta.
Che gran gruppo sono stati i Go-Betweens. Formati a Brisbane, Australia da due studenti dell’Università del Queensland così diversi ma così vicini come Grant McLennan e Robert Forster. Più aperto e comunicativo il primo, più scuro ed introverso il secondo, trovarono comunque il modo di essere inseparabili e di creare tra le pagine più belle dell’indie rock australiano degli anni ’80. La pausa momentanea ed i progetti solisti non intaccarono l’amicizia fraterna tra i due che venne tragicamente spezzata nel 2006 quando, un anno dopo l’ultimo capitolo della band Ocean Apart, McLennan morì colpito da un improvviso arresto cardiaco. Da quel momento il capitolo The Go-Betweens è stato considerato definitivamente chiuso e Forster, dopo un momento di comprensibile vuoto, ha ripreso il suo cammino solista che, nel solco della sua vecchia band, non si mostra mai eccentrico ma predilige la profondità delle melodie.
Inferno, uscito lo scorso anno, è il suo settimo album in studio, l’ennesimo disco che mostra una scrittura diretta, genuina, dove si alternano momenti cupi e visionari ad altri più aperti e solari. “One Bird In The Sky” è uno dei brani più riusciti, di grande eleganza e forza espressiva, una ballata straordinaria che chiude l’intero lavoro come meglio non si potrebbe. Se siete appassionati di letture musicali e non, Forster ha anche scritto uno splendido libro di memorie, intitolato ”Grant And I” per celebrare gli anni trascorsi con il suo grande amico e sodale Grant McLennan.
Michael Head è sempre stato uno dei talenti più cristallini del pop rock britannico, nato a Liverpool ma innamorato della musica statunitense, autore brillante sia con i The Pale Fountains che con gli Shack, gruppi che avrebbero meritato sicuramente più fortuna e considerazione. Pensavamo di averlo perso per strada, anche se qualche tempo fa con la sua nuova formazione chiamata The Red Elastic Band aveva fatto uscire Artorius Revisited, un EP più che dignitoso. Ma due anni fa non avrei mai creduto di poterlo ritrovare così in forma. Adiós Señor Pussycat era uno splendido album, in cui Head allontanava i suoi ultimi difficili anni, e ci mostrava tutta la sua abilità nel costruire canzoni scintillanti e meravigliose, mirabilmente sospese tra rock, pop e folk.
La sua chitarra cristallina, ed la sua capacità di trasferire i Love di Arthur Lee a Liverpool è stata (fortunatamente) confermata con l’uscita di Dear Scott, album meravigliosamente prodotto dall’ex-Coral Bill Ryder-Jones. I fiati, gli archi e la chitarra acustica di Head si fondono insieme in dodici brani eleganti e arrangiati meravigliosamente, dodici ballate che contengono al loro interno un cambio di passo mozzafiato. “Gino And Rico” è solo un esempio di come questo disco (insieme al predecessore) riesca a farci innamorare, ancora una volta perdutamente. Il magazine britannico Mojo l’ha addirittura messo in cima alla classifica degli album del 2021!
E’ sempre stata burrascosa la vita di John Grant, artista arrivato relativamente tardi al successo e che ha dovuto fare i conti con una spirale autodistruttiva che ha comportato, tra le altre cose, dipendenze da cocaina e alcol. Già dall’adolescenza in Colorado aveva dovuto far fronte all’omofobia di molti coetanei, pronti a guardarlo con odio e disgusto. La cosa gli ha comprensibilmente provocato uno stato di ansia dovuto dal dover continuamente controllare i suoi comportamenti, che ha avuto un’influenza importante sulla sua vita. Già da giovane Grant era appassionato di musica, ascoltava i Cure, Siouxsie and the Banshees, i Cocteau Twins, Dead Can Dance, Alien Sex Fiend, Bauhaus e New Order. Dopo un periodo in Germania, Grant è tornato in Colorado, e ha creato una band, gli Czars, ammirata dalla critica, ma per lo più ignorata dal pubblico. Dopo sei album in studio gli Czars si sono sciolti nel 2004.
A quel punto ha cercato diversi lavori saltuari: commesso in un negozio di dischi, steward su un aereo (Grant parla correttamente cinque lingue), e poi traduttore professionista. Ma la sua passione è sempre rimasta la musica, l’unica cosa che poteva salvarlo dalla dipendenza da alcool, droga e sesso. A farlo tornare sotto la luce dei riflettori sono stati nel 2010 i Midlake, con cui aveva lavorato quando era negli Czars, e che hanno prodotto il suo primo album da solista, Queen Of Denmark, capace, come Michael Head quest’anno, di diventare “album of the year” per Mojo. Una serie di brani laceranti, condotti da Grant con la sua calda voce baritonale, canzoni di amori impossibili, di quasi-suicidi e di redenzioni, come nella splendida title track proposta nel podcast. Oggi Grant si è trasferito a Reykjavik. Boy From Michigan, il suo quinto album solista, è uscito nel 2021, ma il fascino dell’esordio rimane inalterato.
“Una giovane cantautrice con un gran senso dell’umorismo e nessun programma apparente, Courtney Barnett è una sorta di fresca anomalia nel 2015: intelligente ma non intellettuale, umile ma non timida, legata al passato ma non teatrale. Il suo album di debutto mantiene la promessa della raccolta di EP del 2013.” Così una delle webzine musicali di riferimento, Pitchfork, salutava l’atteso debutto solista dell’australiana Courtney Barnett. L’album era il traguardo di una carriera iniziata a 23 anni nei Rapid Transit e proseguita con la band psych-country Immigrant Union, un progetto musicale fondato da Brent DeBoer (dei Dandy Warhols) e Bob Harrow dove, oltre a condividere i compiti vocali, la Barnett suonava prevalentemente la chitarra slide. Non contenta, aveva anche creato (con i soldi presi in prestito dalla nonna) la propria etichetta Milk! Records insieme alla sodale e compagna Jen Cloher.
Dopo aver scaldato l’atmosfera con il doppio EP in formato album The Double EP: A Sea of Split Peas, la Barnett ha trovato la maturità compositiva nel 2015 con Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit, disco in cui riusciva a sganciarsi un po’ dal cordone ombelicale che la legava al grunge ed iniziava a proporre la sua personale visione musicale. Un indie rock intrigante e scanzonato, dove si passa dalla meditazione sulla mortalità e sull’inquinamento al significato di essere amministratori del nostro ambiente e di noi stessi. Riflessioni sul quotidiano proposte in un contesto intrigante, avvincente e divertente, come dimostra la splendida “Depreston” inserita in scaletta. Nei due album successivi la Barnett non è stata altrettanto convincente, ma il talento c’è e la speranza è quella che possa tornare a dimostrarlo.
Adesso dilatiamo le atmosfere e parliamo della parabola curiosa ma intrigante della cantante belga Melanie De Biasio, che l’ha portata da un esordio in sordina a diventare una delle interpreti più originali e credibili della sua generazione. Riavvolgiamo il nastro tornando indietro al 2007, anno in cui la piccola etichetta Igloo pubblica il suo esordio intitolato A Stomach Is Burning, un disco in cui si trovano già i semi di una importante fioritura artistica. Il jazz diventa una matrice che viene omaggiata senza mai essere replicata pedissequamente. L’album non trova il riscontro atteso e la Di Biasio non incide altro, pur continuando a collaborare con diversi artisti, fino al 2013, quando finalmente con la pubblicazione di No Deal ottiene un meritato successo di critica e pubblico.
La meritata consacrazione avviene nel 2017 con lo splendido Lilies, dove la voce ed il flauto della De Biasio vengono accompagnati dai fedelissimi Pascal Mohy al pianoforte, Pascal Paulus ai synth e Dre Pallemaerts alla batteria. L’artista vira di nuovo verso la “forma-canzone” classica cambiando le carte in tavola, tornando alle radici con una serie di tracce apparentemente semplici e scarne, capaci di reggersi (benissimo) solo su due accordi, su uno schioccare di dita, su un tappeto di synth come su un pianoforte minimale. La ritmica tribale dei tamburi di Pallemaerts e i beats di Paulus accarezzano la superficie di “Let Me Love You”, increspata dai chirurgici contrappunti pianistici di Mohy e impreziosita dai sussurri sensuali della De Biasio a cesellare il tutto. Ad affascinare c’è l’abilità nel creare canzoni all’apparenza semplici con poco o nulla, Già dopo No Deal ci eravamo chiesti se Melanie De Biasio avesse raggiunto l’apice della sua maturità artistica, ma la magia di una voce e il profumo dei pochi strumenti usati e la perfezione del saperli dosare sapientemente mostrata in Lilies fortunatamente ci conferma che l’italo-belga può andare anche oltre e la conferma, come già detto, come una delle migliori e più ispirate interpreti contemporanee.
Non deve essere facile fare musica e chiamarsi Josh Haden. Le aspettative sono più che alte se suoni il basso e sei figlio di un gigante dello strumento e della musica jazz come Charlie Haden. Eppure Josh è riuscito a trovare la sua strada, abbastanza intelligente da non seguire in maniera pedissequa le ombre del padre ma riuscendo a creare un microcosmo crepuscolare ed intimista, fatto di blues e jazz, di ambientazioni dilatate e di cuori spezzati. Questo microcosmo prende il nome di Spain e fin dall’esordio ha conquistato anima e cuore di critica e pubblico grazie ad una serie di canzoni malinconiche e rarefatte.
Il gruppo all’epoca di The Blue Mood Of Spain (1995) comprendeva Ken Boudakian (chitarra e organo), Merlo Podlewski (chitarra) ed Evan Hartezell (batteria). oltre alle collaborazioni di due delle tre sorelle di Josh, Petra e Tanya rispettivamente a violino e violoncello, capaci di alzare il livello di notturna drammaticità alle composizioni. Tanti i sontuosi incantesimi melodici del disco, dalla conclusiva “Spiritual” (ripresa più tardi non solo da un ispirato Johnny Cash ma anche da papà Charlie, in coppia con Pat Metheny, a sancire l’ispirazione del figlio) alla splendida e seducente “Ten Nights” inserita in scaletta. Altri due dischi abbastanza ispirati, poi una pausa di oltre dieci anni prima che Josh Haden possa riprendere le redini della band con una nuova formazione, poi di nuovo rivoluzionata nel 2016 con l’innesto di Danny Frankel (batteria) e Kenny Lyon (chitarra e tastiere), insieme alla sorella Petra, formazione che nel 2018 ha stupito di nuovo con Mandala Brush, un album quasi al livello dell’esordio.
Dieci anni fa era stato amore a prima vista con l’album di un duo chiamato Fenster, composto dalla newyorkese JJ Weihl e dal berlinese Jonathan Jarzyna. L’album intitolato Bones, era uscito per un’etichetta improntata soprattutto a suoni glitch-pop, la tedesca Morr Music. Il pop disegnato dai due era tanto minimale quanto incredibilmente affascinante ed evocativo. Il nome della band deriva da un sinistro incidente avvenuto proprio durante la registrazione del loro primo album: una finestra si è infranta sulla testa di JJ, procurandole un bernoccolo e il nomignolo di Fenster. L’album prende la sua struttura narrativa dalla logica associativa dei sogni, intrecciando immagini morbose e fiabe giocose in un gioco sardonico su sfondi di foreste oscure, viaggi in treno, cimiteri, montagne e spiagge.
Il loro suono si regge su pochi suoni caldi e analogici, uno scheletro che regge perfettamente le narrazioni oniriche dei due. Dal punto di vista dei testi, l’album tocca tutti i temi, dal provare piacere per il danno altrui alla nostalgia per l’inizio della vita adulta e l’illusione dell’invincibilità. Poche percussioni, tocchi di chitarra, tastiere rarefatte, echi di glockenspiel e strumenti giocattolo, il disco si dipana tra serio e faceto, pieno di piccole grandi meraviglie e di gioiellini di pop in bassa fedeltà come la “Spring Break” inserita in scaletta. La band ha poi incluso altri due elementi diventando un quartetto e registrando due album in studio ed una colonna sonora, ma il fascino del loro primo lavoro è ancora enorme ed immutabile.
“Scrivere canzoni, per me, è come scolpire. Nasce da una parola, un’emozione o un suono iniziale, che poi costruisco, modellandolo in una forma più raffinata, incollata in una struttura artificiale. Altre volte il mio ruolo è quello di scrostarla, raschiarne l’esterno, per rivelare il suo stato naturale e la sua parte all’interno del tutto.” Così si presenta la cantautrice, chitarrista e produttrice di Montréal Vicky Mettler, al suo esordio per l’etichetta Constellation sotto il nome di Kee Avil. La Mettler combina chitarra, voce, elettroacustica e produzione elettronica per creare assemblaggi di canzoni che sembrano collassare da un momento all’altro ma che allo stesso tempo riescono ad evolversi come resina appiccicosa che raccoglie e disperde elementi disparati lungo il suo percorso.
Non è affatto un ascolto facile quello di Crease, un album dove Kee Avil concretizza la sua musica in una chitarra post-punk lavorata a cesello, in un’elettronica sinuosa di fascia bassa, in una tavolozza di microcampionamenti organici e digitali che creano ritmi alternati e propulsivi, e nell’intimità ansiosa del suo lirismo e della sua voce finemente lavorati. Canzoni che non lasciano molto spazio alla melodia, che spiazzano non appena sembra che abbiamo trovato una direttrice. Tra post-punk, electro-industrial e avant-pop, quelle di Vicky Mettler sono canzoni contorte, finemente lavorate, meticolosamente assemblate e pronte a celare la realtà come la maschera indossata sulla copertina dell’album. Un album destabilizzante e sperimentale ma allo stesso tempo estremamente intrigante come dimostra la “And I” inserita in scaletta.
Chiudiamo il podcast con un gruppo che con il secondo album ha deciso di cambiare le carte in tavola. I fratelli Jack e George Barnett sono cresciuti nella città dell’Essex di Southend-on-Sea, facendo musica insieme sin da bambini con microfoni da karaoke, vecchi bonghi e chitarre troppo grandi per le loro mani e concentrandosi poi da adolescenti sulla musica elettronica. Hanno formato nel 2006 i These New Puritans insieme all’amico d’infanzia e polistrumentista Thomas Hein, cresciuto nella vicina Billericay, e la tastierista Sophie Sleigh-Johnson. Dopo l’esordio Beat Pyramid che risentiva dell’influenza degli artisti hip-hop preferiti da Jack Barnett come i Wu-Tang Clan, per il secondo lavoro i TNP hanno deciso di ripartire da zero con un progetto estremamente ambizioso che vedeva la presenza di tamburi giapponesi Taiko alti due metri, un ensemble di tredici elementi di ottoni e fiati, pianoforte preparato e un coro di bambini.
Non contento, Barnett ha voluto curare gli arrangiamenti con precisione maniacale, si è persino trasferito per un breve periodo a Los Angeles per preparare il missaggio con il fonico Dave Cooley e ha voluto come co-produttore Graham Sutton (Bark Psychosis, Boymerang). Il risultato è stato forse il miglior lavoro della sigla britannica, Hidden, uscito nel gennaio 2010 il cui manifesto era un viaggio dove “la dancehall possa incontrare Steve Reich”. Intento non certo facile da raggiungere, ma in ogni caso il disco è un viaggio estremamente intrigante dove la magniloquenza rischia di far naufragare un progetto che, invece, si tiene sempre incredibilmente a galla. La percussività trascinante di “Drum Courts-Where Corals Lie” è uno dei casi in cui davvero i fratelli riescono a sfumare la distinzione tra rock, classica, elettronica e sperimentazione.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete le proposte tanto apparentemente ostiche quanto cerebralmente stimolanti degli Horse Lords, le mutazioni funk-rock dei TV On The Radio la bellezza senza tempo di Laura Nyro e alcune delle sue nuove “seguaci” come Fiona Apple e Weyes Blood (spoiler: polemiche social incluse). Troveremo anche il suono drammatico a tinte scure dei Piano Magic, quello che ogni tanto strizza l’occhio al mainstream dei The National, il pop naif delle CocoRosie e l’approccio scorbutico degli straordinari Geraldine Fibbers di Carla Bozulich. Ci sarà spazio anche per la seconda parte del capolavoro di David Lance Callahan, per il pop straordinario di Stephin Merrit aka Magnetic Fields, mentre il gran finale sarà appannaggio del soul di alta classe di Durand Jones & The Indications e delle sublimi traiettorie hip-hop di uno degli album dell’anno, quello di Danger Mouse & Black Thought. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. LOW: Embrace da ‘Things We Lost In The Fire’ (2001 – Kranky)
02. LOW: Fly da ‘Double Negative’ (2018 – Sub Pop)
03. PiL: Swan Lake da ‘Metal Box’ (1979 – Virgin)
04. KING KRULE: Biscuit Town da ‘The Ooz’ (2017 – XL Recordings)
05. PARQUET COURTS: Berlin Got Blurry da ‘Human Performance’ (2016 – Rough Trade)
06. ROBERT FORSTER: One Bird In The Sky da ‘Inferno’ (2019 – Tapete Records)
07. MICHAEL HEAD & THE RED ELASTIC BAND: Gino And Rico da ‘Dear Scott’ (2022 – Modern Sky UK)
08. JOHN GRANT: Queen Of Denmark da ‘Queen Of Denmark’ (2010 – Bella Union)
09. COURTNEY BARNETT: Depreston da ‘Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit’ (2015 – Marathon Artists)
10. MELANIE DE BIASIO: Let Me Love You da ‘Lilies’ (2017 – [PIAS] Le Label)
11. SPAIN: Ten Nights da ‘The Blue Moods Of Spain’ (1995 – Restless Records)
12. FENSTER: Spring Break da ‘Bones’ (2012 – Morr Music)
13. KEE AVIL: And I da ‘Crease’ (2022 – Constellation)
14. THESE NEW PURITANS: Drum Courts-Where Corals Lie da ‘Hidden’ (2010 – Domino)