Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
Gli Stearica hanno codificato un maestoso e personale crocevia tra post e math-rock, stoner e psichedelia
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene #iorestoacasa
Oggi nel piccolo grande spazio di Music Room sono felice di tornare a parlare di musica italiana e soprattutto di condividere con voi un gruppo che mi sta particolarmente a cuore. C’è una rivista di riferimento per il movimento musicale britannico, si chiama The Wire. È un magazine che non solo ha tra le sue fila giornalisti e musicisti estremamente competenti, ma va ad esplorare una vastissima gamma di suoni, pescando in ogni genere di underground. Tanto per intenderci, The Wire è stato anche il magazine sulle cui pagine è stato codificato il concetto di post-rock in un famoso articolo scritto nel maggio del 1994 da uno dei critici musicali più competenti ed influenti degli ultimi anni, Simon Reynolds. Il post-rock descritto e codificato da Reynolds era quello tipicamente britannico dell’epoca, associato a band come Bark Psychosis, A.R. Kane e Disco Inferno e a label come la Too Pure. Solo successivamente il termine è stato allargato facendo confluire suoni e band estremamente diverse tra loro come Tortoise, Slint, Mogwai,ecc.
Ogni quattro mesi, i fortunati abbonati del mensile trovano allegato alla rivista un CD chiamato The Wire Tapper: una specie di antologia del meglio della musica underground proposta dal magazine. Ebbene, nella storia del magazine britannico, c’è stata solo una band italiana che è stata inclusa per ben due volte nei CD di The Wire Tapper: gli Stearica.
Sin dalla sua formazione, il trio torinese è dedito ad una profonda ricerca sonora ed emotiva. Il loro slancio empatico li ha sempre portati più ad un contatto diretto con pubblico ed addetti al lavori tramite la dimensione live, che alla registrazione in studio. Con soli 2 album in oltre 20 anni di attività, non si può dire che il trio abbia inflazionato il mercato discografico. Il loro primo album in studio, ‘Oltre‘, risale al 2007, seguito tre anni dopo da una caleidoscopica improvvisazione live in studio con quell’incredibile collettivo mutante chiamato Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso UFO ed intitolato Stearica Invade Acid Mothers Temple.
Insomma, per chi non l’avesse ancora capito, il chitarrista Francesco Carlucci insieme ai suoi due compagni di avventura Davide Compagnoni (batteria) e Luca Paiardi (basso), sono sempre andati controcorrente rispetto alle tendenze italiche che vedono la necessità di proporre suoni che possano tranquillizzare e sedare gli ascoltatori ed i fruitori di musica. Basti pensare al proliferare dei talent e delle cover band. Fortunatamente i tre viaggiano nella direzione opposta: un gruppo senza barriere ne confini, conosciuto più all’estero che in patria, capace di entrare nelle grazie dell’inglese Monotreme Records (label che ha nel roster gruppi del calibro di 65daysofstatic, M+A, e i connazionali Niagara), e si fa conoscere dal grande pubblico grazie ad un incessante promozione on stage, facendo da supporto, tra agli altri, ai succitati Acid Mothers Temple, ai Girls Against Boys, ad un personaggio del calibro di Damo Suzuki e ai NoMeansNo, e suonando in vari festival in giro per l’Europa.
Proprio la loro partecipazione al Primavera Sound del 2011 ha acceso la prima miccia per la registrazione del loro secondo album. Il contatto con la rivolta degli Indignados spagnoli, insieme alle rivolte tra medio oriente e nord africa della cosiddetta Primavera Araba che riempivano i televisori quando il gruppo stava iniziando la pre-produzione del nuovo album, hanno fornito al gruppo un combustibile potente. Vedere persone così diverse combattere con grande forza ed intensità per i propri diritti ha ispirato il trio a veicolare quell’energia tramite i loro strumenti. Proprio la zona delle rivolte, la cosiddetta Fertile Crescent, ha ispirato anche il titolo dell’album.
Fertile è un disco con un suono scuro e potente ma illuminato allo stesso tempo dalla luce delle candele. A “Delta” è stato assegnato il compito di aprire le danze, il basso distorto, il drumming preciso e potente e vari disturbi elettronici, riescono a creare il perfetto scenario dove la chitarra può disegnare i suoi arabeschi, ora grezzi e roboanti, ora leggeri e cristallini, trovando un perfetto equilibrio. La successiva “Halite” spinge forte sull’acceleratore con un incedere marziale ed industrial che non lascia prigionieri, mentre “Bes” parte lenta e psichedelica con un gran lavoro di hi-hat, prima di impennarsi in un botta e risposta tra rumore e silenzio, prima di approdare finalmente su una calma isola di suono visionario.
L’immaginario è fondamentale in un album quasi interamente strumentale, e i tre torinesi riescono a maneggiarlo con maestria come in “Geber”, dove Carlucci dipinge magie su un cielo stellato, piazzando un’alternanza perfetta tra montagne di suono e pianure melodiche nella seconda metà del brano. La band è chirurgica nel collocare brevi pause per aumentare la tensione, e farla poi sciogliere fragorosa con potenti riff di chitarra e aperture melodiche. A questo punto le coordinate sonore sono ben chiare, un maestoso e personale crocevia tra post e math-rock, stoner e psichedelia.
La successiva “Nur” sembra assecondare gli stessi binari, fino a che, dopo 2 minuti e mezzo, ecco la voce di Ryan Patterson (leader della band post-hardcore di Louisville chiamata Coliseum) azionare diabolico lo scambio facendo deragliare il vagone in un nervoso hardcore. “Tigris” gronda spiritualità in uno scuro orizzonte sonoro che viene squarciato da lampi e fuochi d’artificio che si inseguono, come il serrato dialogo tra la chitarra e la sezione ritmica. “Siqlum” accentua l’ispirazione mediorientale, la tensione si dirada un po’ e per alcuni tratti il rimshot prende addirittura il posto del rullante nel drumming potente e creativo di Compagnoni, prima che il ritmo si alzi di nuovo e la chitarra in dissolvenza lascia presagire la fine del brano…anzi no, perché il brano muore e rinasce dalle proprie ceneri più volte fino alla catarsi finale. Scott McCloud, cantante dei Girls Against Boys ha avuto la totale libertà espressiva nel creare un testo per la band. Il risultato è stato estremamente affine al concetto dietro Fertile, una sorta di parallelismo ideale tra l’Occidente e la questione araba. Il testo che si riferisce alla giungla delle città americane, ha portato Carlucci a chiamare la traccia “Amreeka”, riprendendo il titolo di un film indipendente di Cherien Dabis presentato al Sundance Film Festival del 2009, che narra di una famiglia palestinese che emigra negli Stati Uniti. subito dopo l’invasione dell’Iraq del 2003. La conclusiva e lunghissima “Shāh Māt” (Scacco Matto in persiano) che chiude l’album, mantiene le stesse atmosfere dilatate della traccia precedente, impreziosite dalla collaborazione con un gigante dell’alt-jazz contemporaneo, quel Colin Stetson che è riuscito a coinvolgere ed emozionare con i tre volumi della serie New History Warfare, pubblicati dalla benemerita etichetta canadese Constellation. Stetson crea un perfetto muro di fiati con flauto, corno francese, sax alto e tenore. Quasi 11 minuti di delirio apocalittico, post-rock, jazz, sabbia, tribalismi, urla, elettronica, respiri, furore, ed estasi noise che chiude come meglio è difficile immaginare un disco meraviglioso ed appagante. E se siete curiosi di sapere come la band ha scelto i titoli delle canzoni, ce lo spiega lo stesso chitarrista Francesco Carlucci:
“I titoli, come sempre per me, richiamano un immaginario… In questo caso è un viaggio dal Delta del Nilo, fiume che inonda e poi rende la vita, sino a Shāh Māt, che è da interpretare nella doppia lettura ‘Scacco Matto/Il re è morto’”.
Nel 2017, per festeggiare i 20 anni di attività, hanno pubblicato, una lunga traccia della durata di 20 minuti e 20 secondi in cui figurano la voce di Franz Goria (Fluxus) e i sax di Eros Giuggia (I Fasti/Mulbö). Il brano è stato pubblicato dalla Monotreme in un’edizione limitata di 100 copie comprensive di digital download e poster serigrafato a mano dal collettivo visuale Malleus. Insomma, se non lo avete ancora capito, gli Stearica sono una band di livello assolutamente internazionale, che se la gioca con tutti ad armi pari sui palcoscenici di tutta Europa, cui riesco a trovare un unico difetto: hanno pubblicato troppa poca musica, e della loro musica, in Italia (e non solo), abbiamo un dannato bisogno.