Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 14° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di post-punk, sperimentazioni, e pop di qualità
Sono davvero felice di essere tornato, con Sounds & Grooves, ad arricchire il palinsesto della 14° Stagione di www.radiorock.to. A volte c’è la necessità di fermarsi un attimo, riflettere sugli sbagli che abbiamo commesso, fare uno o più passi indietro, capire le cose che contano davvero nella vita e ripartire con tutto l’entusiasmo possibile di una nuova vita, di una nuova opportunità che non deve essere sprecata. E in questo ho avuto l’incredibile fortuna di avere accanto una persona assolutamente meravigliosa ed unica che non smetterò mai di ringraziare e di amare.
A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura di radiorock.to per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Continuiamo orgogliosamente a cercare quella libertà in musica che nell’etere sembra essere diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Questo podcast è stato registrato, come succede da un po’ di tempo a questa parte, con uno stato d’animo particolare. In questi giorni dove ci muoviamo da casa con grande circospezione e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Possiamo in qualche modo riprenderci in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a creare una nuova rubrica chiamata Music Room, dove quotidianamente troverete un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole.
Ho voluto in questo episodio, proporvi gruppi senza tempo come Wire, The Fall e The Replacements, il suono agli albori degli anni ’80 che sapeva mescolare con fantasia dub, funk e rock di The Slits e The Pop Group, la sperimentazione dei Gastr Del Sol, le avventure dei Can, il pop maturo di Trembling Blue Stars, In Embrace e Prefab Sprout e molte altre suggestioni sonore. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con una band che ha fatto eccome la storia del rock. I Wire si formano a Londra nel 1976, in piena era punk, ma Colin Newman, fondatore della band, studente d’arte e grande amico di Brian Eno, riuscì a creare un suono unico, debitore solo in parte dello tsunami che si stava abbattendo sul mondo musicale in quei mesi. I quattro componenti del gruppo si diversificano per la loro formazione accademica. Non sono mai stati il tipico gruppo stradaiolo, ed il loro punk si mostra già dall’inizio mutante per le sue costruzioni oblique e stranianti che già dal secondo album Chairs Missing si rivolgeranno verso la new wave e verso una personale forma di psichedelia.
154 è il loro terzo lavoro, ultimo ad uscire per la Harvest, storica etichetta sussidiaria della EMI creata nel 1969 ed associata soprattutto ai Pink Floyd, fatto che aveva fatto dare loro dalla stampa britannica il nomignolo di “Punk Floyd”. E’ il disco della perfezione formale, dove la loro ritmica nervosa si apre in inaspettate aperture pop di avanguardia. Ascoltate la melodia perennemente in tensione di “Map Ref. 41°N 93°W”. Dopo brusche rotture, ricongiungimenti e altre rotture, la band nel 2006 è tornata di nuovo in piena attività mantenendo un ottimo livello qualitativo e sfornando il loro ultimo Mind Hive proprio pochi mesi fa.
I The Replacements sono stati una band fondamentale nel traghettare l’hardcore verso un autentico e viscerale power rock alternativo. Nati a Minneapolis durante i primi anni ’80, hanno inscenato un meraviglioso derby cittadino a colpi di spartiti con i concittadini Hüsker Dü. Dalla loro i Replacements avevano una innata empatia capace di colpire al cuore un’intera generazione, ed il sensazionale talento melodico oltre al grande carisma e alla capacità di scrittura del cantante Paul Westerberg. Spavaldi e grezzi, hanno avuto l’abilità nel corso degli anni di smussare i propri angoli e di affinare il loro sound, fino a pubblicare un “uno due” micidiale che ha marchiato a fuoco la storia del rock americano degli anni ’80: Let It Be (1984) e Tim (1985).
I due dischi si dividono spesso e volentieri la palma di migliore pubblicato dal quartetto. Tim è stato l’ultimo album a vedere la formazione originale. Poco dopo la pubblicazione del disco, il chitarrista Bob Stinson è stato infatti cacciato per la sua dipendenza da droga e alcool che lo portarono ad una morte prematura dieci anni più tardi. Ma il gruppo era sempre capace di scrivere meraviglie, come dimostra il trascinante inno di “Bastards Of Young” inserito in questo podcast. Dissidi interni provocati dalla leadership sempre più marcata di Westerberg porteranno la band al collasso di li a poco, ma le loro melodie e la loro arte nello scrivere anthem trascinanti li pongono senza dubbio tra gli immortali del rock.
Nel 2005, dopo lo scioglimento dei Wives, il chitarrista Randy Randall ed il cantante-batterista Dean Allen Spunt decidono di formare un duo chiamato No Age. I loro energici live-acts e i primi demo arrivano presto all’attenzione di una label influente come la Sub Pop che non perde tempo e li mette subito sotto contratto. I due amano esibirsi esclusivamente in posti originali tipo negozi di libri e ristoranti etnici, allestiscono il palco con varie installazioni, si disegnano da soli locandine, magliette, gadgets. Nouns è il loro primo lavoro in cui mettono in chiaro la loro vocazione di entusiasti musicisti noise-pop capaci di installazioni di feedback capaci di proiettarli in una dimensione shoegaze.
Immediatezza, freschezza, entusiasmo, quella sana alternanza di melodia e rumore che ha fatto la fortuna di band ben più famose come Dinosaur Jr e Hüsker Dü. Spunt e Randall giocano da subito a carte scoperte coinvolgendoci con brani inebrianti e spavaldi come la “Sleeper Hold” inserita in scaletta. I due sono tuttora in attività e, anche se non hanno mai fatto gridare al miracolo, la loro qualità non è mai scesa sotto un’abbondante sufficienza riuscendo spesso e volentieri a trascinare sia nei momenti più punk, che in quelli più accessibili, e convincendo con le loro incursioni nel noise, nella generazione C86, nello shoegaze. Il loro nuovissimo album, Goons Be Gone, sarà pubblicato dalla Drag City all’inizio di giugno,
I The Fall sono stati una delle band di culto e più importanti della scena post-punk britannica, di cui faranno parte band come Joy Division e Buzzocks. Carattere difficile, come dimostrano gli innumerevoli cambiamenti all’interno della band, il leader Mark E. Smith è stato un intellettuale scettico nei confronti dell’arte in generale. La sua musica e le sue liriche erano intense, ripetitive, pervase da uno scuro senso dell’umorismo. Ha guidato il suo gruppo per 40 anni, senza mai avere un successo planetario, ma riscuotendo sempre il favore della critica e del suo fedele seguito di fans. New Facts Emerge, è stato il suo ultimo album in studio, uscito nel 2017 con una formazione che incredibilmente lo accompagnava stabilmente da 10 anni.
Smith ci ha lasciato nel gennaio 2018. Ci mancherà il suo crudo sarcasmo, la sua visione musicale sghemba e affascinante che ha influenzato negli ultimi 40 anni molti gruppi dai Pavement agli LCD Soundsystem. Per ritrovare al meglio la sua visione musicale e la sua lingua tagliente sono tornato indietro al 1985, anno in cui esce This Nation’s Saving Grace. L’ottavo disco in studio dell band è considerato uno dei suoi capolavori, e comprende un brano “I Am Damo Suzuki”, che mostra la passione del leader per i tedeschi Can non solo nel titolo, visto che il riff del brano viene mutuato dalla parte finale di “Bel Air”, brano tratto dall’album Future Days di cui parleremo più avanti. “Spoilt Victorian Child” è uno dei vertici di un album memorabile, brano scritto da Smith insieme al tastierista Simon Rogers.
Sono stati uno dei tanti (ahimè) gruppi che si sono riformati nel corso del 2015, nonché uno dei gruppi più originali, innovativi ed influenti della storia del rock. I The Pop Group nascono in piena era punk, e ne assorbono lo spirito di assalto, rivestendolo a nuovo con tessiture dub, funk, jazz. Il loro nome già tradiva il loro sarcasmo innato. Altro che pop, Mark Stewart e compagni hanno sempre avuto un approccio sociale e politico chiaro e preciso. La musica e le liriche erano intrise di protesta contro la società. Funk, rock, free jazz, dub. Gareth Sager (chitarra, sassofono e pianoforte), John Waddington (chitarra), Bruce Smith (batteria) e Simon Underwood (basso) erano quasi ossessionati nel cercare di creare suoni nuovi e battere strade ancora inesplorate.
Il primitivismo violento della band viene immortalato già nell’iconica copertina del loro storico album di esordio, che mostra un gruppo di aborigeni infangati con maschere e lance. Y esce nel 1979 ed è una successione di ritmi tribali, singulti, variazioni di ritmo, una tensione che non viene mai meno, come dimostra la stratosferica “Thief Of Fire” condotta ad arte da un Mark Stewart in forma smagliante. Un disco che traghetta il post punk in una dimensione “altra” e che con il suo fuoco musicale, politico e sociale è riuscito a creare un suono che, a distanza di 40 anni, è ancora incredibilmente attuale.
Continuiamo il podcast rimanendo all’interno delle stesse coordinate musicali e geografiche. Ariane Daniele Forster, nata in Germania e trasferita da piccola in Inghilterra, ha il DNA musicale nel sangue. Il padre era stato un cantante popolare di discreto successo a Monaco mentre la madre Nora era stata amica di Jimi Hendrix e, dopo la separazione con il marito, la compagna di Chris Spedding dei Nucleus. E se proprio Nora sposerà John Lydon nel 1979, Ariane prenderà lezioni di chitarra da Joe Strummer. Nel 1976, a 14 anni, incontra la batterista nata in Spagna Paloma McLardy. Dopo aver cambiato i loro nomi in Ari Up e Palmolive, le due ragazze incontrano la bassista Tessa Pollitt e la chitarrista Kate Korus ed insieme formano il primo nucleo delle The Slits. Dopo aver condiviso il palco del Harlesden Coliseum londinese nel marzo 1977 con Buzzcocks e The Clash, le due (consigliate proprio dai Clash) sostituiscono la Korus con Viv Albertine, allora compagna di Mick Jones.
E se Palmolive abbandona la band prima delle registrazioni dell’album di esordio per andare con le Raincoats, le tre superstiti non si perdono d’animo ed insieme al batterista Budgie (all’anagrafe Peter Clarke) vengono presi per mano dal produttore Dennis Bovell, responsabile anche di Y del The Pop Group e portate in studio per incidere Cut. Molti i punti di contatto con il disco di cui abbiamo parlato precedentemente, dalla copertina (anche se gli aborigeni pieni di fango sono stati sostituiti dalle tre infangate in topless in uno scatto che farà scalpore), all’aggressivo miscuglio di punk-funk-dub che le rende uniche, unito alla passione per il reggae di Ari Up ben presente nel groove di “So Tough” che ho deciso di inserire in questo podcast. Insomma, anche le Slits non sono durate molto come il Pop Group, ma sono istantanee fantastiche di un (som)movimento musicale forse irripetibile.
Abbiamo parlato più di una volta su queste pagine degli Squirrel Bait e della loro importanza. Dalle loro ceneri si sono formati gruppi fondamentali per lo sviluppo del rock alternativo americano degli anni ’90. Dopo la repentina chiusura di quel progetto, David Grubbs e Clark Johnson (rispettivamente chitarrista e bassista degli Squirrel Bait), hanno creato una nuova band chiamata Bastro con cui proseguire il loro percorso musicale. Insieme a loro c’era anche John McEntire, futuro fulcro percussivo e non solo dei Tortoise. Quella scena, come abbiamo detto, era estremamente ribollente ed era naturale per i musicisti non rimanere in pianta stabile in una band ma collaborare in altre situazioni sonore adiacenti. Ecco che Grubbs abbandona il progetto Bastro, collabora con Bitch Magnet e Codeine e forma, in coppia con il bassista Bundy K. Brown, il suo progetto più sperimentale, i Gastr Del Sol. Il gruppo fa il proprio esordio nel 1993 con l’EP The Serpentine Similar, a cui collabora anche John McEntire.
Un anno più tardi Brown e McEntire lasciano per entrare in pianta stabile nei Tortoise e a Grubbs si unì il chitarrista, compositore e produttore Jim O’Rourke. Da quel momento in poi i Gastr Del Sol saranno principalmente una collaborazione tra Grubbs e O’Rourke seppure McEntire farà quasi sempre parte, parzialmente, della partita. Testi surreali, arrangiamenti che si fanno via via più liberi, decostruzione, orchestra da camera, inserimenti elettronici, e la chitarra Faheyana di Grubbs a marchiare a fuoco un suono che si fa sempre più personale a partire da Crookt, Crackt, Or Fly (1994), per arrivare al capolavoro Upgrade & Afterlife del 1996, in bilico tra immaginarie colonne sonore da film e rievocazioni dello scuro folk blues proprio di John Fahey. Camoufleur del 1998, è forse il loro album più accessibile, ma non per questo meno qualitativo. La loro versione colta del pop è immersa in arrangiamenti straordinari tra archi e fiati, tape loop e accordi sparuti di strumenti acustici. Al disco partecipano Markus Popp degli Oval e molti musicisti della scena post-rock e avant-jazz di Chicago: la batteria di John McEntire, il clarinetto di Ken Vandermark e la cornetta di Rob Mazurek. “Each Dream Is An Example” è solo una delle tante meraviglie del disco.
Nel 1968, Jaki Liebezeit, Michael Karoli, Holger Czukay e Irmin Schmidt hanno dato vita ad una delle band più influenti e seminali della storia del rock, i Can. La band divenne in breve uno dei gruppi più importanti della scena tedesca, con il suo suono innovativo e visionario, che coraggiosamente andava a pescare dal minimalismo contemporaneo (Czukay e Schmidt erano entrambi allievi di Stockhausen) alla psichedelia, incastrandosi meravigliosamente con i Velvet Underground e una certa musica etnica. La loro avanguardia si celebrò con l’uscita del seminale Tago Mago nel 1971. La loro libera sfrontatezza e anarchica purezza è stata fonte di ispirazione per tantissimi artisti degli anni settanta e ottanta, tra cui David Bowie, Joy Division, Stone Roses e Talking Heads.
Il 2017 è stato un annus horribilis per i Can. A gennaio è venuto a mancare il batterista e metronomo Jaki Liebezeit, mentre a settembre è stata la volta del bassista e fondatore Holger Czukay. Czukay non era solo un bassista, infatti grazie alla sua esperienza, era stato anche ingegnere del suono durante la registrazione dei grandi classici della band come Tago Mago e Ege Bamyasi, ed è ricordato anche come un pioniere del sampling. Future Days è il loro quarto album in studio e l’ultimo in cui canta il giapponese Damo Suzuki. Rispetto ai precedenti presenta una decisa virata verso sonorità ambient, con composizioni in stile jazz e contributi vocali minimi, specialmente nella splendida title track e nella lunga suite “Bel Air” che si prende l’intera seconda facciata dell’album. L’album ha influenzato moltissime band della scena post rock inglese, soprattutto una che prenderà il nome proprio da una delle migliori tracce incluse in questo album, “Moonshake”.
Gli Young Marble Giants si formano a Cardiff, Galles, formati dai due fratelli (o cugini? non sono mai stato in grado di capirlo con chiarezza…) Moxham, Stuart chitarra e organo e Phil al basso, e la cantante Alison Statton. I tre sono stati sempre associati, a torto o a ragione, al movimento post-punk, ma naturalmente il loro approccio alla materia era molto diverso da quello che di solito viene associato a quel genere. I tre amavano togliere piuttosto che aggiungere, ma la tesi di partenza era in ogni caso la stessa: l’odio per qualsiasi musica suonasse barocca e per gli assoli interminabili. Il loro è stato una specie di miracolo, lodato dalla critica e diventato presto oggetto di culto, tanto che la loro reunion on stage nel 2007 è stata, giustamente, un enorme successo.
E’ un post punk minimale quello distribuito nelle quindici brevi canzoni che compongono il loro unico album Colossal Youth prima che l’EP Salad Days ne decretasse la fine. Melodie algide capaci di scavare un solco importante e liriche che narravano di adolescenza, alienazione, confusione guidate da una drum machine, dal basso importante di Philip, dall’organo di Stuart e dalla voce glaciale e quasi sussurrata di Alison Statton. “Brand – New – Life” è un perfetto esempio della capacità dei tre di scrivere canzoni senza tempo. L’album è stato ristampato nel 2007 dalla Domino sia in versione doppio cd che in vinile, motivo in più per non perdersi questo pezzo della storia del rock.
Che gran gruppo sono stati i Go-Betweens. Formati a Brisbane, Australia da due studenti dell’Università del Queensland così diversi ma così vicini come Grant McLennan e Robert Forster. Più aperto e comunicativo il primo, più scuro ed introverso il secondo, trovarono il modo di essere inseparabili e di creare tra le pagine più belle dell’indie rock australiano degli anni ’80. La pausa momentanea ed i progetti solisti non intaccarono l’amicizia fraterna tra i due che venne tragicamente spezzata nel 2006 quando, un anno dopo l’ultimo capitolo della band Ocean Apart, McLennan morì colpito da un improvviso arresto cardiaco. Da quel momento il capitolo The Go-Betweens è stato considerato definitivamente chiuso e Forster, dopo un momento di comprensibile vuoto, ha ripreso il suo cammino solista che, nel solco della sua vecchia band, non si mostra mai eccentrico ma predilige la profondità delle melodie.
Inferno, uscito lo scorso anno, è il suo settimo album in studio, l’ennesimo disco che mostra una scrittura diretta, genuina, dove si alternano momenti cupi e visionari ad altri più aperti e solari. “Life Has Turned A Page” è uno dei brani più riusciti, di grande eleganza e forza espressiva, una ballata il cui titolo esprime (considerazione naturalmente a posteriori), il cambiamento che stiamo affrontando in questo momento storico. Se siete appassionati di letture musicali e non, Forster ha anche scritto uno splendido libro di memorie, intitolato ”Grant And I” per celebrare gli anni trascorsi con il suo grande amico e sodale Grant McLennan.
C’era una volta un’etichetta britannica che si chiamava Sarah Records. Creata a Bristol nel 1987, le sue pubblicazioni hanno accompagnato i nostri sogni più romantici, popolato la parte più pop e malinconica del nostro cuore, abbracciato le nostre lacrime e le nostre gioie. Un mondo sognante ed incantevole popolato da band di culto tra cui The Orchids, Blueboy, Brighter, The Field Mice e molte altre. Poco importa che il sogno creato dai visionari Clare Wadd e Matt Haynes sia in qualche modo finito nel 1995, il mondo della Sarah Records sarà sempre presente nel nostro immaginario. Bob Wratten era il leader proprio dei The Field Mice, esperienza chiusa insieme alla Sarah Records ed in contemporanea alla fine della sua storia d’amore con Anne Mari Davies, sua partner nella vita e sul palco.
Così Wratten nel 1996 con il cuore spezzato forma una nuova entità, i Trembling Blue Stars, e la affida all’etichetta che prende il testimone e l’eredità della Sarah, quella Shinkansen Recordings voluta da Matt Haynes. Her Handwriting non è solo il primo album della nuova band ma il primo sulla lunga distanza ad uscire per la neonata label inglese. In questo disco troviamo tutte le coordinate che hanno reso celebre la Sarah Records, un indie-pop malinconico e romantico così lontano dalle logiche di mercato, dai ritornelli appiccicosi al punto giusto. Quello spleen e quello stato d’animo che tanto riescono ad affascinare, come nella deliziosa ballata di allegra malinconia british chiamata “For This One”.
E a proposito di pop di gran classe. C’è un musicista che delizia da anni i nostri padiglioni auricolari: il prode Paddy McAloon che ha saputo coniugare, alla guida dei Prefab Sprout, liriche intelligenti e con la giusta dose di ironia a un percorso musicale scintillante lastricato del miglior suono possibile. Il genio del pop britannico, dopo aver esordito con il buon Swoon nel 1984, fa centro pieno un anno più tardi con Steve Mc Queen, che trainato dalla produzione di Thomas Dolby e dal singolo “Appetite” colpisce il cuore di molti. La classe compositiva di McAloon unito alle sue colte citazioni letterarie e cinematografiche colpiscono nel segno, come anche l’indimenticabile copertina che vede i quattro componenti della band, insieme sulla motocicletta Triumph che Steve McQueen usò nel film La Grande Fuga.
In realtà i parenti di McQueen non apprezzarono molto il titolo dell’album, tanto che negli States e in Canada uscì con un titolo diverso, Two Wheels Good, ma dubito che questo abbia mai intaccato l’indubbia fede di McAloon sulle sue capacità. Il suo ultimo album in studio (Crimson / Red del 2013) si apre con un brano intitolato “The Best Jewel Thief In The World”. Ecco, McAloon lo vedo più come uno straordinario prestigiatore o come un creatore di gioielli più che come un ladro, come dimostra la meravigliosa “Bonny” inserita in scaletta.
Visto che abbiamo dedicato l’ultima parte del podcast ad un certo tipo di indie-pop britannico e raffinato, continuiamo su questa strada. Un altro gruppo di quelli dimenticati ma estremamente affascinanti sono stati gli In Embrace. Gruppo formato nel 1981 nel Leicestershire dal cantante tastierista Gary Knight, che rimarrà l’unico punto fermo delle varie formazioni, si inseriscono presto nel solco tracciato da Eyeless In Gaza e Young Marble Giants con la loro variante introversa ed emozionale del post-punk. Nel 1982, dopo l’esordio Passionfruit Pastels, si uniscono alla line-up il chitarrista Richard Formby ed il batterista Joby Palmer. Il secondo album esce nel 1983 e si intitola Too, probabilmente il più compiuto della band che al quel punto si era già spostata di base a Coventry.
Se amate il suono di band come Eyeless In Gaza, le malinconiche serate invernali britanniche ed un certo tipo di pop “decadente”, cercate di riscoprire questo album che è stato ristampato recentemente dalla Glass Records in una versione che comprende oltre all’album originale anche 9 bonus tracks, foto inedite e note estese scritte proprio da Gary Knight. La splendida “Love Among The Crumbs” inserita in scaletta è esplicativa del suono del gruppo, purtroppo sciolto definitivamente nel 1987.
La chiusura del podcast è affidata ad una delle mie voci maschili preferite in assoluto. Ho parlato nello scorso podcast degli scozzesi di Glasgow The Blue Nile, gruppo di culto capace di trasferire in musica la malinconia della città industriale scozzese. La voce e la chitarra di Paul Buchanan. il basso di Robert Bell, e le tastiere di Paul Joseph Moore hanno saputo creare una sorta di pop alternativo di enorme classe e suggestione sin dall’esordio di A Walk Across The Rooftops. Band non certo prolifica e perfezionista, pubblicherà solo altri tre album. L’ultimo album, High, risale ormai al 2004. I dischi della band mostrano un’urgenza emotiva che si stempera in una tipica e crepuscolare malinconia del nord della Gran Bretagna. La notte e le atmosfere dilatate sono riempite da suoni corposi e dalla voce piena e straordinaria del cantante Paul Buchanan.
Il silenzio da parte dei componenti della band è stato interrotto otto anni fa dal primo e finora unico album solista del cantante, intitolato Mid Air. Un disco meraviglioso ed intenso, paragonabile in qualche modo all’unico disco solista di un altro gigante come Mark Hollis. Un uomo sospeso in aria, pochi sapienti tocchi di pianoforte, quegli archi appena sfiorati, e la voce dello scozzese a riempire tutto lo spazio emozionando e portandoci in una dimensione “altra” come solo lui sa fare. Un viaggio notturno e cinematico di grande emozione e sentimento composto da 14 piccoli cortometraggi che scaldano il cuore, come la “Half The World” che chiude la programmazione odierna.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo! Naturalmente ogni aggiornamento e notizia sarà nostra premura comunicarla sulla nostra pagina Facebook.
Nel 9° Episodio di Sounds & Grooves troverete gruppi senza tempo come The Modern Lovers, XTC e Pixies, il meraviglioso post punk di San Francisco dei MX-80 Sound e Tuxedomoon, la magia di David Grubbs e dei Cave, la psichedelia messa a fuoco dai Loop, il pop maturo dei MGMT e dei Pastels, le avventure caleidoscopiche degli Animal Collective, il ricordo di Elliott Smith e molte altre suggestioni sonore. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. WIRE: Map Ref. 41ºN 93ºW da ‘154’ (1979 – Harvest)
02. THE REPLACEMENTS: Bastards Of Young da ‘Tim’ (1985 – Sire)
03. NO AGE: Sleeper Hold da ‘Nouns’ (2008 – Sub Pop)
04. THE FALL: Spoilt Victorian Child da ‘This Nation’s Saving Grace’ (1985 – Beggars Banquet)
05. THE POP GROUP: Thief Of Fire da ‘Y’ (1979 – Radar Records)
06. THE SLITS: So Tough da ‘Cut’ (1979 – Island Records)
07. GASTR DEL SOL: Each Dream Is An Example da ‘Camoufleur’ (1998 – Drag City)
08. CAN: Future Days da ‘Future Days’ (1973 – United Artists Records)
09. YOUNG MARBLE GIANTS: Brand – New – Life da ‘Colossal Youth’ (1980 – Rough Trade)
10. ROBERT FORSTER: Life Has Turned A Page da ‘Inferno’ (2019 – Tapete Records)
11. TREMBLING BLUE STARS: For This One da ‘Her Handwriting’ (1996 – Shinkansen Recordings)
12. PREFAB SPROUT: Bonny da ‘Steve McQueen’ (1985 – Kitchenware Records)
13. IN EMBRACE: Love Among The Crumbs da ‘Too’ (1983 – Glass Records)
14. PAUL BUCHANAN: Half The World da ‘Mid Air’ (2012 – Newsroom Records)