Le avventure in musica di Sounds & Grooves si uniscono al resto della banda per la 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nel secondo episodio stagionale di Sounds & Grooves ci spingeremo spesso e volentieri nel passato
Torna l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 17° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) già sapete, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore e le storture dei nostri tempi come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che Sounds & Grooves vuole seguire, soprattutto in questo periodo confuso ed oscuro.
Nel secondo viaggio della nuova stagione andremo innanzitutto a ricordare un grande come Anton Fier, entrando nella caleidoscopica e pulsante attività musicale di NYC nei primi anni ’80 con Lounge Lizards ed il collettivo mutante The Golden Palominos. Non contenti ascolteremo insieme il nuovo, deflagrante album degli Oneida e l’altrettanto esplosivo mondo sonoro dei Don Caballero. Ci sarà un excursus sulla psichedelia della seconda metà dei ’60 con Mad River, Jefferson Airplane, Small Faces e Quicksilver Messenger Service, il funk-soul-rock della rivoluzione afroamericana di Sly & The Family Stone, il folk mistico e oscuro di Judee Sill e Linda Perhacs, e il post-punk tribale delle The Slits. E ancora: l’eclettismo sorprendente dei The Boo Radleys e le traiettorie sghembe dei Pit Er Pat. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Come detto nel precedente episodio, è stato abbastanza sconvolgente per me venire a sapere della scomparsa di Anton Fier solo poche ore dopo aver registrato il primo podcast della stagione. Motivo in più per aprire il secondo episodio andando a riscoprire quella meravigliosa New York a cavallo tra ’70 e ’80, piena di grandi artisti collocati in un terreno fertile di grande fermento artistico. Come detto in precedenza, al batterista Anton Fier (Pere Ubu, Friction, Lounge Lizards) il ruolo dietro ai tamburi nei Feelies stava talmente stretto che sembrava quasi scontata la decisione di formare una band chiamandola Golden Palominos. Un progetto aperto, una sorta di collettivo mutante, nella cui prima incarnazione facevano parte il sassofonista John Zorn, i chitarristi Arto Lindsay (DNA) e Nicky Skopelitis, i bassisti Bill Laswell (Material, Massacre) e Jamaladeen Takuma più altri musicisti.
C’è tantissimo nel loro album di debutto eponimo uscito nel 1983: jazz, funk, rock, un miscuglio misterioso e inclassificabile che prende vita dalla no-wave e dal jazz elettrico, un disco ed un suono con un groove sensazionale, fulminante, come dimostra la pazzesca apertura di “Clean Plate”, dove Fier pone le fondamenta con il suo drumming, i due bassi mettono in sicurezza la struttura, il tutto mentre Lindsay canta (bene!) e il sax di Zorn e le percussoni di David Moss provano a buttare giù tutto sabotando la struttura con il loro interventi. Il successivo album Visions of Excess vedrà i solo Fier e Laswell a tirare le fila con altri compagni di avventura come Michael Stipe, ma questa è un’altra storia…
Alla fine degli anni ’70 si sviluppò nella Grande Melaun incredibile movimento (tra i tanti) intellettuale e musicale che prese il nome di no-wave. Il sassofonista, regista e pittore John Lurie decise di prendere parte a quel movimento in maniera del tutto particolare, infilandoci dentro grandi dosi di jazz, ironia e spirito punk creando uno dei gruppi più originali e interessanti del periodo: The Lounge Lizards. Ad accompagnare il leader in scorribande schizofreniche e stralunate c’erano il fratello Evan Lurie al pianoforte e organo, il batterista Anton Fier appena uscito dai The Feelies, il chitarrista Arto Lindsay (la cui chitarra abrasiva era il simbolo dei DNA, una delle migliori bands della scena no-wave) ed il bassista Steve Piccolo. Il loro album di esordio autointitolato esce nel 1981 ed è in qualche modo il manifesto di un modo nuovo di fare musica.
Un equilibrio miracoloso tra la dissonanza armonica della chitarra e delle tastiere e la sezione ritmica prettamente jazz, un equilibrio che il sax di John Lurie si divertiva a spostare da una parte o dall’altra in modo competente, ironico e dissacrante. “Incident on South Street” è la perfetta introduzione di un album che, a distanza di quasi 40 anni, ancora oggi stupisce e diverte per ispirazione, abilità tecnica, sperimentazione e capacità compositiva: un vero capolavoro. Un tributo non solo a quel grande maestro del ritmo che è stato Anton Fier, ma anche ad un periodo meraviglioso di grande creatività.
I Don Caballero si formano a Pittsburg, nel 1991 come trio formato da Mike Bandfield alla chitarra, Pat Morris al basso e Damon Che Fitzgerald alla batteria, autori di una scura e pesante via strumentale al post-punk. Con questa formazione la band incide un paio di singoli prima che Ian Williams vada a occupare il posto della seconda chitarra. E con Williams il suono si fa davvero più nervoso ed agile, soprattutto con il secondo monolitico Don Caballero 2, pubblicato nel 1995 con Matt Jencik al basso che sostituisce (temporaneamente) Pat Morris. Il bassista della formazione originale tornerà qualche anno dopo per What Burns Never Returns che chiuderà la prima era della band. Non c’è più Steve Albini a produrre come nell’album di esordio intitolato For Respect, ma il suono rimane sempre incredibilmente potente.
La straripante ipertecnica batteria di Damon Che distrugge tutto quello che incontra, la lezione dei King Crimson di Red è stata assimilata ed amplificata all’ennesima potenza e Ian Wiliams è in grado di destreggiarsi sia in mezzo alle atmosfere più calme sia quando il sound intorno a lui si fa più caldo di una giungla. Gli incastri perfetti, la potenza abbinata alla melodia dei Don Caballero saranno portati avanti dallo stesso Williams in maniera completamente differente prima con gli Storm And Stress, poi con i Battles. “Stupid Puma” è solo il prima traccia dell’album, ma perfetta per mostrare la perfezione raggiunta dal math-rock del quartetto.
Il 2022 ha visto il grande ritorno di una delle band cardine di un certo tipo di avant-rock. Gli Oneida avevano prenotato lo studio per registrare la prima di queste canzoni nel marzo 2020, ma con l’intensificarsi della pandemia e il conseguente lockdown hanno dovuto cancellare quelle date, trascorrendo i 15 mesi successivi a dare le capocciate al muro per aver perso quell’opportunità. Sarebbe stata la pausa più lunga da quando Fat Bobby e Kid Millions avevano iniziato a suonare in una band al terzo anno di liceo. A quel punto i cinque membri degli Oneida si sono rintanati nelle loro varie sedi – Bobby a Boston, Kid Millions, Shahin Motia, Hanoi Jane e Barry London sparsi per New York – e hanno scritto del materiale. “Avevamo una grande e crescente collezione di canzoni”, ricorda Bobby. “Come tutti quelli che lavorano in modo produttivo e creativo, ti abitui al fatto che a volte il rubinetto è aperto. A volte il rubinetto è chiuso. Questa volta il rubinetto era aperto”.
E per fortuna che il rubinetto era aperto… Quando la pandemia si è attenuata, gli Oneida sono tornati insieme nel maggio del 2021, affittando uno studio a Rockaway Queens per poter suonare e registrare insieme per la prima volta dopo oltre un anno. Non c’erano canzoni né programmi. L’idea era solo quella di improvvisare insieme per due giorni e vedere cosa veniva fuori. Nessuno nella band sapeva se sarebbero stati ancora in grado di suonare insieme allo stesso modo, con la stessa intensità, dopo tanto tempo di separazione. Ma la magia era ancora lì. Il gruppo ha seguito il proprio istinto avendo sempre come numi tutelari “il clangore indistinto dei Velvet Underground, l’euforia lancinante delle tastiere dei Clean, il lirismo paranoico dei Suicide, la vertigine di “Roadrunner” dei Modern Lovers, l’apertura temporale dei Can”. Success è un album in qualche modo “asciutto”, secondo loro “non è altro che un disco di canzoni rock, niente altro, fatte al più da soli due accordi”, ma ce ne fossero di dischi così, di gruppi così. Un disco trascinante che cavalca punk, garage, kraut, beat e psichedelia, rimanendo meravigliosamente Oneida. Ascoltare “Solid” per credere.
In questo ondeggiare nella macchina del tempo, torniamo indietro al 1968, anno in cui l’ondata psichedelica statunitense raggiunse la piena nonostante si stia per scontrare con i disastri della guerra in Vietnam e la fine degli ideali di “peace & love”. Lo facciamo all’inizio con uno dei gruppi meno conosciuti ma forse tra i più interessanti. I Mad River si formano a Yellow Springs, Ohio nel 1966, prendendo il nome dal vicino fiume dallo stesso nome, anche se si trasferiranno presto a Berkeley in California. Lawrence Hammond è l’autore di tutti i brani e cantante principale, ma in realtà anche gli altri quattro componenti del gruppo (David Robinson e Rick Bockner alle chitarre, Tom Manning al basso e Greg Dewey alla batteria) si cimentano al canto.
Il disco di esordio intitolato semplicemente Mad River (e dalla copertina disegnata da un grande come Rick Griffin) è un oscuro capolavoro della psichedelia statunitense, scuro, drammatico e dissonante, con Hammond e Robinson a creare un’alchimia sonora incredibile, anche se talvolta straniante. “High All The Time” è uno dei capolavori di un disco di indicibile intensità, da riscoprire assolutamente e da inserire negli scaffali insieme a dischi più celebrati. Il gruppo si scioglierà un anno più tardi, dopo la pubblicazione del più “rassicurante” Paradise Bar and Grill.
Durante la compilazione di questo podcast poteva mancare all’appello la band statunitense di rock psichedelico per definizione? Assolutamente no! Nel 1967 i Jefferson Airplane dopo l’ingresso di Grace Slick in formazione, pubblicarono due dischi meravigliosi: Surrealistic Pillow e After Bathing At Baxter’s. Difficile se non impossibile scegliere tra i due titoli, due classici assoluti del gruppo californiano. Il secondo, uscito a soli sei mesi di distanza dal primo, presenta una struttura ancora più complessa, andando a sostituire i brani più brevi con delle mini suites che mettevano in evidenza la scrittura di Paul Kantner e proprio Grace Slick a scapito di quello che fino ad allora era stato il maggior compositore del gruppo: Marty Balin.
Un anno dopo quell’utopia di “peace & love” , come abbiamo detto in precedenza, si stava sfaldando sotto gli occhi di tutti, ma nonostante tutto la band con Crown Of Creation cercò con tutte le proprie forze di aggrapparsi a quel sogno, anche se l’apparente contraddizione tra il nuovo status economico della band (al culmine della propria popolarità) e l’appoggio sociale alla protesta studentesca iniziava a far scricchiolare una macchina apparentemente perfetta. L’album fu il primo registrato negli studi approntati nella mega villa da 20 stanze chiamata “The Airplane” acquistata per la band dal manager Bill Thompson, e vede il ritorno dell’apporto compositivo di Balin, anche se presto (dopo il successivo Volunteers) abbandonerà la band insieme al batterista Spencer Dryden. La “Greasy Heart” inserita in scaletta ebbe uno scarso successo in classifica come singolo ma mostra una Grace Slick sublime sia in fase compositiva che interpretativa.
Nel frattempo, in Gran Bretagna, c’era un gruppo che si era diviso i favori dei mod londinesi insieme agli Who e rivaleggiava in popolarità non solo con Townshend e compagni ma anche con i mostri sacri Beatles e Stones. Il cantante e chitarrista Steve Marriott e il bassista Ronnie Lane avevano formato gli Small Faces nel 1965 a Londra. Ai due si aggiunsero il batterista Kenney Jones, e il tastierista Jimmy Winston, poi rimpiazzato da Ian McLagan. La band venne messa sotto contratto dal manager Don Arden per la Decca Records, pubblicando un album di esordio che parlava un r&b filtrato dalla necessità di Arden di far uscire singoli pop. In realtà i riscontri in patria furono sempre estremamente lusinghieri, ma gli Small Faces non riuscirono mai a sfondare negli USA.
Dopo il passaggio alla Immediate Records e la pubblicazione del secondo album, la band cercò la svolta pubblicando un album più orientato verso la psichedelia ed ambizioso sin dal packaging. Ogdens’ Nut Gone Flake uscì il 24 maggio 1968 con il vinile inserito in una scatola di tabacco in latta rotonda, parodia della marca di tabacco Ogden’s Nut-brown Flake, prodotta a Liverpool fin dal 1899 da Thomas Ogden. Naturalmente questa scelta si rivelò presto troppo dispendiosa, e la confezione in latta venne riconvertita in una più classica (ed economica) copertina di cartone. L’album ebbe un grande successo, rimanendo al numero uno in GB per ben sei settimane, e secondo i dettami dell’epoca, la seconda facciata era dedicata ad una sorta di concept che narrava di un bizzarro personaggio di nome Stan alla ricerca della luna. “Song Of A Baker” è uno dei vertici di un album che se da una parte consegnerà gli Small Faces alla storia, dall’altra ne determinerà la fine, visto che la frustrazione di suonare dal vivo i brani dell’album sarà uno dei motivi per cui Marriott decide di andarsene e di unirsi a Peter Frampton nei neonati Humble Pie. I tre superstiti invece accoglieranno Ron Wood e Rod Stewart (entrambi ex The Jeff Beck Group) cambiando ragione sociale in Faces.
Per completare questa piccola panoramica sulla psichedelia statunitense (e non) della fine dei ’60, andiamo a trovare uno dei gruppi cardine del periodo, che tra le altre cose ho colpevolmente dimenticato di inserire nei miei podcast per lungo tempo. Nel 1969 insieme ai capolavori di Jefferson Airplane (Volunteers) e Grateful Dead (Aoxomoxoa e Live/Dead) anche i Quicksilver Messenger Service di John Cipollina e Gary Duncan danno alle stampe quello che è considerato uno dei massimi lavori del periodo psichedelico: Happy Trails. Rispetto ai due gruppi citati, i Quicksilver hanno avuto una storia decisamente meno uniforme e più travagliata, ma i dialoghi tra le due chitarre di Cipollina e Duncan hanno fatto scuola diventando un esempio da seguire. Tra i “discepoli” di un certo modi di incrociare le sei corde, come non citare l’accoppiata Tom Verlaine-Richard Lloyd nei Television.
L’intera prima facciata di Happy Trails è un omaggio a Bo Diddley, la cui “Who Do You Love?” viene suonata live ed espansa in sei movimenti dove i musicisti ne allargano la struttura modificandola a piacimento, innestandola di acidi e di improvvisazioni. Il risultato è uno dei capolavori della musica rock, con la seconda facciata a confermare la magia della prima con un capolavoro a firma Duncan come “Calvary” e un’altra cavalcata psichedelica presa in prestito da Bo Diddley, la straordinaria “Mona” inserita in scaletta. Nel disco i quattro cavalcano a briglie sciolte (come il cavaliere in copertina) verso un paradiso sonoro difficilmente eguagliabile. Il successivo Shady Grove vedrà il movimento laterale verso un certo country rock, la dipartita di Duncan (che rientrerà più tardi) e l’inserimento di un grande come Nicky Hopkins al piano ed organo.
Nella storia del rock ci si imbatte molto spesso in gruppi anomali, intelligenti nella loro proposta ma così poco definiti e definibili da sfuggire non solo ad una definizione specifica ma anche ad un’approvazione estesa da parte del pubblico. Band fuori tempo e sperimentali che diventano gruppi di culto. A questa definizione possiamo sicuramente associare una band nata nel 2001 a Chicago, in piena era post-rock. A questa definizione possiamo sicuramente associare una band nata nel 2001 a Chicago, in piena era post-rock. Il nome del gruppo era Blackbirds, formato dal bassista Rob Doran, dal batterista Butchy Fuego, dalla tastierista Fay Davis-Jeffers e da un chitarrista-cantante che presto lascia baracca e burattini per trasferirsi a New York. I tre superstiti decidono di non sostituirlo e di reinventarsi da capo alternandosi al canto e abbandonando completamente l’uso della chitarra. Nel 2003 scoprono che c’è un’altra band con lo stesso nome e decidono di cambiare ragione sociale. Essendo tutti e tre appassionati di arte e essendo anche rispettivamente designer (Doran), compositore di colonne sonore (Fuego) e fotografa (Davis-Jeffers), prendono in prestito il titolo di un quadro del pittore surrealista di Chicago Jim Nutt diventando Pit Er Pat.
Con il secondo album per la Thrill Jockey, Pyramids del 2006, John McEntire (Tortoise, Gastr Del Sol, The Sea And Cake) dalla sua posizione dietro al mixer completa in maniera evidente e perfetta il lavoro della band in modo molto intelligente, diversificando ogni brano e facendolo diventare un insieme di compiuti cortometraggi in musica, pur con il denominatore comune di un’atmosfera notturna molto scura e densa. McEntire apre un enorme ed inaspettato ventaglio di idee ai Pit Er Pat che durante la registrazione si sentono liberi di non seguire un canovaccio prestabilito ma di lasciare molto spazio all’improvvisazione. Le suggestioni canterburiane, sebbene ancora presenti, vengono circondate da una foresta lussureggiante di diverse ispirazioni: dai ritmi esotici della title track, fino al jazz declinato nelle varianti acid e soul della splendida “Moon Angel”. Gli orizzonti sonori entro i quali la band si muove sono sempre in movimento e quasi inafferrabili. E proprio in un sinuoso girare lo sguardo a perdita d’occhio che possiamo trovare il fascino di questo gruppo di culto che da dieci anni ormai non fa sentire la propria voce. Riscoprire i Pit Er Pat a questo punto può e deve diventare un irresistibile dovere.
The Boo Radleys sono una band britannica attiva negli anni ’90 (e riformata a sorpresa lo scorso anno) che, stranamente, non è mai stata apprezzata come avrebbe meritato. Il gruppo si era formato nel 1988 a Wallasey, città non distante da Liverpool, nella Merseyside, una collocazione geografica di discreta importanza nella storia del rock. La prima formazione vedeva Robert Harrison alla batteria (sostituito prima da Steve Hewitt e successivamente da Rob Cieka), il cantante-chitarrista Simon “Sice” Rowbottom, il bassista Timothy Brown ed il chitarrista e principale compositore Martin Carr. La band prese il nome da uno dei personaggi-chiave del capolavoro letterario di Harper Lee “Il buio oltre la siepe”. Il loro primo album Ichabod and I, nonostante la scarsa distribuzione ed ancora il più scarso successo, fece drizzare le antenne a quelli della Rough Trade che riuscirono a vedere il vero potenziale del gruppo. I loro primi singoli, in bilico tra shoegaze ed indie rock, vennero raccolti successivamente in un album intitolato Learning To Walk, mentre i lavori successivi, pubblicati dalla Creation Records di Alan McGee nel suo periodo d’oro, hanno avuto maggior successo, mostrando una creatività ed un interesse multiforme sconosciuto ad altre band dello stesso periodo e della stessa etichetta.
Sebbene siano stati associati al britpop, direi che ci troviamo abbastanza lontani da quel mondo anche se alcuni dei loro brani flirtano non poco con quel tipo di sonorità. In realtà. basterebbe l’ascolto del loro miglior lavoro, Giant Steps, per rendergli giustizia una volta per tutte: un album che nel 1993 vede il chitarrista e compositore Martin Carr desideroso di allontanarsi dagli orpelli shoegaze delle precedenti uscite della sua band. In questo modo l’album è diventato un crogiolo di suoni appena scoperti, che comprendeva elementi di dub, noise rock, psichedelia anni Sessanta, jazz, ambient e dance per formare la quintessenza dell’album eclettico degli anni novanta. Un caleidoscopio di suoni con il pop britannico a fare da solida impalcatura ad una serie di deviazioni tutte estremamente riuscite. Lo stesso Carr ha detto in un’intervista: “Tutto è iniziato con ‘Lazarus'”, continua, “tutti i pezzi che stavamo cercando di fare. Mi ero appena appassionato alla musica dub e ci piaceva molto il vibrafono di uno degli album di Tim Buckley, Happy Sad, e il feedback della chitarra e le armonie dei Beach Boys: tutto funzionava…” Ascoltate “Lazarus” nel podcast e riprendete in mano Giant Steps, siamo sicuri che vi stupirà di nuovo.
Ariane Daniele Forster, nata in Germania e trasferita da piccola in Inghilterra, ha il DNA musicale nel sangue. Il padre era stato un cantante popolare di discreto successo a Monaco mentre la madre Nora era stata amica di Jimi Hendrix e, dopo la separazione con il marito, la compagna di Chris Spedding dei Nucleus. E se proprio Nora sposerà John Lydon nel 1979, Ariane prenderà lezioni di chitarra da Joe Strummer. Nel 1976, a 14 anni, incontra la batterista nata in Spagna Paloma McLardy. Dopo aver cambiato i loro nomi in Ari Up e Palmolive, le due ragazze incontrano la bassista Tessa Pollitt e la chitarrista Kate Korus ed insieme formano il primo nucleo delle The Slits. Dopo aver condiviso il palco del Harlesden Coliseum londinese nel marzo 1977 con Buzzcocks e The Clash, le due (consigliate proprio dai Clash) sostituiscono la Korus con Viv Albertine, allora compagna di Mick Jones.
E se Palmolive abbandona la band prima delle registrazioni dell’album di esordio per andare con le Raincoats, le tre superstiti non si perdono d’animo ed insieme al batterista Budgie (all’anagrafe Peter Clarke) vengono presi per mano dal produttore Dennis Bovell, responsabile anche di Y del The Pop Group, e portate in studio per incidere Cut. Molti i punti di contatto proprio con quel capolavoro chiamato Y: dalla copertina (anche se gli aborigeni pieni di fango sono stati sostituiti dalle tre infangate in topless in uno scatto che farà scalpore), all’aggressivo miscuglio di punk-funk-dub che le rende uniche, unito alla passione per il reggae di Ari Up ben presente nel groove di “Typical Girls” che ho deciso di inserire in questo podcast. Insomma, le Slits non sono durate molto, ma sono istantanee fantastiche di un (som)movimento musicale forse irripetibile.
Se in precedenza siamo andati indietro nel tempo fino alla seconda parte degli anni ’60, per gli ultimi tre brani ci muoviamo leggermente in avanti proprio all’inizio degli anni ’70, seppur con umori diversi. Quello che arriva al 1971 è uno Sly Stone meno spavaldo di quello che traspariva dai solchi del precedente Stand! e dalla straordinaria performance di Sly & The Family Stone sul palco di Woodstock. Da una parte la Epic voleva sfruttare la nuova gallina dalle uova d’oro, dall’altra i rapporti all’interno della band stavano deteriorandosi, portando Sly sempre più nel baratro della tossicodipendenza. Come se non bastasse il movimento delle Pantere Nere chiese a Stone di essere più schierato sul versante politico e di rimpiazzare gli unici due componenti bianchi (il batterista Greg Errico e il sassofonista Jerry Martini) con musicisti di colore.
Influenzato dalle droghe e sconvolto dalle questioni politiche e sociali che vedevano il declino del pacifico movimento per i diritti civili del popolo afroamericano e una diffusa e dilagante disillusione verso certi ideali, Stone creò un’opera più dura, ombrosa, maggiormente concettuale rispetto agli ottimistici e commerciali lavori precedenti della band. Lavorò quasi da solo, la mente dilaniata tra lotte intestine e disordini razziali, cambiando anche il titolo dell’album cui lavorava da Africa Talks to You, in There’s a Riot Goin’ On in risposta a What’s Going On che Marvin Gaye aveva pubblicato cinque mesi prima. “Just Like A Baby” è un numero funk scuro e strisciante, a rappresentare un album di un’intensità estrema.
Sono due album di folk scuro a chiudere questo podcast. Due dischi firmati da due cantautrici purtroppo finite troppo in fretta nel dimenticatoio. La prima storia che raccontiamo è quella di Linda Perhacs, giovane igienista dentale con la passione per il canto che un giorno si trovò come cliente il produttore e compositore Leonard Rosenman. La fine degli anni sessanta era stato un periodo d’oro per il songwriting folk e psichedelico, e la Perhacs condivideva con il marito (scultore) la passione per l’arte e per artisti come Joni Mitchell o Tim Buckley. La Perhacs aveva composto e registrato a casa alcune canzoni e durante una seduta con Rosenman, era stata facilmente convinta dal produttore a consegnargli una cassetta con quelle registrazioni casalinghe.
In realtà Rosenman andando via dallo studio dentistico, non immaginava quale scrigno prezioso avesse in tasca, ma ben presto la meraviglia e lo stupore presero il sopravvento e la Perhacs si trovò in uno studio di registrazione pronta a mettere nei solchi quelle canzoni scritte ed interpretate in solitudine. Il risultato fu tanto entusiasmante (dal punto di vista musicale) quanto deludente, visto che il riscontro da parte del pubblico fu fiacco (per usare un eufemismo). Parallelograms è un album di cantautorato folk riscoperto dopo anni, permeato di psichedelia, con la voce ispirata e cristallina di Linda Perhacs, arrangiamenti efficaci e delicati e molte soluzioni creative di elettronica minimalista come nella meravigliosa title track inserita in scaletta. Come detto, la delusione di un approccio freddo da parte del pubblico e la continua tendenza degli addetti ai lavori a paragonarla ad altre stelle del cantautorato folk, portarono la Perhacs a tornare al suo precedente lavoro confinandola in un anonimato da cui è uscita solo nel 2014, quando da splendida settantenne aveva pubblicato The Soul Of All Natural Things.
Chiudiamo il podcast con una delle più dotate e talentuose songwriter degli anni settanta, un’artista dalla vita avventurosa ed estremamente difficile. La perdita del padre a tredici anni, un patrigno violento che abusava di lei, frequentazioni non propriamente amichevoli, piccole rapine, truffe e prime sperimentazioni con l’LSD hanno costellato l’adolescenza di Judee Sill. I primi approcci musicali non erano stati fortunati, portando in dote (insieme al marito pianista Bob Harris) un uso smodato di eroina e una condanna per prostituzione visto che non riusciva a coprire i costi della sua dipendenza. Proprio dopo essere uscita di prigione, ecco quella che sembrava l’apertura ad una nuova vita. Il suo talento di compositrice aveva catturato l’attenzione non solo del discografico David Geffen, ma anche l’ammirazione da parte di Graham Nash e David Crosby.
Il risultato fu che Geffen gli fece firmare un contratto per la sua neonata etichetta Asylum Records, e la Sill andò perfino in tour con Crosby Stills & Nash che all’epoca erano davvero nel loro momento di maggior gloria. Disegnatrice, chitarrista, pianista, compositrice dall’enorme talento, l’esordio Judee Sill non solo apre il catalogo dell’Asylum, ma colpisce per la maturità degli arrangiamenti, la voce cristallina, la purezza di un’artista che sembra un angelo più che un demonio. E se non mi credete ascoltate la meravigliosa “Lopin’ Along Thru The Cosmos” inserita in scaletta. Ma l’album non ebbe il successo sperato, così come il successivo Heart Food del 1973. Un incidente stradale e un’operazione malriuscita alla schiena piegarono di nuovo la Sill che riprese a fare uso di droghe fino al decesso avvenuto nel 1979 per una (sembra intenzionale) overdose. Recentemente Jim O’Rourke, da sempre devoto del culto di Judee Sill, si è preso carico di raccogliere il suo materiale inedito facendola riemergere dall’oblio del tempo con un doppio CD intitolato Dreams Come True. Non ebbe mai il successo che avrebbe meritato, come altre artiste incredibili come Laura Nyro, ma Judee Sill merita di essere riscoperta, amata, e salvanta dall’indifferenza di un mondo che non la meritava.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves, andremo a trovare il feroce sarcasmo di Mark E. Smith e dei suoi The Fall, l’orgoglio irlandese dei Fontaines D.C., le destrutturazioni geniali dei Dead Rider, la riscoperta dei T.Rex di Marc Bolan, la resurrezione della “This machine kills fascists” da parte degli ispiratissimi Dropkick Murphys. E ancora, il folk irlandese contaminato dei Moving Hearts, il cantautorato classico di John Martyn e quello sempre ispirato di Bill Callahan, l’epitaffio sonoro di un amico perduto dei For Those I Love, il caleidoscopio sonoro dei The Soft Pink Truth e l’ispirata autoproduzione di una sempre talentuosa Sara Ardizzoni nascosta dietro al moniker di Dagger Moth. Il finale sarà appannaggio delle traiettorie sghembe dei Denseland e dell’orgoglio afroamericano di Damon Locks e Moor Mother. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE GOLDEN PALOMINOS: Clean Plate da ‘The Golden Palominos’ (1983 – Celluloid)
02. THE LOUNGE LIZARDS: Incident On South Street da ‘The Lounge Lizards’ (1981 – Editions EG)
03. DON CABALLERO: Stupid Puma da ‘Don Caballero 2’ (1995 – Touch And Go)
04. ONEIDA: Solid da ‘Success’ (2022 – Joyful Noise Recordings)
05. MAD RIVER: High All The Time da ‘Mad River’ (1968 – Capitol Records)
06. JEFFERSON AIRPLANE: Greasy Heart da ‘Crown Of Creation’ (1968 – RCA Victor)
07. SMALL FACES: Song Of A Baker da ‘Ogdens’ Nut Gone Flake’ (1968 – Immediate)
08. QUICKSILVER MESSENGER SERVICE: Mona da ‘Happy Trails’ (1969 – Capitol Records)
09. PIT ER PAT: Moon Angel da ‘Pyramids’ (2006 – Thrill Jockey)
10.THE BOO RADLEYS: Lazarus da ‘Giant Steps’ (1993 – Creation Records)
11. THE SLITS: Typical Girls da ‘Cut’ (1979 – Island Records)
12. SLY & THE FAMILY STONE: Just Like A Baby da ‘There’s A Riot Goin’ On’ (1971 – Epic)
13. LINDA PERHACS: Parallelograms da ‘Parallelograms’ (1970 – Kapp Records)
14. JUDEE SILL: Lopin’ Along Thru The Cosmos da ‘Judee Sill’ (1971 – Asylum Records)