Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete i consueti balzi temporali per festeggiare l’inizio della nuova stagione.
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 16 stagioni. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante Play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia e delle polemiche ad ogni costo, ogni cosa sembra che venga letta dietro ad una lente distorta. Dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e passione, dove sembrano esserci solo schieramenti ciechi e cattivi, proviamo nel nostro piccolo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che vogliamo seguire.
Nel quarto viaggio della nuova stagione potrete trovare la nascita della psichedelia dei 13th Floor Elevators nei ’60 e lo sviluppo del suono lisergico con i The Flaming Lips due decadi più avanti, il blues seducente ed autentico dei 15-60-75 The Numbers, la meraviglia dei racconti crudi su New York di uno splendido Lou Reed, il punk blues satanico e voodoo dei californiani The Gun Club, la grande conferma dei Low come una delle band più importanti degli ultimi 30 anni, un David Callahan di annata con il post-rock dei Moonshake e con le sferzate impegnate socialmente dei Wolfhounds. E ancora troverete due cantautori di enorme sensibilità e fragilità come Elliott Smith e Mark Linkous aka Sparklehorse, l’Irlanda dei Chieftains (ricordando Paddy Moloney) da soli e con Van Morrison ed un gran finale onirico con le meraviglie ed i silenzi di Hood e Mark Hollis. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con la prima apparizione del suono psichedelico. Ad Austin, nel Texas nel 1965 il suonatore di jug elettrico Tommy Hall fuoriuscì dai Conqueroo e, per creare una formazione nuova di zecca, andò a prendere musicisti da altri due gruppi poco noti. Dagli Spades, arrivò il cantante e chitarrista Roky Erickson, mentre dai Lingsmen arrivarono il bassista (in origine violinista) Benny Thurman, il batterista John Ike Walton e il chitarrista Stacy Sutherland. La nuova band prese il nome di 13th Floor Elevators. che già dalla ragione sociale attingeva a piene mani dalle visioni dovute dall’uso smodato dell’LSD per creare un universo parallelo.
Il nome, oltre all’uso del 13º piano (che in molti grattacieli negli States non esiste), si riferisce anche al 13º e ultimo piano della piramide di illuminazione, dove sorge l'”occhio che tutto vede” o “terzo occhio”, un posto di rilievo nell’immaginario della band già dalla copertina del loro esordio The Psychedelic Sounds of the 13th Floor Elevators, uscito nel 1966 e pietra angolare di tutto il suono lisergico. Tra i primi consumatori di droghe, i membri della band riuscirono a scrivere una serie di tracce acide e viscerali filtrate attraverso l’uso dell’LSD. Il primo successo fu il primo singolo estratto “You’re Gonna Miss Me”, scritto nel 1965 da Roky Erickson per gli Spades, che entrò di prepotenza nella classifica statunitense diventando col tempo uno dei brani simbolo della psichedelia. Purtroppo i membri della band furono anche le prime vittime dell’uso di LSD e marijuana che loro stessi sostenevano e propagandavano, tanto che Erickson fu arrestato più volte e rimase dal 1969 al 1972 in un ospedale psichiatrico. La band si sciolse alla fine del 1968 dopo aver inciso solo tre album in studio.
Voi malcapitati che seguite i miei podcast su Radio Rock The Original conoscete bene la mia predilezione per i Flaming Lips da Oklahoma City. Wayne Coyne, Steven Drozd e Michael Ivins non hanno mai smesso di sperimentare, di cambiare pelle, di giocare a modo loro sia con il pentagramma che con tutto quello che gli ruota attorno. Questa è sempre stata (forse) la loro dannazione e (sicuramente) la nostra benedizione. Un calderone istrionico che abbracciava all’inizio la psichedelia pura, ma che non ha mai disdegnato di confrontarsi con diversi altri stili musicali. Dai giochi sul palcoscenico con le mani giganti (recentemente rubate e poi ritrovate), il supermegafono, la bolla di plastica dentro la quale Wayne Coyne si muove sul pubblico, i giochi pirotecnici, i milioni di coriandoli, fino alle sperimentazioni sul suono stesso della band con i famosi “parking lot experiments”, ovverosia 40 cassette create dal gruppo che dovevano essere suonate contemporaneamente all’interno di un parcheggio.
Come dicevamo, la band è partita da un approccio psichedelico e garage, diventando una sorta di discepoli dei 13th Floor Elevators a distanza di tre lustri. Allora sono voluto tornare indietro fino al 1986, quando usciva il loro album di esordio: Hear It Is. L’album mostra un’alternanza irruenta e schizofrenica tra garage e psichedelia, guidata con mani sapienti. Il riff trascinante ed anthemico di “Staring At Sound / With You (Reprise)” chiude il disco come meglio non si potrebbe, con energia e fantasia, introducendoci nel loro fantastico mondo. Piano piano i ragazzi di Oklahoma City sono riusciti a dosare sempre meglio i propri ingredienti diventando una delle band più importanti della storia recente del rock.
A otto anni dalla sua morte è doveroso ricordare un vero e proprio gigante del rock come Lou Reed. Cantore al contempo crudo e ironico dei bassifondi metropolitani, dell’ambiguità umana, dei torbidi abissi della droga e della deviazione sessuale, ma anche della complessità delle relazioni di coppia e dello spleen esistenziale, Reed ha finito con l’incarnare lo stereotipo dell’Angelo del male, immagine con cui ha riempito i media per oltre tre decenni divenendo una delle figure più influenti della musica e del costume contemporanei. Dopo gli sfolgoranti anni ’70, il decennio successivo non è stato certo così indimenticabile per Reed, a parte pochissimi casi isolati. A rivalutare però tutto il periodo, arriva proprio a fine decennio quello che è ricordato come uno dei suoi lavori più ispirati.
New York non è solo la sua città, ma il centro del suo mondo, un microcosmo da raccontare in tutte le sue sfaccettature, le sue contraddizioni, i suoi peccati e le sue redenzioni. L’album è uno spaccato di vita vissuta diviso in 14 cortometraggi dove l’artista racconta con passione e senza retorica un’intera epoca. Un concentrato di letteratura, con i testi che spaziano dalla politica allo spettro dell’AIDS con una prosa cruda e passionale. Difficile scegliere una sola traccia per rappresentare il disco, ma in attesa di un podcast dedicato solo a questo capolavoro, ho deciso di inserire la splendida “Halloween Parade”, inno del gay pride (attraverso il ricordo della parata di Halloween al Greenwich Village) durante un periodo a New York in cui l’AIDS stava devastando la città ei politici facevano di tutto per non parlarne. La malattia non viene mai nominata direttamente ma aleggia sul racconto di persone che, con ogni probabilità, nella prossima parata non ci saranno più. Ho anche scelto la versione registrata live a Baltimora nel marzo 1989 inclusa nella straordinaria versione Deluxe pubblicata nel 2020. Il suo quindicesimo album in studio rimarrà come uno dei migliori della sua carriera.
La “rivoluzione” del punk è stata devastante, e ci fu chi tentò la strada del modificare il nuovo spirito piegandolo verso la tradizione blues. Jeffrey Lee Pierce tentò questa difficile strada avendo dalla propria il sacro fuoco dell’arte insieme ad un notevole carisma sciamanico. Il punk blues satanico e voodoo dei californiani The Gun Club conquistò più di un cuore con il fenomenale Fire Of Love, e la band consolidò la sua posizione anche con il seguente Miami. Sette album in studio con la band e due come solista, una vita sempre borderline, minata dagli abusi di alcool e droghe che lo portarono alla morte per emorragia cerebrale a soli 37 anni il 31 marzo 1996. La band di Pierce ha avuto un’influenza enorme su band del calibro di R.E.M, Nick Cave and the Bad Seeds, Sonic Youth e The White Stripes.
La mia scelta per rappresentare il suono del gruppo è caduta sul secondo lavoro, Miami, in cui il blues del Delta si fonde non solo con il punk ma anche con il country, nell’accezione deviata e messianica forgiata dal proprio leader. “Carry Home” è il brano che non ricalca pedissequamente il predecessore
A pensarci bene è una sorta di cosciente e lucida follia. La pazzia meravigliosa di una band che in 50 anni di attività ha pubblicato una decina scarsa di album senza mai avere un vero contratto discografico. I The Numbers da mezzo secolo tengono alto nella notte il fuoco sacro del blues di cui si vantano (a ragione) di conoscere a menadito la mappa, compresi quegli angoli più nascosti che comunicano con i ripostigli jazz. I fratelli Kidney (Robert, chitarra e voce e Jack, tastiere e armonica) insieme a Terry Hynde al sax, Bill Watson al basso e Clint Alguire alla batteria, dal loro nascosto angolo di Kent nell’Ohio hanno sempre prodotto musica, anche senza inflazionare il mercato. In questo mezzo secolo la band ha dato spettacolo sul palco, collaborato con personaggi del calibro di David Thomas, Anton Fier e partecipato ad alcune delle varie incarnazioni dei Golden Palominos.
La loro è una visione singolare ma vera del blues, un’immagine reale dell’America proletaria, interpretata senza inutili tecnicismi e fronzoli. La loro intenzione nel festeggiare il mezzo secolo di attività era di registrare la loro musica in un modo che potesse mettere in risalto il rischio e la vulnerabilità dell’esecuzione. La band ha festeggiato nel 2020 il mezzo secolo di attività con un album registrato quasi tutto in presa diretta, lasciando che la tecnologia avesse il minor impatto possibile. Il risultato, Endure: Outliers On Water Street, è l’ennesimo album autoprodotto (e per questo non di facilissima reperibilità) capace di raggiungere un livello di eccellenza. I lunghi anni di silenzio non sembrano aver arrugginito l’impatto sonoro della band che già dall’avvio di “Back To Disaster” mostra di essere in forma strepitosa. Un inizio fluido tra pennate classiche su cui l’armonica ricama cerchi deliziosi, un intermezzo febbrile e dissonante, un esaltante call and response voce-cassa-charleston che confluisce in uno straordinario finale.
Tre anni fa, i Low sono tornati prepotentemente alla ribalta con Double Negative, un album che prende alla gola e al cuore, che strizza l’anima, un buco nero capace di inghiottire tutto senza pietà. I detriti e schegge elettroniche, ormai inseriti in pianta stabile nel loro DNA, a nascondere tra i loro vortici una bellezza indicibile. La cosa che aveva lasciato stupefatti critica e pubblico, era pensare come Alan Sparhawk (chitarra e voce) e la sua consorte Mimi Parker (batteria e voce) dopo aver esordito nel 1994 con un capolavoro come I Could Live In Hope fossero riusciti, a distanza di tanti anni, ancora a sorprendere. A distanza di tre anni, i coniugi di Duluth lasciano (momentaneamente?) da parte il fido bassista Steve Garrington e proseguono nel loro percorso sonoro che alterna manipolazioni tecnologiche a intense e celestiali armonie. Hey What prosegue il percorso dei Low, aggiornandolo addirittura di versione.
Il disco, che vede il confermatissimo BJ Burton in cabina di regia, mostra un suono ormai assestato. Non ci sono sorprese, e non potrebbe essere altrimenti, ma calibrati aggiustamenti di tiro, sempre però di enorme intensità e potenza. In questa incredibile ricerca di un miracoloso e ibrido equilibrio tra armonia e dissonanze, tra spasmi di feedback e voci eteree, tra gospel e risacche rumoristiche, tra slowcore e avanguardia si muove il duo di Duluth, cercando di mettere una sottospecie di ordine tra le macerie fumandi del disco precedente. Un paziente lavoro di sottrazione, di erosione alla ricerca di segreti nascosti, di perle scintillanti di indicibile bellezza che porta al concepimento di brani come la “Days Like These” inserita in scaletta, con le voci di Parker e Sparhawk a giocare con naturalezza e semplicità modulando vari contrasti di bianchi e neri e controllando le alternanze di rumore e melodie con una naturalezza e semplicità davvero incredibile. Con l’augurio che non possano mai smettere di emozionarci e sorprenderci, lunga vita ai Low: come non mai abbiamo bisogno di loro.
I Moonshake sono stati sempre uno dei miei gruppi preferiti della scena post-rock britannica degli anni ’90, tanto da farmi scrivere un lungo articolo che ne ripercorre tutti i passi dagli esordi allo scioglimento. La band è stata formata da David Callahan e Margaret Fiedler nel 1990 scegliendo un nome che ne sancisse in maniera inequivocabile il legame con il krautrock (“Moonshake” è un brano che fa parte del seminale Future Days dei Can). I due leader trovano presto un loro equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa.
Dopo lo splendido esordio Eva Luna in cui Pop Group, Can, Public Image Ltd. e My Bloody Valentine si stringono in un caleidoscopico girotondo, la Fiedler lascia la band lasciando la scena al solo Callahan che con il fido batterista Miguel “Mig” Moreland e l’innesto del nuovo sassofonista, flautista e clarinettista Raymond M. Dickaty, da alle stampe nel 1994 lo splendido The Sound Your Eyes Can Follow. Il suono è orgogliosamente “guaranteed guitar-free” e l’album non tradisce affatto le radici del gruppo, andando ad investigare più a fondo le marcate influenze jazz. In questo disco si inseguono senza sosta soul, jazz, funk, prendendo definitivamente i Rip Rig + Panic come numi tutelari, e mantenendo l’alternanza vocale maschile/femminile con l’innesto in cinque brani della (quasi irriconoscibile) voce di PJ Harvey, accreditata semplicemente come Polly Harvey come nel funk nervoso intitolato “Just A Working Girl”. I Moonshake sono stati semplicemente uno dei gruppi più originali degli anni novanta il cui unico torto, forse, è stato di essere stati troppo facili per l’avanguardia e troppo intellettuali per la massa.
Nella seconda metà degli anni 80 una band chiamata The Wolfhounds aveva pubblicato una manciata di album e numerosi singoli che avevano ottenuto un discreto successo grazie al loro pop abrasivo fondato sulle chitarre e legato alla scena C86, visto che avevano fatto parte della storica compilation messa in piedi dal New Musical Express nel 1986. Dopo lo scioglimento della band avvenuto nel 1990 dopo l’uscita di Attitude, il cantante e chitarrista David Callahan aveva deciso di formare una nuova band, si, proprio quei Moonshake di cui abbiamo parlato in precedenza. Dopo lo scioglimento di questi ultimi Callahan si prese qualche anno sabbatico trasferendosi negli USA.
Ma il richiamo di casa era troppo forte, e Callahan, tornato in patria, prima formò insieme alla cantante Anja Buechele i The $urplus!, poi, nel 2005, decise di riformare i The Wolfhounds per alcuni eventi live. L’adrenalina di risalire sul palco ha avuto l’effetto di una scintilla tanto luminosa da far tornare la band qualche anno più tardi in sala di incisione per incidere un nuovo album intitolato Middle Aged Freaks. Ormai la band è ufficialmente di nuovo insieme e l’attuale formazione vede, oltre a Callahan e allo storico sodale Andy Golding (chitarra e voce), Peter Wilkins (batteria) e Richard Golding (basso). Il terzo lavoro della nuova vita della band è uscito nel 2020 e si intitola Electric Music, un disco dove Callahan e Golding ci mostrano, grazie alle loro chitarre affilate e ai testi lucidi e impegnati, la visione di una Gran Bretagna divisa, una reazione allo snobismo e ai fallimenti all’interno del sistema politico britannico. La scrittura è emozionante, cupa, sincera e schiacciante come non mai e “Can’t See The Light” un brano davvero trascinante.
Sono passati ormai dodici anni da quando Mark Linkous ha deciso di andarsene definitivamente da un mondo che non sentiva suo. Il testamento sonoro che ci ha lasciato Mark nascosto dietro al moniker di Sparklehorse è però di inestimabile valore. A partire dall’album di esordio, un caleidoscopio sonoro dalla copertina apparentemente gioiosa ma in realtà un po’ inquietante (il volto di un clown senza pupille, senza naso, senza capelli e dal sorriso ambiguo che si staglia in un cielo azzurro) e dal nome tanto improponibile quanto (quasi) impronunciabile: Vivadixiesubmarinetransmissionplot. 16 brani diversi per lunghezza e ispirazione, ma tutti permeati di quella malinconia di fondo che segnerà l’opera omnia di Linkous.
C’è il folk rock dei Byrds, prima fonte d’ispirazione, ma c’è molto altro: arrangiamenti lo-fi, gioielli power-pop, lunghi country rock, e una splendida ballata acustica come “Saturday”. Durante il tour di promozione al disco durante che vede gli Sparklehorse al fianco dei Radiohead, Linkous viene trovato in overdose di valium e antidepressivi, svenuto nella sua stanza d’albergo a Londra. Rimase incosciente con le gambe bloccate in una posizione innaturale sotto il corpo per parecchie ore. Quando Linkous venne finalmente ricoverato in ospedale venne rianimato dopo un arresto cardiaco durato due o tre minuti, rischiò di perdere entrambe le gambe e subì numerosi e dolorosi interventi chirurgici. Ne uscirà vivo, pubblicherà altri lavori meravigliosi, con il suo cantautorato cristallino, ma la depressione non lo abbandonerà mai, portandolo al suicidio il 6 marzo 2010. It’s a sad and beautiful world Mark, I agree, e grazie per tutta la bellezza che ci hai saputo donare.
Ho sempre avuto un debole, lo ammetto, per i songwriters riservati, timidi, ipersensibili, personaggi come Nick Drake o Tim Buckley nel passato, oppure come Mark Linkous, Daniel Johnston, Jason Molina e Vic Chesnutt nel presente. E se sono già passati tanti anni dalla perdita di Mark Linkous, ne sono passati clamorosamente quasi venti da quel tremendo 21 ottobre 2003 in cui Elliott Smith ha deciso di porre fine alla sua esistenza terrena in un modo che ancora oggi non è stato mai del tutto chiarito. Nel 1994 Smith, non rispecchiandosi più nel suono rumoroso indie-punk-grunge dei suoi Heatmiser, ha deciso di imbracciare la chitarra acustica per permettere al suo animo e alle sue sensazioni di venire fuori in maniera più naturale.
Dallo schietto e sincero folk cantautorale dell’esordio Roman Candle in cui gli accordi si succedevano con intensità e purezza sottolineando i testi malinconici e densi dei problemi quotidiani e del mal di vivere, era passato ad incidere dischi con fisionomia e arrangiamenti più corposi, ma la meraviglia e la semplicità dei suoi brani non hanno mai smesso di incantare. XO forse è stato il suo lavoro in studio più popolare, quello che lo ha fatto conoscere anche al grande pubblico, e “Waltz #2 (XO)” è tuttora una delle sue cose più belle in assoluto, un brano scintillante che non può non emozionare, allora come oggi. Elliott Smith ci ha lasciato tante meraviglie, scritte ed interpretate da un artista fragile e incompreso, la cui delicata e malinconica creatività ci manca ogni giorno di più.
La sua scomparsa è passata quasi sotto traccia dalle nostre parti, ma chi ha a cuore la musica tradizionale irlandese non può non aver avuto un sussulto non appena appresa, ad ottobre 2021, la notizia della scomparsa di una figura leggendaria come Paddy Moloney. Nato a Dublino nel 1938, Moloney è stato il cofondatore nel 1962 di una dei più famosi gruppi di musica tradizionale irlandese: The Chieftains. Moloney suonava il tin whistle (classico flauto a fischietto) e le uillean pipes, le cornamuse irlandesi dal suono dolce e suonate attraverso un mantice assicurato intorno alla vita ed azionato con il braccio destro.
Il grande merito del gruppo è quello di aver reso popolare un genere da sempre di nicchia, grazie anche a collaborazioni importanti nel corso degli anni come quella con Van Morrison (di cui parleremo tra poco) e ad album come The Long Black Veil, che grazie ad una serie di collaborazioni (tra gli altri: Rolling Stones, Van Morrison, Marianne Faithfull, Mark Knopfler, Sinéad O’Connor, Tom Jones, Sting e Ry Cooder) è diventato uno dei loro maggiori successi. “The Foggy Dew” è una ballata scritta da Canon Charles O’Neill, un parroco irlandese, che dopo aver assistito alla prima seduta del parlamento irlandese volle dedicare una canzone alla Sollevazione di Pasqua del 1916 con lo scopo di incoraggiare gli irlandesi a combattere per la causa irlandese, piuttosto che per gli inglesi, come molti giovani stavano facendo durante la I Guerra Mondiale. Il testo di O’Neill è cantato in maniera straordinaria da un’emozionante Sinéad O’Connor, mentre Moloney e i suoi Chieftains interpretano con la consueta classe e passione la musica, presa quasi interamente da una vecchia canzone d’amore irlandese intitolata “The Moorlough Shore”.
Van Morrison non ha collaborato con i Chieftains solo in The Long Black Veil, ma soprattutto facendo uscire nel 1988 un album insieme che prende il titolo da una canzone di Morrison, Irish Heartbeat, e che accoglie anche (e non poteva essere altrimenti, otto brani della tradizione irlandese. Il disco, registrato presso gli storici Windmill Lane Studios di Dublino, è pervaso dall’amore per la tradizione musicale della propria terra. Le dieci tracce mostrano la passione intensa di musicisti che ormai dovrebbero essere più che navigati, ma che alle prese con i traditional della propria origine, non riescono a trattenere la commozione.
La scelta per il podcast è ricaduta su uno degli episodi più intensi del disco, un brano tratto da un poema di Patrick Kavanagh chiamato “Raglan Road”. Il poema, pubblicato per la prima volta nel 1946, parla dell’incontro di un uomo con una ragazza più giovane, e del rischio per l’uomo di farsi del male se avesse intrapreso una relazione con lei, rischio che viene accettato. La “conversione” in musica nacque quando il poeta incontrò Luke Kelly del noto gruppo irlandese The Dubliners in un pub di Dublino chiamato The Bailey. Il testo del poema venne messo in musica con la canzone tradizionale “The Dawning of the Day” (Fáinne Geal an Lae). I Dubliners la pubblicarono per la prima volta nel 1971, e quella di Van Morrison & The Chieftains è solo una delle tante versioni del brano, ma sicuramente una delle più ispirate.
Mark Hollis alla guida dei Talk Talk è stato protagonista di un’incredibile parabola artistica, una vera e propria mutazione genetica che ha trasformato la sua creatura da crisalide a meravigliosa farfalla. Partito da spartiti che lo vedevano accomunato alla corrente synth-pop, il gruppo progressivamente andò a dilatare le proprie composizioni contaminando il suono con innesti sperimentali e quasi jazz, finendo con l’essere precursore del nascente post-rock.
Dopo lo scioglimento del gruppo nel 1992, Hollis ha inciso il suo personale canto del cigno sei anni più tardi, un album solista che riprendeva le atmosfere sognanti e appese al cielo di Laughing Stock, in un afflato crepuscolare, intimo. Un ultimo battito in levare, l’impeto accennato di “The Gift” che poi si ritrae, disinnescando l’energia timidamente quasi a disagio per l’aver mostrato una tale tavolozza di colori, per poi tornare al bianco e nero, e al silenzio. Il silenzio di Mark Hollis dura da quel 1998, e purtroppo rimarrà tale, ma è meraviglioso poterlo interrompere ogni tanto e assaporare tanta bellezza.
Per chiudere il podcast in bellezza andiamo in Inghilterra e andiamo a rovistare nello scrigno segreto del post-rock britannico. Gli Hood vengono fondati a Wetherby, cittadina non distante da Leeds, dai due fratelli Richard e Chris Adams che cercano di mediare i movimenti che in quel momento andavano per la maggiore in Inghilterra (shoegaze e britpop) con l’indie rock statunitense. Dopo alcuni 7″ e tre lavori sulla lunga distanza abbastanza acerbi e confusi, la band trova finalmente la quadratura del cerchio collaborando con Matt Elliott (all’epoca con i Third Eye Foundation) e pubblicando Rustic Houses Forlorn Valleys.
L’album dilata il suono ed unisce in sei lunghi ed articolati brani il meglio del post-rock Made in England. E’ un album che in qualche modo si può paragonare al fantastico Hex dei Bark Psychosis (che ascolteremo nel gran finale) per il modo in cui le pause ed i silenzi riescono a vivisezionare l’anima, per i crescendo emozionali, i field recordings, i brevi giri chitarristici. Mentre i Bark Psychosis scattano un’istantanea del caos e della dispersione metropolitana, gli Hood hanno come paesaggio immaginario l’isolazionismo della campagna, con i rintocchi ovattati e la ricchezza di suoni che vanno a dipingere una serie di spettrali paesaggi rurali. “S.E. Rain Patterns” rivela l’alba di un mondo dimenticato, un orizzonte immaginario dove abbandonarsi ai sogni.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete la rivoluzione shoegaze dei My Bloody Valentine, gli scozzesi di culto The Phantom Band, il post punk industriale dei Killing Joke, le scosse degli A Place To Bury Strangers e il potente rock venato di soul dei The Afghan Whigs. Faremo un viaggio in Australia con i capostipiti del punk The Saints e il seducente suono dei Dirty Three, per non parlare dei The Walkabouts che fanno loro una splendida traccia in un altro gruppo di culto australiano, i Go-Betweens. Dopo il post-punk cerebrale ma coinvolgente degli Ought, andremo a trovare un sempre accattivante Andian Belew e il nuovo corso delle britanniche Goat Girl. Il trittico finale The Smiths-Tim Buckley-This Mortal Coil porterà con se mille ricordi ed emozioni. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE 13TH FLOOR ELEVATORS: You’re Gonna Miss Me da ‘The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor Elevators’ (1966 – International Artists)
02. THE FLAMING LIPS: Staring At Sound / With You (Reprise) da ‘Hear It Is’ (1986 – Restless Records)
03. LOU REED: Halloween Parade (Live – 16-3-1989, Baltimore, MD) da ‘New York’ (1989 – Sire)
04. THE GUN CLUB: Carry Home da ‘Miami’ (1982 – Animal Records)
05. 15-60-75 THE NUMBERS: Back To Disaster da ‘Endure (Outliers On Water Street)’ (2020 – 15-60-75 Self-released)
06. LOW: Days Like These da ‘Hey What’ (2021 – Sub Pop)
07. MOONSHAKE: Just A Working Girl da ‘The Sound Your Eyes Can Follow’ (1994 – Too Pure)
08. WOLFHOUNDS: Can’t See The Light da ‘Electric Music’ (2020 – A Turntable Friend)
09. SPARKLEHORSE: Saturday da ‘Vivadixiesubmarinetransmissionplot’ (1995 – Parlophone)
10. ELLIOTT SMITH: Waltz #2 (XO) da ‘XO’ (1998 – DreamWorks Records)
11. THE CHIEFTAINS: The Foggy Dew (Feat. Sinéad O’Connor) da ‘The Long Black Veil’ (1995 – RCA)
12. VAN MORRISON & THE CHIEFTAINS: Raglan Road da ‘Irish Heartbeat’ (1988 – Mercury)
13. MARK HOLLIS: The Gift da ‘Mark Hollis’ (1998 – Polydor)
14. HOOD: S.E. Rain Patterns da ‘Rustic Houses Forlorn Valleys’ (1998 – Domino)