Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete i consueti balzi temporali per festeggiare l’inizio della nuova stagione.
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 16 stagioni. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante Play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia e delle polemiche ad ogni costo, ogni cosa sembra che venga letta dietro ad una lente distorta. Dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e passione, dove sembrano esserci solo schieramenti ciechi e cattivi, proviamo nel nostro piccolo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che vogliamo seguire.
Nel quinto viaggio della nuova stagione troverete la rivoluzione shoegaze dei My Bloody Valentine, gli scozzesi di culto The Phantom Band, il post punk industriale dei Killing Joke, le scosse degli A Place To Bury Strangers e il potente rock venato di soul dei The Afghan Whigs. Faremo un viaggio in Australia con i capostipiti del punk The Saints e il seducente suono dei Dirty Three, per non parlare dei The Walkabouts che fanno loro una splendida traccia di Robert Forster, membro di un altro gruppo di culto australiano, i Go-Betweens. Dopo il post-punk cerebrale ma coinvolgente degli Ought, andremo a trovare un sempre accattivante Andian Belew e il nuovo corso delle britanniche Goat Girl. Il trittico finale The Smiths-Tim Buckley-This Mortal Coil porterà con se mille ricordi ed emozioni. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con una band che si è saputa ritagliare un posto importante nella storia del rock degli ultimi decenni. I My Bloody Valentine nacquero a Dublino nel 1983 per volere del chitarrista Kevin Shields, ed abbandonarono presto le suggestioni dark per approdare su altri lidi e creare un muro di feedback tanto forte quanto trascendente, e facendo di fatto nascere il genere shoegaze, così chiamato per la particolarità dei musicisti a guardare dal vivo più la pedaliera degli strumenti che il pubblico in sala. Shields, insieme al batterista Colm O’Ciosoig, trova la quadratura del cerchio con l’inserimento in formazione di Bilinda Butcher (chitarra e voce) e Debbie Googe (basso) e pubblicando a fine 1988 Isn’t Anything, esordio devastante nel proporre le coordinate sonore emotive e stordenti che saranno il loro marchio di fabbrica.
Tre anni dopo il loro secondo lavoro in studio, Loveless, renderà immortale il loro modus operandi, fatto di sovrapposizioni di suono, voci fluttuanti, innesti elettronici e distorsioni oniriche. In realtà proprio questa ricerca della perfezione sonora farà in modo che Shields chiami una quantità infinita di tecnici del suono facendo levitare il costo totale della registrazione del disco a circa 250.000 sterline. Proprio per l’impennata dei costi di produzione, oltre che per il continuo rinvio della consegna, il comportamento imprevedibile di Shields e lo scarso successo commerciale, i rapporti fra i My Bloody Valentine e la Creation Records si andarono deteriorando, costringendo la band a firmare per un’altra etichetta, la Island Records, che però di fatto non riuscì a pubblicare nulla visto che il terzo lavoro della band uscirà solo nel 2013. Loveless è considerato (a ragione) un vero capolavoro ed uno degli album più importanti degli anni ’90, lavoro qui rappresentato dalla splendida “When You Sleep” con le impennate taglienti delle tastiere a squarciare ripetutamente il muro di feedback creato da un gruppo che all’epoca ha davvero tentato (riuscendoci) di imboccare una strada nuova.
Ci spostiamo di poco sull’asse britannico, dall’Irlanda alla Scozia, per andare a trovare quella che risponde perfettamente alla definizione band di culto. Amici di lunga data, il cantante Rick Anthony, i chitarristi Duncan Marquiss e Greg Sinclair, il bassista Gerry Hart e il batterista Damien Tonner si uniscono a Glasgow sotto vari nomi per poi scegliere definitivamente la ragione sociale di The Phantom Band. Dopo tantissimi concerti nei locali limitrofi alla città industriale scozzese ecco la svolta nel 2007, la firma con la Chemikal Underground, l’etichetta creata nel 1994 dalla band The Delgados che ha raggiunto la grande popolarità con l’esordio dei Mogwai e degli Arab Strap.
Due anni più tardi, l’esordio Checkmate Savage li porta alla ribalta grazie ad una scrittura complessa ma avvincente che spazia dal folk al post-punk passando per intuizioni kraut e tribali che vanno sempre a segno come nell’iniziale “The Howling”. Il loro coacervo sonoro è sempre ben messo a fuoco, colpendo sempre grazie allo scintillante spirito melodico e pop da sempre bagaglio (più o meno visibile) delle band scozzesi. La fine della band arriva come un fulmine a ciel sereno. Nel 2015, durante una data francese a Lille del tour che doveva promuovere il quarto lavoro intitolato Fears Trending, vengono derubati di tutta la loro strumentazione. Che ci crediate o no, il tour finisce lì, e anche la storia dei The Phantom Band. Ma non riscoprirli sarebbe un delitto.
Lo shoegaze, insieme ad una componente noise, è stato sempre uno degli ingredienti principali di una band che si è formata a New York City nel 2002: A Place To Bury Strangers. Il primo nucleo si forma intorno alle figure di David Goffan (chitarra) e Tim Gregorio (basso e voce), ma è l’ingresso l’anno successivo del polistrumentista, cantante e maggiore compositore Oliver Ackermann a dare la definitiva spinta propulsiva al gruppo che, dopo l’abbandono proprio dei due membri fondatori, ruoterà sempre intorno al nuovo e conclamato leader. Dopo un primo album di rodaggio, il gruppo trova la via del successo nel 2009 con Exploding Head, disco in cui Ackermann mette perfettamente a fuoco la sua visione rumoristica e potente, avallata da splendide esibizioni live.
Nel 2012 con una formazione di nuovo cambiata che vede Dion Lunadon come nuovo bassista e il confermatissimo Jason “Jay Space” Weilmeister dietro ai tamburi, gli APTBS pubblicano un album intitolato Worship, in cui si assestano perfezionando la propria visione sonora fatta di distorsioni e feedback che si innestano in una forma canzone cui non fa certo difetto la melodia. Basta ascoltare la dirompente “You Are The One” per addentrarsi nel trascinante bosco electro wave dei newyorkesi. La band è tuttora in attività con una formazione (di nuovo) stravolta che vede la sezione ritmica formata dai coniugi Sandra e John Fedowitz.
La “rivoluzione” del punk è stata devastante, e ci fu chi tentò la strada del modificare il nuovo spirito piegandolo a suo modo. Quando alla fine degli anni ’70 Jaz Coleman forma il primo nucleo dei futuri Killing Joke, non immaginava la portata che avrebbe avuto la sua visione musicale negli anni a seguire. L’evoluzione del post-punk portato alle estreme conseguenze industriali. Ritmi ossessivi, tribali, sferzate elettroniche e scure. Jaz Coleman, insieme al batterista Paul Ferguson, al chitarrista Kevin “Geordie” Walker e al bassista Martin Glover costruisce una macchina perfetta che demolisce tutto quello che incontra.
Il loro album di esordio autointitolato, uscito nel 1980 è un pugno che stordisce, accelerazioni e bordate ritmiche sotto una pioggia incessante. I Pere Ubu che diventano dark, cucendo abrasivi tessuti elettronici e creando una mutante macchina infernale cui molti saranno debitori nel corso degli anni, come Trent Reznor con i suoi Nine Inch Nails, e parecchio metal industriale. La lugubre e incalzante “Requiem” è il brano di apertura perfetto per un album che è diventato una vera e propria pietra miliare.
Ebbene si, gli Afghan Whigs sono stati il mio gruppo preferito dell’era alternative rock statunitense degli anni ’90 che molti hanno erroneamente ammucchiato in un contenitore chiamato grunge. Ma la band in questione veniva da Cincinnati e non da Seattle, e amava spesso e volentieri sotterrare l’ascia di guerra o contaminarla con il verbo soul ed i venti Motown provenienti dalla città delle automobili, molto più vicina alla loro città natale rispetto alla Emerald City. La band è stata spesso e volentieri ispiratissima, capitanata da un Greg Dulli ironico e dandy, uomo attratto dal soul e dalla decadenza, perverso e depresso, ma sempre è comunque tra gli autori migliori della sua generazione.
Torniamo indietro nel tempo fino al 1993, epoca in cui il gruppo era davvero all’apice della forma, quando Greg Dulli ci faceva ardere di passione con il suo rock robusto e tormentato mischiato con la sensualità del soul. Gentlemen insieme al precedente Congregation, sono stati con ogni probabilità gli apici della loro produzione, e la splendida “Debonair” sta lì a dimostrare quanto focosa, passionale ed irresistibile fosse la loro proposta. Nel 1998, anno di uscita di 1965, si erano spenti riflettori sulla band dell’Ohio, riaccesi nel 2014 per una reunion che, purtroppo, non èmai stata realmente convincente.
Lo tsunami del Punk si è abbattuto sulle terre emerse musicali nel 1976, devastando territori e radendo al suolo le ultime vestigia del progressive. L’epicentro del terremoto che generò cotanta onda fu negli Stati Uniti, in particolare il 7″ dei Ramones intitolato “Blitzkrieg Bop”, anche se poi fu geniale il “caro” buon vecchio Malcom McLaren ad esportare il movimento in UK creando i Sex Pistols che fecero sconquassi nel regno della perfida Albione. Ma non tutti sanno che (parafrasando una celebre rubrica de La Settimana Enigmistica) un gruppo australiano esordì ben prima dei Pistols, condividendo quasi con gli stessi Ramones la primogenitura del movimento punk. Sto parlando dei The Saints, gruppo formato a Brisbane, in Australia, dal cantante e chitarrista Chris Bailey che, ispirati da band proto-punk proprio come gli Stooges o gli MC5, nel settembre 1976 registrano e pubblicano in Gran Bretagna il loro primo singolo intitolato “(I’m) Stranded”.
La rivista Sounds lo proclama addirittura “singolo di questa e di ogni settimana”, e il gruppo firma un contratto con la EMI per la pubblicazione di tre album, il primo dei quali, intitolato proprio “(I’m) Stranded” come il singolo di debutto, uscirà nel febbraio 1977, prima di tantissimi gruppi punk più noti al grande pubblico come gli stessi Pistols o i The Clash. E allora riascoltiamo i devastanti The Saints con la meravigliosa “Erotic Neurotic” tratta proprio dal loro folgorante debutto.
Se Warren Ellis ed il suo violino adesso sono associati senza dubbio ai Bad Seeds di Nick Cave, non va mai dimenticato che insieme a Mick Turner (chitarra) e Jim White (batteria), ha dato vita ad un gruppo che per 15 anni ha mostrato un nuovo approccio sonoro estremamente riconoscibile. I Dirty Three sono nati a Melbourne, Australia, e si sono messi in luce già dall’esordio di Sad & Dangerous targato 1994, come un gruppo capace di unire il folk rock e la psichedelia alla musica da camera. Il tutto con una estrema malinconia di fondo. Il segno distintivo del gruppo è senza ombra di dubbio il violino di Ellis che monta un pick-up chitarristico per poterne sfruttare i riverberi del feedback.
Nel 1998 il trio entra in studio con Steve Albini per creare una sorta di concept album incentrato sul mare. Il risultato è l’emozionante Ocean Songs, un disco dove i tre musicisti riescono a ricreare mirabilmente tutte le emozioni, i colori e i suoni del mare. Due anni dopo i tre tornano in studio e riescono di nuovo a creare quella tensione musicale e spirituale rendendo anche Whatever You Love, You Are un disco capace di colpire, trascinare e commuovere. Il cielo stellato prende il posto del mare, e le pennellate dei tre aprono nuovi mondi con il loro suono emozionale. Ascoltate “Some Summers They Drop Like Flys” e lasciatevi trasportare verso nuove luminose stelle da questi tre straordinari musicisti.
The Walkabouts sono nati a Seattle negli anni 80 dall’incontro di Chris Eckman e Carla Torgerson, trovando una loro propria dimensione attingendo dalla musica country e folk e rivestendola con ricchi arrangiamenti. La band ha raggiunto la vetta artistica con gli ultimi due album usciti per la Sub Pop, New West Motel e la raccolta di cover Satisfied Mind entrambi usciti nel 1993. Il successivo passaggio alla Virgin non è stato indolore, Devil’s Road rimane un disco scialbo e piatto, ma nonostante questo il gruppo ha ottenuto un seguito crescente in Europa. Il seguente Nighttown invece è un suggestivo e cinematico viaggio notturno, scandito dall’alternarsi delle voci di Eckman e della Togerson in un maesltrom emozionale.
Torniamo quindi al 1993, e a quel capolavoro chiamato Satisfied Mind, tredici brani che non sono pedisseque riletture, ma un vero e proprio viaggio alla riscoperta delle proprie radici, di un terreno comune, di emozioni dimenticate. Brani di John Cale, Gene Clark, Patti Smith e Nick Cave che insieme a vari standards creano una stupefacente mappa all’incrocio tra country, rock, folk, e punk. Il brano scelto è la magica e incalzante versione di “The River People” brano tratto dall’esordio solista di Robert Forster, ex membro di una delle band australiane più sottovalutate, i The Go-Betweens.
Ci sono tre americani ed un australiano che si trasferiscono e mettono su una band a Montreal, in Canada. Non è una barzelletta, ma la vera storia degli Ought, band formata dal cantante-chitarrista Tim Beeler (che cambierà poi il suo cognome in Darcy) insieme al tastierista Matt May, al bassista Ben Stidworthy e al batterista-violinista Tim Keen. Dopo un EP autoprodotto il quartetto viene messo sotto contratto dalla straordinaria etichetta canadese Constellation e nel 2014 va in studio di registrazione guidato da Radwan Ghazi Moumneh, più conosciuto con lo pseudonimo di Jerusalem In My Heart.
Il risultato è un esordio, More Than Any Other Day, che mostra già un suono maturo, a tratti nevrotico, urgente, con la chitarra e la voce del leader a proporsi come una sorta di erede naturale di Tom Verlaine. Se vogliamo trovare un difetto alla band, possiamo dire che in un insieme eccelso mancano le canzoni davvero memorabili, ma la “Habit (I Feel A, I Feel A)” inserita in scaletta mostra un gruppo in gran forma e sicuro delle proprie potenzialità. Il secondo Sun Coming Down, uscito l’anno successivo sempre per Constellation, non delude le attese proponendo sempre il loro sound dissonante ma armonico allo stesso tempo, un post-punk nervoso alla Feelies che riesce forse anche a superare il già ottimo debutto. Dopo un terzo album che mostrava qualche scricchiolio nella scrittura, Room Inside The World pubblicato dalla Merge Records, la band decide di sciogliersi. Qualche mese fa Tim Darcy Beeler e Ben Stidworthy hanno annunciato di aver formato i Cola insieme al batterista Evan Cartwright, collaboratore di Meghan Remy aka U.S. Girls.
Personaggio incredibile Adrian Belew. Il chitarrista del Kentucky venne scoperto nel 1977 da Frank Zappa mentre suonava con il suo gruppo al Fanny’s Bar di Nashville. Rimase con la band di Zappa meno di un anno, il tempo di partecipare alla registrazione di Sheik Yerbouti per poi passare alla corte di David Bowie, con il quale realizzò l’album Lodger e il doppio live Stage. Nel 1980 partecipa alle registrazioni di Remain In Light dei Talking Heads mentre l’anno successivo accetta la proposta di Robert Fripp per diventare il cantante-chitarrista dell’attesa reunion dei King Crimson. belew rimarrà alla corte di Re Fripp addirittura fino al 2009.
Parallelamente all’ingresso nei King Crimson, Belew intraprende anche la sua carriera solista dove poter sfogare la sua passione per il pop intrecciandola con la sua tecnica chitarristica tanto intrigante quanto personale. In una discografia spezzettata temporalmente dagli impegni con i KC e quelli con il suo nuovo gruppo chiamato The Bears, nel 1992 Belew pubblica il suo sesto album intitolato Inner Revolution. Nel disco il cantante chitarrista mostra tutti il suo notevole estro, aggiungendo anche in un brano un quartetto d’archi. “This Is What I Believe In” è la fotografia del suo estro compositivo, della sua bravura come musicista e della sua notevole capacità di scrittura.
C’è questa nuova scena molto interessante nata nel sud della capitale britannica, da cui sono uscite fuori realtà estremamente interessanti come Fat White Family, Shame, Idles, Goat Girl e Dead Pretties. Nel corso degli ultimi anni, queste formazioni sono riuscite tutte ad ottenere un contratto discografico, creando qualcosa di nuovo per la scena musicale britannica: un nutrito gruppo di musicisti giovani concentrati sulla creazione di un personale suono guitar-oriented. Come detto, tra loro ci sono le Goat Girl, quartetto nato intorno ad un noto pub di Brixton chiamato The Windmill e che dopo il contratto con la storica Rough Trade e un interessante e ancora acerbo album di debutto si è trovato su un palco ad aprire l’ultimo (purtroppo) concerto dei The Fall prima della scomparsa di Mark E.Smith.
La band è formata dalla cantante-chitarrista Clottie Cream (Lottie Pendlebury),dalla chitarrista L.E.D. (Ellie Rose Davies), dalla bassista Naima Jelly e dalla batterista Rosy Bones (Rosy Jones). Dopo l’esordio ben accolto dalla critica dove le quattro svisceravano le paure di una generazione e le difficoltà della vita urbana in periferia, a rallentare il loro percorso c’è stata una malattia non proprio semplice che ha colpito la chitarrista Elle Rose Davies (fortunatamente risolta a lieto fine), e il cambio di bassista che ha visto Holly Hole (Holly Mullineaux) sostituire Naima Jelly. Tutto questo a portato le quattro ragazze ad incidere un lavoro profondamente diverso dall’esordio, con influenze psichedeliche, un impianto post-punk mai troppo aggressivo e un impianto complessivo più riflessivo. Anche le liriche si spostano dall’attacco violento verso i Tories ad una maggiore intimità. “Sad Cowboy”, il primo singolo estratto, è incentrato sull’idea di perdere la presa sulla realtà e su quanto spesso questo possa accadere. Quando sei in un mondo che ti fa costantemente sentire come se stessi vivendo un brutto sogno, la disillusione è inevitabile. Insomma, con On All Fours le Goat Girl ci hanno spiazzato, ma assolutamente in positivo.
Loro sono un gruppo che ha toccato il cuore di molti e di cui è difficile parlare visto che tra articoli, libri ed altro sono tantissimi quelli che hanno provato a sviscerare la parabola degli Smiths. Ammetto spudoratamente che da sempre tra Steven Patrick Morrisey e John Martin Maher in arte Johnny Marr (pseudonimo scelto per evitare di essere confuso con il batterista dei Buzzcocks) parteggio per quest’ultimo e che le esternazioni del primo difficilmente mi vanno a genio. In ogni caso questo non mi fa certo dimenticare le pagine meravigliose ed indimenticabili che hanno scritto. L’incontro tra i due, entrambi figli di immigrati irlandesi, avvenne mel 1982 a Manchester tramite una conoscenza comune, Steve “Pommy” Pomfret, un chitarrista che aveva già provato ad unire le sue forze con quelle del cantante. In realtà, già dal quel primo incontro, il povero Pommy capì subito che l’intesa tra i due sarebbe stata talmente totale che non ci sarebbe stato posto per lui nella futura band. La sinergia tra il cantante e paroliere amante della letteratura decadente e il chitarrista che traeva i suoi suoni dall’amore viscerale per un modo di affrontare la sei corde che discendeva direttamente da Roger McGuinn dei The Byrds ha segnato definitivamente un’epoca.
I due, insieme alla sezione ritmica composta da Andy Rourke al basso e Mike Joyce alla batteria, in soli quattro album pubblicati dal 1984 al 1987, hanno in qualche modo influenzato intere generazioni, creando un suono che abbandonava il post punk e la nascente new wave per tornare ad un certo modo di affrontare la melodia, segnata dai testo introversi e carichi di rabbia, passione e ironia del suo frontman. Dopo il successo del primo album, la band si tuffa nel mercato dei singoli e sforna “William It Was Really Nothing” il cui lato B è la struggente (e ancora oggi usata anche in ambito pubblicitario) “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want” una sintesi meravigliosa di creatività e melodia allo stato puro. Saranno le manie di protagonismo di “Moz” probabilmente, a decretare la crisi e la fine della band, e le turbolenze finali non potranno mai, per parafrasare una delle loro canzoni più note, spengere quella luce che per alcuni anni è stata davvero abbagliante.
Il cantante e cantautore Timothy Charles “Tim” Buckley III è stato senza dubbio uno degli artisti più geniali e innovativi della storia della musica. A tredici anni imparò a suonare il banjo. Entrò nella squadra di football americano della scuola, dove coprì il ruolo di quarterback. Durante uno scontro di gioco si ruppe le prime due dita della mano sinistra. Non riottenne mai l’uso completo delle dita, tanto che non poté più suonare il barré e ciò lo costrinse a usare accordi estesi. Durante il periodo delle scuole superiori conobbe Larry Beckett, autore della maggior parte dei testi dei suoi brani. Il 25 ottobre del 1965, a diciannove anni, sposò la compagna di scuola Mary Guibert, dalla quale, un anno più tardi, ebbe un figlio, Jeff Buckley, che negli anni novanta sarebbe diventato una stella, putroppo prematuramente scomparsa, del firmamento musicale.
Tim Buckley nella prima parte della sua carriera ha pubblicato prevalentemente brani folk rock dalle contaminazioni psichedeliche. Nonostante il carattere malinconico e introspettivo della sua musica, il cantante statunitense viene correlato alla corrente freak dell’epoca per la sua tendenza a fondere fra loro molti stili diversi in modo da creare una musica “totale”. Successivamente l’artista andò verso jazz e folk, cercando di trattare la sua voce, potente e duttile allo stesso tempo, come un vero e proprio strumento. La discussa svolta funk di Greetings From L.A. non intacca una carriera incredibile che si è consumata in un arco di tempo incredibilmente breve, dall’esordio a diciannove anni, alla morte a soli ventotto avvenuta a 29 giugno 1975 a Santa Monica, California, per overdose di eroina e alcool. Ci ha lasciato dei capolavori assoluti, da Goodbye & Hello a Starsailor, passando per Happy Sad e Lorca, messi in fila da uno degli artisti più straordinari della storia della musica. Proprio da Starsailor ho voluto farvi riascoltare uno dei vertici della sua produzione quella “Song To The Siren” che era stata scritta nel 1967 ma pubblicata solo 3 anni più tardi a causa del perfezionismo esasperato di Buckley.
Una delle versioni più famose di “Song To The Siren” è quella che Ivo Watts-Russell, presidente dell’etichetta 4AD, ha voluto inserire nel primo lavoro del “supergruppo” This Mortal Coil. La versione, cantata da Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, riaccese negli anni ’80 l’interesse per il lavoro di Tim Buckley. Anche se Watts-Russell e il produttore John Fryer sono stati gli unici due membri ufficiali, i tre album pubblicati dal collettivo presentavano un ampio cast rotante di artisti,, molti dei quali associati alla 4AD, inclusi membri di Cocteau Twins, Pixies e Dead Can Dance. Il progetto divenne noto per il suo suono gotico, scuro, ipnotico e dream pop, con pochi brani originali e molte cover, soprattutto di nomi non propriamente conosciuti dal grande pubblico come Big Star, Roy Harper, Colin Newman, Gene Clark, Spirit o Pearls Before Swine.
Il brano che ho scelto per chiudere il podcast è “Carolyn’s Song”, brano scritto da David Roback (Rain Parade, Opal, Mazzy Star) e pubblicato originariamente in quel capolavoro seminascosto del Paisley Underground chiamato Emergency Third Rail Power Trip, pubblicato dai Rain Parade nel 1983. Il brano, cantato meravigliosamente da Deirdre Rutkowski, è stato inserito nel terzo ed ultimo capitolo della saga del collettivo, lo splendido Blood uscito nel 1991.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Il prossimo episodio di Sounds & Grooves sarà un po’ particolare in quanto conterrà in parte coppie: coppie di sposi, fratelli o anche semplicemente di amici. Ma non solo, troverete anche qualche trio o gruppo più numeroso, con un minimo comune denominatore, che poi è tutto tranne che “minimo”: ogni band che ascolterete ha almeno un membro femminile al suo interno. Potete vederlo come una sorta di sensibilizzazione al fenomeno della violenza contro le donne e al femminicidio e probabilmente non sbaglierete, ma questo é anche un viaggio dal punto di vista musicale, non solo sociale. Ho voluto esplorare quella sottile e a volte scivolosa linea di confine tra psichedelia e shoegaze, in alcuni casi andando a trovare quello che è stato codificato come dream pop. Ma come nel sociale, tenderei ad abbattere una rigida suddivisione in generi per poterci abbandonare ad una visione musicale riflessiva, onirica e di grande sensibilità. La liquidità, la malinconia, la melodia, la capacità compositiva, una profonda intimità, ci prenderanno per mano e ci accompagneranno per tutta la durata del podcast in un flusso sognante ed immaginifico. Troverete nell’ordine: Sorry, King Hannah, Penelope Isles, Beach House, Slowdive(band), Mazzy Star, Let’s Eat Grandma, Modern Studies, Young Marble Giants Official, Stereolab, PEAKING LIGHTS, Galaxie 500, Belle and Sebastian. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. MY BLOODY VALENTINE: When You Sleep da ‘Loveless’ (1991 – Creation Records)
02. THE PHANTOM BAND: The Howling da ‘Checkmate Savage’ (2009 – Chemikal Underground)
03. A PLACE TO BURY STRANGERS: You Are The One da ‘Worship’ (2012 – Dead Oceans)
04. KILLING JOKE: Requiem da ‘Killing Joke’ (1980 – Malicious Damage)
05. THE AFGHAN WHIGS: Debonair da ‘Gentlemen’ (1993 – Elektra/Sub Pop)
06. THE SAINTS: Erotic Neurotic da ‘(I’m) Stranded’ (1977 – EMI)
07. DIRTY THREE: Some Summers They Drop Like Flys da ‘Whatever You Love, You Are’ (2000 – Touch And Go)
08. THE WALKABOUTS: The River People (Robert Forster cover) da ‘Satisfied Mind’ (1993 – Sub Pop)
09. OUGHT: Habit (I Feel A, I Feel A) da ‘More Than Any Other Day’ (2014 – Constellation)
10. ADRIAN BELEW: This Is What I Believe In da ‘Inner Revolution’ (1992 – Atlantic)
11. GOAT GIRL: Sad Cowboy da ‘On All Fours’ (2021 – Rough Trade)
12. THE SMITHS: Please, Please, Please, Let Me Get What I Want da ‘William, It Was Really Nothing (Single)’ (1984 – Rough Trade)
13. TIM BUCKLEY: Song To The Siren da ‘Starsailor’ (1970 – Warner Bros. Records)
14. THIS MORTAL COIL: Carolyn’s Song (Rain Parade cover) da ‘Blood’ (1991 – 4AD)