La chitarrista norvegese Hedvig Mollestad ci parla del nuovo album del suo Trio e dei suoi progetti futuri.
La Norvegia e la Scandinavia in generale hanno ormai da anni una solida tradizione in campo rock e nello sviluppo di una scena avant-jazz che si è dimostrata splendido laboratorio di suoni. Seguendo una personale visione, l’Hedvig Mollestad Trio, formato dalla chitarrista Hedvig Mollestad Thomassen insieme ai sodali Ellen Brekken al basso e Ivar Loe Bjørnstad alla batteria, è riuscito via via a raccogliere il rispetto degli appassionati del rock più duro grazie alle dinamiche sabbathiane e di quelli più puramente jazz grazie ad un interplay da trio classico e alla tecnica virtuosistica della Mollestad. In occasione dell’uscita del suo nuovo album, Ding Dong, You’re Dead, abbiamo contattato la chitarrista di Ålesund per una piacevole intervista in esclusiva che ha toccato moltissimi temi: dalla felicità di ritrovarsi in studio dopo il lockdown ai progetti futuri, passando per la genesi del nuovo album e l’evoluzione del sound del suo trio.
Ding Dong. You’re Dead è il sesto album registrato insieme alla bassista Ellen Brekken e al batterista Ivar Loe Bjørnstad. Come vi siete conosciuti?
Ho conosciuto Ivar all’università ed Ellen alla Music Academy di Oslo. Li ho riuniti nel 2009 per formare un trio con cui dovevo salire sul palco al Molde International Jazz Festival dove avevo appena ricevuto il premio come Young Jazz Talent Of The Year nel 2009. Avevo già sentito Ivar ed ero davvero sicura di avere un legame con il modo in cui suonava. Riguardo ad Ellen, avevo solo la sensazione che avrebbe funzionato, ma non potevo saperlo con sicurezza. Abbiamo passato ORE, GIORNI, SETTIMANE, provando. Lo facciamo ancora oggi in realtà, e ci sono voluti fatica e duro lavoro, umiliazioni e lacrime per capire la direzione della musica che suoniamo oggi.
Come è cambiato il vostro processo creativo dagli inizi ad oggi?
All’inizio il nostro sguardo andava decisamente verso il classico trio jazz chitarra-basso-batteria, ma allo stesso tempo abbiamo cercato di uscire fuori da un vecchio concetto consolidato in cui non ci sentivamo completamente a nostro agio. Ad un certo punto della nostra evoluzione siamo riusciti a liberarci da quel parallelismo, e a sentirci come una band originale, trovando così la vera essenza della nostra musica. Inoltre, l’esperienza che deriva dalla registrazione di così tanti album ti rende più fiducioso sul materiale stesso e sul modo di affrontarlo: ci fidiamo di più di noi stessi ora, il che ci aiuta a mantenere l’attenzione sulla musica stessa e non sui riferimenti da cui provavamo a nasconderci ad inizio carriera.
Qual è il significato del titolo del nuovo album, visto che è una frase spesso associata ai film horror.
È effettivamente un’associazione a un film dell’orrore, ma in realtà si riferisce ad un episodio accaduto in studio. Mentre suonavo la sezione centrale di quella che sarebbe diventata la title track, ho provato a suonare due note (armoniche naturali) nella melodia un po’ fuori tempo e un po’ fuori tono. Mentre riascoltavamo il brano nella sala di mixaggio, ho detto che suonava come un campanello, e a quel punto il nostro tecnico di registrazione ha fatto un commento ironico dicendo: “Ding Dong. You’re Dead”. In un certo senso in quel momento abbiamo capito di aver trovato sia il titolo della canzone che del disco. È un titolo divertente, ovviamente, e l’associazione horror è un grande riferimento ai Black Sabbath, ma si riferisce anche all’esperienza comune del mondo con la pandemia che da un anno a questa parte ha stravolto la vita di tutti: all’improvviso, può arrivare qualcosa di veramente brutto alla tua porta, che cambia tutte le carte in tavola.
Tracce come la title track o la splendida “Four Candles” mostrano un’atmosfera differente, più calma e più profonda e scura allo stesso tempo. Questo può lasciar intendere un cambiamento del vostro sound nel futuro?
Non siamo persone necessariamente felici per la maggior parte del tempo. Penso che queste atmosfere diverse abbiano più a che fare con il fatto che stavolta abbiamo avuto più tempo per le prove prima di registrare in studio. Di solito prepariamo solo una traccia più calma, ma questa volta ne avevo preparate due e fortunatamente abbiamo avuto il tempo di approfondirle entrambe. Quando le abbiamo suonate tutto aveva molto senso, quindi abbiamo deciso di registrarle entrambe. E’ stato meraviglioso stare in studio, dopo tutti i mesi in cui non abbiamo potuto lavorare e provare, ed è stato fantastico trovarci insieme in una stanza, prendendoci davvero il nostro tempo, ascoltando, plasmando gli spazi insieme. E’ stato quasi un processo di contemplazione, abbiamo usato davvero le nostre orecchie e la nostra sensibilità in un modo più soffuso e discreto rispetto al nostro solito approccio più rumoroso e fisico.
Durante l’ultimo anno qualsiasi cosa è stata modificata e distorta dalla pandemia. Quanto è stato difficile registrare durante questo periodo e quanto vi manca suonare sul palco e andare in tour?
Come ho detto prima è stata una benedizione poter registrare e avere qualcosa da fare. Qualcosa che ci ha dato la sensazione di essere andati avanti, di progredire con il nostro progetto musicale. È stato molto motivante. Siamo stati veramente felici di poter incontrarci, suonare e far progredire la nostra musica giornalmente. Naturalmente, come tutti i musicisti, ci manca moltissimo suonare dal vivo. In Norvegia, fortunatamente, siamo in grado di fare un po’ di tour, dato che la situazione qui non è poi così male al momento, quindi abbiamo 10 spettacoli in programma per marzo. Anche se non sono niente in confronto a come era una volta, ma perlomeno possiamo suonare, anche se per poche persone, aspettando che le grandi folle possano riunirsi di nuovo.
La vostra musica è descritta spesso come una sorta di ponte tra il metal ed il jazz. Due generi musicali che spesso hanno le fan base più oltranziste e “chiuse” a livello musicale. E’ qualcosa con cui fate i conti giornalmente o non vi siete mai posti il problema?
Se siamo un ponte tra questi due generi, allora dobbiamo essere sicuri di costruirlo per bene, perché è un fiume dannatamente largo da attraversare! Ci sono meno problemi adesso rispetto a prima, ma all’inizio è stato davvero difficile essere accettati nella scena jazz europea, perché eravamo abituati alla Norvegia dove era più normale trovare posti con più alternanza e unione di generi. La mia esperienza è che ovunque si possono trovare persone che cercano sincerità nella musica, persone cui non importa molto dei confini dei generi musicali perché sono capaci di vedere oltre. E guardando avanti, credo che sarà così sempre di più. Voglio dire, deve essere per forza così, perché è una cosa insita nella natura degli esseri umani: facciamo evolvere qualsiasi cosa che abbiamo creato, e la musica non fa differenza. La musica sarà sempre in movimento. Ondeggia in mezzo a noi e si evolve, noi la facciamo evolvere.
Quale è la percentuale di improvvisazione nella tua musica?
Direi intorno al 30%.
Pensi che fare musica esclusivamente strumentale alla lunga sia un limite o, al contrario, lo vedi come un universo infinito da esplorare? Hai mai pensato di inserire parti vocali nelle tue composizioni?
Nel trio, a meno che non suoniamo delle cover, probabilmente non includeremo mai la voce. Ho già fatto musica destinata ad una voce in precedenza, anche per coro, e nella mia prossima uscita da solista ci saranno piccole parti vocali, ma solo dare un po’ di colore.
Una delle tracce del nuovo album si intitola “The Art of Being Jon Balkovitch” , un titolo che mi ha fatto sorridere. Visto che per il trio componete solo tracce strumentali, come scegliete il titolo delle composizioni? Ci sono storie divertenti dietro questo processo?
C’è sempre qualcosa dietro le canzoni, ma per la maggior parte sono storie intime e private e in qualche modo se le dovessi spiegate potrebbero perdere quasi tutta la loro magia. Questo è molto complicato, però, ma è un mashup di tre bellissime opere d’arte. Ho un amico e collega di nome Jon Balke. Dopo alcuni tour insieme lo abbiamo iniziato a chiamare Balkovitch per ragioni che non posso spiegare qui. E molti anni fa ha realizzato una canzone assolutamente fantastica chiamata “The Art of Being”. Combinando questi due episodi con un film meraviglioso è venuto fuori il titolo del brano. È una specie di omaggio a un amico e musicista speciale, da cui ho imparato molto.
Che tu sappia ci sono alcune parti del mondo dove la tua musica è particolarmente apprezzata?
Davvero non ne ho idea, ma spero davvero che la nostra musica si sia diffusa ovunque in maniera uniforme, perché siamo davvero pronti per andare in tour in maniera estesa una volta che potremmo finalmente viaggiare di nuovo nel mondo senza problemi!
Quando c’era ancora la possibilità di suonare dal vivo, avete suonato delle cover durante alcuni concerti?
In qualche occasione abbiamo suonato “Blood Witch” dei Melvins, e “Sabbath Bloody Sabbath” un paio di volte. In Germania abbiamo fatto alcune cover di Terje Rypdal soprattutto “Ambiguity”, “Chaser” e più raramente “Ørnen” dall’album Chaser. ma naturalmente non avviene spesso, suoniamo il più delle volte solo la nostra musica.
Dato per scontato che la vostra musica è una sorta di unione tra un certo tipo di rock ed il jazz, quali sono i gruppi o gli artisti cui vi hanno paragonato più spesso? Pensi che sia giusto fare questi paragoni? Naturalmente il primo pensiero ascoltandovi va al periodo elettrico di Miles Davis o ai riff dei Black Sabbath, ma nel vostro sound sento anche echi di artisti come Jim Hall e, appunto, Terje Rypdal.
Penso che dobbiamo parlare di musica, e parlare di musica sicuramente va oltre l’usare musicisti o altri tipi di musica come riferimenti più o meno espliciti. Credo anche che per me è complicato trovare le differenze tra quello che c’è nella mia testa e quello che c’è attualmente nella mia musica. Alcuni hanno paragonato le nostre cose ed il modo in cui suoniamo ad artisti di cui non avevo mai sentito parlare, o addirittura a musicisti che non mi piacciono affatto, ma questa è la libertà della musica. La tua propria esperienza diventa in qualche modo la vera esperienza. Quello che tu ascolti e provi ascoltando la mia musica spesso non è correlato affatto a quello che io intendevo quando l’ho composta e suonata. Ognuno mette le cose insieme in modo completamente diverso. Ma tutti gli artisti che hai citato sono stati grandi fonti di ispirazione per me, come anche altri gruppi che ascoltavo anni fa e che a livello inconscio ogni tanto escono fuori. Ti faccio un esempio, quando ero una ragazza, ho ascoltato così tanto i Pearl Jam da consumare letteralmente i loro dischi. Loro non vengono quasi mai menzionati, ma credo davvero che la loro musica deve essere rimasta profondamente dentro di me, anche se adesso non li ascolto più come prima.
Visto che hai accennato all’argomento, quali altri artisti ascoltavi durante l’adolescenza? Quando hai iniziato a capire che il tuo futuro era avere una chitarra tra le mani?
Ho sempre ascoltato generi diversi, qualsiasi cosa, dal cool jazz (Chet Baker, Miles Davis, Art Farmer, Jim Hall, Bill Evans) al free jazz norvegese (Paal Nilssen-Love, Håkon Kornstad), e varie contaminazioni come i due album Khmer e Solid Ether di Nils Petter Molvær. Ma ascoltavo anche Paul McCartney, Janet Jackson, Tom Waits, Neil Young, Jimi Hendrix, Ralph Towner, John Abercrombie, John Scofield, Sting, Richard Marx, pop-rock norvegese come i deLillos, Whopper, songwriters come Jan Eggum, musicisti jazz come Bill Frisell e Bobo Stenson, e ancora Curtis Counce, Canonball Adderley, Kenny Dorham e tanti altri. È stata mia madre ad introdurmi alla chitarra e ad insegnarmi i primi rudimenti dello strumento.
C’è una scena avant-jazz straordinaria in Norvegia ed in generale nei paesi scandinavi. Penso ad artisti come Nils Petter Molvær, The Thing, Fire!, Fire! Orchestra, Supersilent, Elephant9, Wildbirds & Peacedrums e c’è anche una ottima tradizione rock se penso a band come Motorpsycho o The Skull Defekts. Alcuni di loro sono anche vostri compagni di etichetta all’interno della Rune Grammofon. Che rapporto hai con questi artisti, Ti senti come una parte della stessa scena o c’è solo del rispetto reciproco?
Devo parlare per me, dato che sono la più giovane tra gli artisti che hai citato. Comprensibilmente, sono stati e sono molto più di semplici artisti da ammirare, dato che stavano già definendo la scena musicale molto tempo prima di quando ho iniziato ad entrarci. Penso davvero che facciamo le nostre cose, allo stesso tempo, ma la Norvegia è un piccolo paese ed è facile apparire nelle stesse scene e con le stesse etichette. E alcune volte nella stessa band, dato che ho suonato in progetti diversi con Mats Gustafsson, Paal Nilssen-Love, Ingebrigt Håker Flaten, Nils Petter Molvær, Torstein Lofthus e Ståle Storløkken. Band come i Supersilent hanno definito la musica per un’intera generazione qui in Norvegia, e io sono tuttora ispirata moltissimo da Elephant9 e Motorpsycho.
Ekhidna è stato il tuo primo lavoro solista. Hai dovuto rivedere completamente il tuo approccio alla scrittura rispetto agli album degli Hedvig Mollestad Trio? Deve essere stata una grande sfida quella di comporre musica non destinata a Ivar ed Ellen.
Prima di Ekhidna avevo già fatto esperienza lavorando su altri progetti su commissione: uno che non è mai stato registrato, 21:12 nel 2017 (con Ellen al basso) e Tempest Revisited (con Ivar alla batteria) nel 2018 (che uscirà tra poco). Quando ho iniziato Ekhidna, sentivo che dovevo provare a fare un percorso diverso per me stessa e per la musica che portavo dentro. Mi sentivo pronta per questo, soprattutto perché per farlo non avevo bisogno di allontanarmi dal trio, loro erano comunque al mio fianco. L’approccio naturalmente è stato un po’ diverso, sentivo che lo spazio poteva essere riempito con qualcosa di completamente differente, che avrebbe cambiato nuovamente il mio approccio all’esecuzione della musica. Ho provato a guardare la musica in termini di lavorare a strati, inserire cose dove c’è spazio e dove realmente serve.
Pensi che il tuo lavoro come musicista possa essere importante per raggiungere una desiderata e giusta equità di genere perfino in un campo da sempre dominato da uomini come il guitar playing?
Sarebbe semplicemente fantastico poter contribuire a raggiungere questo obiettivo attraverso il mio modo di suonare e di comporre.
Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
Ormai è in dirittura di arrivo la pubblicazione di Ding Dong. You’re Dead e, come detto in precedenza, suoneremo qualche data in Norvegia a marzo. Attualmente sto lavorando a nuova musica per un altro trio diverso, e entro la fine dell’anno registrerò Maternity Beat, che ho realizzato per un’orchestra di 12 elementi nel corso del 2020. Non vedo l’ora, perché lo considero uno dei lavori più vasti e dettagliati che ho fatto finora. Sto per pubblicare anche un altro disco solista con un progetto nato nel 2018 e naturalmente non vedo l’ora di veder realizzati tutti questi nuovi progetti!
Grazie davvero per la tua pazienza e disponibilità.
Grazie a te per averci ascoltato e per la tua passione per la musica.