Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete la consueta alternanza tra classicità e sperimentazione, strizzando anche un occhio alla musica italiana
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 16 stagioni. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia e delle polemiche ad ogni costo, ogni cosa sembra che venga letta dietro ad una lente distorta. Dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e passione, dove sembrano esserci solo schieramenti ciechi e cattivi, proviamo nel nostro piccolo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che vogliamo seguire.
Nell’ottavo viaggio della nuova stagione, primo pubblicato nel 2022, andiamo ad esplorare le asperità straordinarie di Shellac, Sonic Youth e degli straordinari siciliani Uzeda, il secondo album dei Porridge Radio e l’esordio dei TV Priest tra le nuove band britanniche più interessanti, la classicità degli Arbouretum l’incredibile intensità del supertrio australiano Springtime ed il ponte tra sperimentazione e tradizione di Thurston Moore. E ancora ci sarà spazio per il clamoroso ritorno degli Arab Strap, il folk mutante e quasi pop dei WIldbirds & Peacedrums ed il talento enorme dei compianti Elliott Smith e Jason Molina nascosto dietro al nome Songs:Ohia. Il finale è appannaggio della creatività senza limiti dei romani Vonneumann e dei maestri del “taglia & incolla” The Books. Il tutto, come da 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con una figura chiave di un certo tipo di intendere il rock come Steve Albini. Personaggio importante sia come musicista che dietro alla consolle in veste di produttore. Albini, di chiara origine italiana, ha iniziato nel 1981 a creare il suo suono tanto claustrofobico quanto dirompente con i Big Black, per continuare qualche anno più tardi con i Rapeman. Dopo lo scioglimento di questi ultimi, Albini nel 1989 ha deciso protestare platealmente contro l’industria discografica delle major, colpevole, secondo lui, di ingannare e sfruttare finanziariamente i propri artisti. Pur bloccandosi come musicista per qualche anno, Albini non ha mai smesso di regalare il suo tocco abrasivo a moltissime band che lo hanno ingaggiato come sound engineer.
Quando però Albini ha deciso di tornare nelle vesti di musicista lo ha fatto in grande stile, con un nuovo gruppo, gli Shellac, ed un album come At Action Park. Nel frattempo non era rimasto con le mani in mano collaborando con gli stessi Fugazi, gli Slint, i Jesus Lizard. At Action Park è un tornado che risucchia vorticoso tutto quello che incontra, violento e matematico allo stesso tempo, un suono che implode nel nulla anziché esplodere, come dimostra “Dog And Pony Show”. Il basso di Bob Wetson, la chitarra di Albini, e la batteria di Todd Trainer si fanno beffa della fisica diventando rispettivamente massa, velocità e tempo, controllando il suono e spezzettandolo magistralmente a loro piacimento.

Stessa etichetta, stesso produttore (Steve Albini), stesse coordinate sonore, ma il tutto sotto il sole di Catania. Prendendo il nome proprio da una delle porte della città (la porta Uzeda che collega piazza Duomo a via Dusmet, nel cuore della Catania settecentesca) i chitarristi Agostino Tilotta e Giovanni Nicosia, il bassista Raffaele Gulisano, il batterista Davide Oliveri e la cantante Giovanna Cacciola, hanno iniziato nel 1987 uno straordinario percorso artistico. Nel 1992, subito dopo la pubblicazione del primo lavoro, la strada del gruppo siciliano ha incrociato quella di Steve Albini che, attratto dalle potenzialità del gruppo, diventerà non solo amico ma anche produttore di tutti i loro lavori, fino all’ultimo Quocumque Jeceris Stabit uscito nel 2019.
Nell’autunno del 1994, la band riceve l’invito a suonare nello storico programma di John Peel, negli storici studi radiofonici della BBC, diventando l’unica band italiana (insieme alla PFM) ad aver mai preso parte alla trasmissione e l’unica italiana in assoluto a vedere pubblicate le proprie Peel Sessions. Nell’agosto del 2006, dopo un lungo periodo di silenzio e dopo l’uscita di Giovanni Nicosia, che ha ridotto il gruppo a quartetto, esce l’album intitolato Stella, prodotto da Albini e licenziato dalla Touch And Go, che conferma i siciliani come uno dei gruppi più importanti della scena rock italica, grazie al loro suono abrasivo e riconoscibile che, come purtroppo spesso accade, li ha resi più famosi all’estero che in patria nonostante i 30 anni di carriera alle spalle. Quattro musicisti capaci di costruire un’estetica sonora straordinaria e credibile tra post-hardcore e noise. Ascoltate “Time Below Zero” ed immergetevi nella lava dell’Etna che sovrasta la loro città natale.

Pochi altri gruppi sono stati influenti su varie generazioni di rock americano e non solo come i Sonic Youth. Kim Gordon, Thurston Moore, Lee Ranaldo e Steve Shelley, pur partendo dall’avanguardia newyorchese, non hanno davvero mai ripudiato il formato della canzone rock, sperimentando, usando gli strumenti in modo totale (soprattutto grazie ad un grande uso di effettistica e accordature inusuali a rendere unico il suono della chitarra), e diventando di fatto una vera e propria istituzione della scena alternativa americana e mondiale. Il loro terzo lavoro in studio, Evol, esce nel 1986, due anni dopo un caposaldo della loro estetica sonora come Bad Moon Rising, manifesto del loro modo inconfondibile di fare musica, con le parti soliste e ritmiche che si uniscono in un unico flusso sghembo ma perfettamente lucido.
Con Evol il quartetto giunge alla sua forma definitiva, Steve Shelley entra alla batteria dopo l’allontanamento di Bob Bert e il suono tenta un’ardita ma proficua mediazione tra lo sperimentalismo sonoro del disco precedente e una forma-canzone più accessibile al grande pubblico. I quattro non ripudiano il loro modo allucinato di fare musica, e incentrano il loro mondo lirico sulla cruda realtà e sul ruolo della donna. Il disco è volutamente ambiguo già dal titolo (Evol non è altro che la parola Love al contrario e si pronuncia praticamente come la parola “evil”) ed è un album di cambiamento dove, nel loro modo sghembo e unico di concepire il rock, riescono come per incanto a far fluire ritornelli melodici e quasi pop, ammorbidendo leggermente il suono rispetto all’illustre predecessore senza perdere in qualità ed esplosività come in “Secret Girl”.

Sembrerebbe (lo diciamo sottovoce per non farci sentire da chi non perde occasione di criticare per partito preso) che la scena britannica negli ultimi anni stia sfornando moltissimi gruppi di grande interesse. Non fanno eccezione i Porridge Radio da Brighton, capitanati da una cantante/songwriter di grande impatto lirico come Dana Margolin. Il gruppo, dopo un esordio non proprio da incorniciare, ha lavorato sodo per produrre qualcosa di davvero importante. Un evidente passo in avanti a livello di composizioni ed arrangiamenti, la firma per la Secretly Canadian, e un album, Every Bad, che nelle sue 11 tracce mescola con maestria influenze punk a ritornelli pop appiccicosi.
Qualcuno, al solito, potrà obiettare che i quattro non propongono nulla di davvero nuovo, ma anche qui, come a diverse latitudini, a fare la differenza solo le canzoni e la scrittura di Dana Margolin, che a tratti strizza l’occhiolino a Courtney Barnett o a PJ Harvey. Sia quando la struttura è più irruenta, che quando invece si fa più diradata e riflessiva come nella splendida “Lilac” inserita in scaletta, la band si dimostra sempre all’altezza. Tra poco è prevista l’uscita del terzo album Waterslide, Diving Board, Ladder to the Sky e vedremo se la voce e la chitarra di Dana Margolin, il basso di Maddie Ryall, le tastiere di Georgie Stott e la batteria di Sam Yardley si mostreranno ancora all’altezza della situazione.

Un gruppo che si è sempre ispirato ai classici e che, disco dopo disco, è riuscito a diventare a sua volta un classico. Questo è quello che mi sono sentito di dire su Dave Heumann e i suoi Arbouretum dopo aver ascoltato il loro Coming Out Of The Fog pubblicato nel 2015. Il gruppo di Baltimora con quel disco aveva grosso modo ricalcato il sound del loro precedente The Gathering, con quel perfetto e ormai riconoscibile mix tra tradizione folk, psichedelia, stoner, blues e un certo cantautorato attinto a piene mani da quel Will Oldham di cui il leader della band è stato fido scudiero per anni. La scrittura è rimasta sempre fluida ed ispirata, le chitarre affilate, robuste e corpose, ma allo stesso tempo Heumann, insieme ai suoi fidati Corey Allender (basso), J.V. Brian Carey (batteria), e Matthew Pierce (tastiere e percussioni), era riuscito a deviare il corso della sua creatura accorciando gli assoli e aggiornando la tradizione.
In un brano come “World Split Open”, una delle tracce migliori del lotto, possiamo trovare addirittura tracce di Thin White Rope. Pur essendo dipendenti da modelli ormai stabiliti, gli Arbouretum avevano trovato una propria personalità, spiccata e riconoscibile, una matura classicità capace di rendere la band davvero unica. Peccato che da quel disco ai giorni nostri la band abbia saputo sfornare prima il debole Song Of The Rose per poi riprendersi un paio di anni fa con Let It All In. Chissà se Heumann e compagni saranno in grado di tornare ai livelli di eccellenza cui ci avevano abituato.

La parola “supergruppo” spesso fa rabbrividire, lo so. Nella quasi totalità dei casi, la somma della parti, anche nel caso di straordinari musicisti, hanno sempre portato cocenti delusioni se non flop clamorosi. Galeotta fu la pandemia, capace di bloccare in Australia il batterista Jim White (Dirty Three, Xylouris White), impedendogli di fatto il ritorno a Brooklyn dove vive da tempo. Di questa forzata “vacanza” australiana ha approfittato Gareth Liddiard (Tropical Fuck Storm, Drones), pronto ad invitare White in sala prove per provare qualche improvvisazione. Quando ai due si unisce il pianoforte di Chris Abrahams (The Necks, Benders, Laughing Clowns), si capisce che le vibrazioni e le tensioni tra i tre sono davvero importanti e stimolanti a tal punto che i musicisti per due settimane si chiudono in uno studio di registrazione isolato nello stato di Victoria per registrare (quasi in presa diretta) un intero album a nome Springtime.
I tre dimostrano di essere perfettamente in sintonia nel dipingere sette tracce di lunghezza variabile, personali e nostalgiche, che talvolta mostrano l’angoscia per la vita durante la pandemia e che altre volte sanno essere poetiche grazie alle liriche (“Jeanie In A Bottle” e la drammatica “The Viaduct Love Suicide”) del poeta irlandese Ian Duhig, zio di Liddiard. C’è il jazz “altro” ma non è un disco jazz, c’è la tipica psichedelia australiana, c’è una cover dal vivo di Will Oldham, un traditional riarrangiato, una narrazione di morte, distruzione, desiderio e devozione. C’è un gruppo vivo e vitale, con un’inaspettata alchimia tra i componenti, che rende brani come “Will To Power” incredibilmente vitali, personali, travolgenti. E se vi capita, ascoltate anche il nuovo EP intitolato Night Raver, i tre spingono più sull’improvvisazione rispetto all’esordio, ma vi conquisterà.

Se prima abbiamo parlato dell’importanza dei Sonic Youth, andiamo adesso a trovare l’ultima fatica solista del loro chitarrista e boss: Thurston Moore. Nel 2011 parallelamente alla chiusura dei 27 anni di matrimonio con Kim Gordon, Moore metteva la parola fine anche al percorso artistico di uno dei gruppi più importanti e influenti della storia del rock. Da lì il chitarrista ha ripreso il suo percorso musicale da solista con un disco inusuale come Demolished Thoughts per poi riprendere con forza il vangelo sonicyouthiano che trova un picco assoluto con il doppio By The Fire pubblicato lo scorso anno.
Più di 80 minuti di musica registrati con l’aiuto di Deb Googe (My Bloody Valentine) al basso, James Sedwards alla seconda chitarra, l’ex sodale nei SY Steve Shelley e Jem Doulton alla batteria e Jon Leidecker (Negativland) all’elettronica, dove Moore si sbizzarrisce con brani dalla durata variabile da 17 a 4 minuti, pieni di graffi, melodie, lunghe jam che accolgono anche incursioni kraut, psichedeliche e ambient. Un disco splendido, tra le cose migliori prodotte dal Moore solista e non solo, aperto dal gran duello di chitarre di “Hashish”.

Adesso andiamo a trovare un altro gruppo estremamente interessante proveniente dalla terra di Albione. I TV Priest sono una band di Londra formata da Charlie Drinkwater (voce), Nic Bueth (basso e synths), Alex Sprogis (chitarra) e Ed Kelland (batteria). I quattro, non più giovanissimi, fanno in tempo solo a scrivere alcuni pezzi e fare un solo concerto prima che l’arrivo della pandemia sconvolga tutto il mondo della musica, non solo dal vivo. Per un attimo sembra che tutto sia perso per il quartetto, compreso una sorta di pre-contratto con la Hand In Hive, ma a cambiare le carte in tavola arriva nientemeno che la Sub Pop, colpita dai testi impegnati e dall’energia del gruppo, pronta a metterli sotto contratto.
E così finalmente il gruppo ha potuto riprendere di slancio le registrazioni di Uppers, il loro album di esordio che ha visto la luce ad inizio febbraio 2021. Meno vulcanici degli Idles, ma affilati e profondi, con le liriche a criticare il patriottismo monarchico in una modalità estremamente polemica. Come in quasi tutti i gruppi che si rifanno ad un’estetica post-punk, in un angoletto c’è sempre Mark E. Smith come nume tutelare, ma ognuno riesce (per fortuna) a declinare il suono a modo proprio. I TV Priest lo fanno inserendo un paio di interludi strumentali in mezzo a 10 tracce che trasudano l’ansia e disagio di una generazione tra Brexit e pandemia. “This Island” è una delle tracce che meglio esprimono questo sentimento, cartina di tornasole di un esordio interessante e coinvolgente. Il 17 giugno uscirà l’atteso seguito intitolato My Other People, e con ogni probabilità avremo la vera dimensione del quartetto inglese.

Nel 1998 l’uscita di Philophobia degli Arab Strap gettò nel caos la piccola comunità scozzese di Falkirk. Alcuni piccoli e grandi segreti di alcuni dei 35.000 abitanti della città posizionata nella Forth Valley furono messi clamorosamente in piazza in maniera nuda, scarna, lenta e sofferta dalla voce narrante di Aidan Moffat e dagli arpeggi di Malcolm Middleton. L’esordio del duo scozzese era formato da canzoni malinconiche che parlavano di debolezze quotidiane, di sbornie, scopate e tradimenti. Canzoni che riescono ad arrivare dritte allo stomaco anche dopo tutti questi anni, visto che il disco è del 1998 e lo scioglimento del sodalizio scozzese risale al 2006.
Nonostante i dischi solisti dei due ci abbiano regalato più di qualche gioia soprattutto i progetti solisti di Moffat a nome Nyx Nótt) ci mancava quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera insieme hanno saputo quasi sempre regalarci. La notizia del ritorno del duo nel 2016 ci aveva scaldato il cuore, ma, come sempre avviene sulle reunion dei gruppi che abbiamo amato molto, poi è subentrata la paura. Il timore della delusione, di non ritrovare gli stessi Moffat-Middleton. Ma già dalle prime note di As Days Get Dark si capisce che sono sempre loro. Dietro ad arrangiamenti perfetti e raffinati troviamo quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera insieme hanno saputo quasi sempre regalarci. “The Turning Of Our Bones” è l’ennesimo esempio di come il duo riesca ancora ad entrare emotivamente sottopelle narrando in maniera cinica ed emotiva la cruda realtà della vita di provincia. Bentornati!

La coppia nella vita e sul palcoscenico Andreas Werliin e Mariam Wallentin con il nome di Wildbirds & Peacedrums, ha saputo conquistarmi da subito: l’approccio tanto scarno quanto nuovo dei due studenti di teatro e musica di Goteborg, con la voce di lei abile a cambiare tonalità espressiva, riuscendo ad essere tanto seducente quanto sanguigna, e le percussioni di lui a riempire ogni spazio in un caleidoscopio voce-ritmo da togliere il fiato. Un primitivismo folk-blues spogliato da ogni orpello, proiettato al confine con il pop senza però mai attraversarlo del tutto, solo per voce e percussioni con il solo ausilio di xilofoni ed organetti e con quegli svolazzi orientaleggianti a fare capolino (retaggio dell’origine siriana di Mariam) che hanno sempre reso il piatto speziato ed unico.
E mentre pensavo che i due fossero tropo presi dai loro progetti alternativi, dal maelstrom avant-jazz del collettivo Fire! Orchestra, all’inserimento della Wallentin nei potenti The Skull Defekts passando per le velleità pop di Mariam The Believer, ecco che nel 2014 la coppia è tornata spiazzando e colpendo al cuore con lo splendido (ancora una volta) Rhythm da cui ho estratto l’incredibile “Gold Digger”. Sono passati 8 anni da questo ennesimo splendido lavoro e la speranza è quella che il duo possa tornare in sala di registrazione.

Lui ci manca, ci manca sempre molto. Pazzesco pensare che sono passati quasi 20 anni da quel giorno tremendo in cui Elliott Smith ha deciso di porre fine alla sua esistenza terrena in un modo che ancora oggi non è stato mai del tutto chiarito. Nel 1994 Smith, non rispecchiandosi più nel suono rumoroso indie-punk-grunge dei suoi Heatmiser, ha deciso di imbracciare la chitarra acustica per permettere al suo animo e alle sue sensazioni di venire fuori in maniera più naturale. Da quel momento è iniziata la parabola straordinaria di un artista sensibile e meraviglioso, interrotta soltanto da una tragedia personale enorme.
Dallo schietto e sincero folk cantautorale dell’esordio Roman Candle in cui gli accordi si succedevano con intensità e purezza sottolineando i testi malinconici e densi dei problemi quotidiani e del mal di vivere, Smith era passato ad incidere dischi con fisionomia e arrangiamenti più corposi, ma la meraviglia e la semplicità dei suoi brani non hanno mai smesso di incantare. Either / Or è stato il suo terzo lavoro in studio, e “Rose Parade” è tuttora una delle sue cose più belle in assoluto. Elliott Smith ci ha lasciato tante meraviglie, scritte ed interpretate da un artista fragile e incompreso, la cui delicata e malinconica creatività ci manca ogni giorno di più.

Un altro autore tanto talentuoso quanto fragile e malinconico, vittima poi delle sue stesse debolezze è stato Jason Molina, capace nelle sue diverse sfaccettature di rinnovare in qualche modo la tradizione cantautorale americana. Con il progetto Songs: Ohia, Molina muove i suoi primi passi discografici sotto l’ala protettrice di un altro grande del cantautorato a stelle e strisce come Will Oldham, per poi proseguire con l’ausilio costante dell’etichetta Secretly Canadian. Dopo un inizio timido in cui le qualità di racconto della tradizione americana venivano fuori in maniera acerba, Molina prende via via confidenza con la propria scrittura diventando sempre più solido nella sua interpretazione personale del songwriting.
Nel 2003 Molina, fa uscire l’ultimo album a nome Songs: Ohia, il cui titolo segna la transizione ad una nuova ragione sociale: The Magnolia Electric Co. Il disco, registrato con una nuova formazione e prodotto da quel Steve Albini di cui abbiamo parlato diffusamente ad inizio podcast, segna un distacco dai lavoro precedenti, andando a lavorare in maniera più elettrica sulle radici blues e country, senza rinnegare il cantautorato classico che emerge in brani splendidi come la “Just Be Simple” inserita in scaletta. 10 anni più tardi Molina ci lascerà, a causa della sua dipendenza dall’alcool e dal sistema sanitario statunitense che non lascia scampo a chi non può permettersi un’assicurazione sanitaria. Come nel caso di altri autori scomparsi prematuramente (Linkous, Smith, Chesnutt), ci manca moltissimo la sua sensibilità di autore e la bellezza cristallina di moltissime sue composizioni.

Ogni tanto qualcuno si lamenta che attualmente si produce solo musica di merda. Affermazione che può essere corretta solo se si osserva il mondo musicale solo da un punto di vista superficiale semplicemente ascoltando quello che propongono le radio commerciali o il mainstream in generale. La situazione probabilmente è ancora più evidente nella nostra penisola, sconvolta musicalmente dai talent show e dai fenomeni da baraccone su YouTube e sui social networks. Proprio in una situazione così complicata, è importante che la passione e la curiosità non vengano mai meno, per andare a cercare le proposte davvero interessanti che invece ci sono sempre, nel mondo come in Italia.
Quanto detto vale per il trio romano dei Vonneumann. “NorN è un omaggio ad uno degli errori lessicografici più famosi della storia: la parola inesistente dord. Siccome Vonneumann ha tante N nel suo nome, ci piaceva omaggiare dord sostituendo la simmetria delle D con le N.” Questa la spiegazione del titolo, ma per quanto riguarda la musica, beh, quella è tutta un’altra storia. NorN è un disco funk, anzi no, un disco elettronico, anzi no, un disco rock, anzi no. Forse è tutte queste cose insieme, forse è un ibrido tanto coraggioso quanto eccitante, soprattutto pensando che è stato prodotto in Italia. Una ricerca sonora in continua mutazione, un linguaggio sonoro nuovo, non perdeteli, sarebbe un delitto! Tante le collaborazioni in questo splendido album mutante, da Lucio Leoni a Vera Burghignoli, dal sax di Sonia Scialanca alla batteria di Andrea Cerratoche spezza e ricompone il ritmo di questa incredibile “Humanoide”.

Ancora una volta chiudiamo il podcast con suoni “poco convenzionali”. Nel 1999 Nick “Zammuto” Willscher e Paul De Jong si trovano a condividere lo stesso appartamento a NYC. Il chitarrista Zammuto e il violoncellista De Jong trovano terreno musicale fertile nell’amore per la tradizione folk americana e per sampling e field recordings. I due decidono di fare musica insieme sotto il nome di The Books, trovando l’appoggio dell’etichetta Tomlab incuriosita dalle sperimentazioni “cut and paste” dei due. De Jong e Zammuto non si trovano nella migliore situazione logistica per comporre i brani dell’esordio (De Jong tra New York e l’Olanda, Zammuto tra Maine e Georgia) ma riescono nel miracolo a distanza.
Thought For Food è il primo capitolo di una storia entusiasmante in quattro parti, registrato a New York, Los Angeles, Boston e, infine, in un seminterrato di un ostello della Carolina del Nord, l’Elmer’s Inn. La varietà degli studi di registrazione va di pari passo con la struttura compositiva, dove i due si divertono con i loro giochi di addizione e sottrazione, tra field recordings, samples di voci che spuntano ovunque, frammenti di folk e altri strumenti ricomposti con maestria. Un collage di suoni e voci che può sembrare dispersivo, ma che invece conquista con la sua intelligente folktronica, lanciando i The Books come alfieri di una nuova ed eccitante maniera di gestire una vasta biblioteca sonora. “Enjoy Your Worries, You May Never Have Them Again” è solo il primo episodio di una compiuta parabola di quattro album prima dello scioglimento della ragione sociale, tutti ben superiori alla media.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves, andremo ad esplorare il potente messaggio degli Algiers, le asperità degli E di Thalia Zedek, le seducenti meraviglie dei Morphine, una delle band che ci manca di più in assoluto e l’eclettismo sonoro degli Elegiac voluti da Graham Lewis dei Wire. Troverete anche l’atteso primo album solista dell’ex Moonshake David Lance Callahan, l’incredibile intensità dei The Notwist, il citazionismo intelligente dei Field Music, il ritorno del bardo Richard Dawson accompagnato a sorpresa dai finlandesi The Circle ed la meravigliosa classicità pop degli XTC. Ci sarà anche spazio per il folk cantautorale di Anais Mitchell, Bon Iver e AniDiFranco e per la macchina del tempo messa in piedi da uno stratosferico Reverend Horton Heat. Il finale è appannaggio della creatività senza limiti di Josephine Foster. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. SHELLAC: Dog And Pony Show da ‘At Action Park’ (1994 – Touch And Go)
02. UZEDA: Time Below Zero da ‘Stella’ (2006 – Touch And Go)
03. SONIC YOUTH: Secret Girl da ‘Evol’ (1996 – SST Records)
04. PORRIDGE RADIO: Lilac da ‘Every Bad’ (2020 – Secretly Canadian)
05. ARBOURETUM: World Split Open da ‘Coming Out Of The Fog’ (2013 – Thrill Jockey)
06. SPRINGTIME: Will To Power da ‘Springtime’ (2021 – Joyful Noise Recordings)
07. THURSTON MOORE: Hashish da ‘By The Fire’ (2020 – The Daydream Library Series)
08. TV PRIEST: This Island da ‘Uppers’ (2021 – Sub Pop)
09. ARAB STRAP: The Turning Of Our Bones da ‘As Days Get Dark’ (2021 – Rock Action Records)
10. WILDBIRDS & PEACEDRUMS: Gold Digger da ‘Rhythm’ (2014 – Leaf)
11. ELLIOTT SMITH: Rose Parade da ‘Either / Or’ (1997 – Kill Rock Stars)
12. SONGS: OHIA: Just Be Simple da ‘The Magnolia Electric Co’ (2003 – Secretly Canadian)
13. VONNEUMANN: Humanoide da ‘NorN’ (2017 – Ammiratore Anonimo Records)
14. THE BOOKS: Enjoy Your Worries, You May Never Have Them Again da ‘Thought For Food’ (2002 – Tomlab)