Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
Gli Horse Lords sono riusciti ad unire in maniera incredibile il kraut-rock con il minimalismo, l’afrobeat con le radici folk americane.
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande possibilità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità anche se adesso siamo in piena Fase 2 e molti di noi hanno ripreso a muoversi. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Il mio pensiero va soprattutto a chi per questo lockdown ha enormi problemi di lavoro, sperando che questa Fase 2 possa migliorare le cose e che sia gestita in maniera consapevole da tutti noi, sperando che le istituzioni possano aiutarci a riprendere una vita più “regolare” possibile.
#andràtuttobene #iorestoacasa
Oggi nel piccolo grande spazio di Music Room voglio parlare di una band che è riuscita in maniera incredibile ad unire il kraut-rock con il minimalismo, l’afrobeat con il post-rock, le radici folk americane con il progressive più intelligente (leggasi King Crimson).
Gli Horse Lords sono in quattro, suonano insieme dal 2010 e vengono da Baltimora. La struttura è quella (quasi) classica di un gruppo rock: Owen Gardner (chitarra), Max Eilbacher (basso ed elettronica), Sam Haberman (batteria) e Andrew Bernstein (sax e percussioni), ma le finalità sono totalmente diverse. Gli Horse Lords agiscono come un malware che si annida nel cuore del rock, lo corrompe e lo muta in un’altra entità. Si potrebbe chiamare math rock, ma non ci sono ne equazioni ne spigoli, ci sono spirali di suono che vengono dagli studi musicali dei singoli musicisti.
Tutti e quattro i componenti del gruppo hanno studiato classica contemporanea, in particolare Gardner ha iniziato suonando il banjo ed è studioso di blues americano e folk africano della Mauritania, Eilbacher studia elettronica e suona il basso solo con gli Horse Lords, Bernstein ha studiato a lungo percussioni africane, mentre Haberman è l’elemento più prettamente rock e “selvaggio” del quartetto. Non è facile descrivere il suono di questi quattro hackers del rock, perché quello che esce fuori di solchi è di grande complessità, visto che coesistono complicate poliritmie, potenti soluzioni sperimentali, afrofuturismi suggestivi, e grooves minimalisti.
Il manifesto sonoro del quartetto è evidente con i suoi tempi spezzati e gli strumenti che si rincorrono incrociandosi in una studiata tensione ripetitiva e circolare. C’è un’energia che vibra sotto pelle, e che rimane forte nell’aria, grazie al suono deformato della chitarra (cui Gardner ha cambiato l’accordatura seguendo le suggestioni minimaliste di LaMonte Young), all’incessante lavoro ritmico, e al sassofono che appare e scompare in una danza circolare che non lascia scampo.
Tanti i nomi che vengono in mente ascoltando il quartetto già dai loro primi Mixtape pubblicati dal 2012 al 2014: i Can, Fela Kuti, Terry Riley, Albert Ayler e i primi Tortoise, quelli sperimentali dei primi tre album. Una fantasia creativa che si sviluppa a briglie sciolte anche nei primi due album pubblicati fino a quando arrivano a pubblicare Interventions nel 2016. Il disco è uno dei più celebrati dell’anno, trovando il climax nei due fulcri del disco: “Toward the Omega Point” e “Bending to the Lash”, le due più lunghe del lotto.
La prima si snoda con una gran ritmica funk, sulle percussioni etniche riescono a sovrapporsi chitarra ed elettronica in un crescendo irresistibile, fino a quando (al minuto 6:21), i quattro spingono improvvisamente il piede sull’acceleratore, lasciandoci schiacciati sullo schienale per un finale da brivido tra ritmiche tribali e forsennate complessità poliritmiche. La seconda stupisce ancora per l’interplay tra i quattro, e per l’abilità nel costruire strutture mai banali e ricche di tensione emotiva, tra energia post-punk e suggestioni che sembrano arrivare dai territori abitati da sperimentatori come This Heat o Can. Chiude il tutto una “Never Ended” che parte e si chiude con pattern elettronici ma che in mezzo rivela field recordings delle proteste a Baltimora seguenti la morte di Freddie Gray, ragazzo di colore pestato a morte da sei poliziotti nell’Aprile del 2015.
Questo dell’impegno politico è uno dei temi più cari al quartetto, tanto che un anno dopo, nel loro Mixtape IV, inseriranno nel brano “Remember The Future” un collage di voci e rumori registrati durante la Woman’s March, polemicamente organizzata a Washington il giorno dopo l’insediamento di Trump a favore dei diritti delle donne, delle comunità LGBT, degli immigrati e della difesa dell’ambiente. L’ultimo lavoro della band è uscito da poche settimane e si intitola The Common Task, l’ennesimo tassello di una carriera capace di una media qualitativa mostruosa, dove il quartetto riesce ad aggiungere ad una tavolozza già piena di suoni, le cornamuse folk mischiate con l’elettronica e un lungo brano costruito con l’assistenza di pattern creati al computer.
Tirando le somme e riprendendo fiato, direi che gli Horse Lords sono tra le migliori band in assoluto uscite nell’ultimo decennio per la fantasia ed originalità mostrata, per i molteplici ingredienti miscelati con perizia, e perché la loro sperimentazione non è mai astrusa e fine a se stessa, ma sempre viva e pulsante, anche se talvolta può risultare difficile da assimilare. Se cercate nuovi brividi, avete la curiosità di conoscere le modalità di corruzione del rock dall’interno ed avete bisogno di un suono nuovo da cui sarà difficile staccarsi, non perdeteli.