Il batterista dei Rush aveva 67 anni
Da tre anni e mezzo Neil Peart combatteva contro un tumore al cervello
A volte qualcuno mi accusa di essere snob, musicalmente parlando. Se per snob si intende detestare allegramente il 95% per cento di quello che ci viene propinato da televisioni e radio, allora mi ritengo colpevole, vostro onore. Credo sia comunque normale nell’evoluzione di una persona con il passare del tempo e degli ascolti affinare sempre più i propri gusti. Sbaglierò siuramente, ma non credo che i giornalisti musicali più colti o gli appassionati più intransigenti ascoltassero già gli Slint durante il periodo dell’adolescenza. Vi chiederete cosa c’entra questo con la recente scomparsa di Neil Peart. Arriverò al punto il prima possibile.
Durante il periodo del Liceo avevo attraversato il confine che dalla West Coast di Eagles e America e dal progressive di King Crimson, Genesis, Yes e Pink Floyd, passava senza ritorno verso le sonorità dure degli Iron Maiden e di tutto il movimento heavy metal che stava nascendo in quel periodo, e se mi guardavo indietro era solo per riscoprire i classici dell’hard rock come Led Zeppelin o Deep Purple. Da li, per alcuni anni ho preso una deviazione (terribile lo so) verso tutto quello che all’epoca consideravo “progressivo” e verso (colpa anche peggiore) il movimento AOR statunitense. In poche parole ero attratto dagli onanisti dello strumento senza troppe limitazioni di genere, da Yngwie J Malmsteen a Jeff Berlin, da Dave Weckl a Joe Satriani e andavo pazzo per ogni tipo di assolo che dimostrasse l’abilità tecnica del musicista. Già, curioso che adesso qualsiasi tipo di dimostrazione muscolare di abilità tecnica mi procuri una curiosa reazione allergica su ogni millimetro delle mie cellule epiteliali. In ogni caso, uno dei miei ascolti preferiti era un gruppo che non faceva troppo sfoggio di tecnica fine a se stessa, i Rush, trio canadese delle meraviglie considerato a metà strada tra hard rock e progressive, i cui componenti quantomeno sapevano scrivere delle canzoni e mettevano la propria tecnica al servizio del processo compositivo.
Rush on stage – 1976
Le scorribande chitarristiche di Alex Lifeson, il basso pirotecnico e la voce nasale di Geddy Lee e gli incredibili tempi dispari di Neil Peart hanno allietato molte delle mie giornate da studente universitario, facendomi consumare i solchi di album come Permanent Waves o Moving Pictures, quello di “Tom Sawyer” e dello strumentale degli strumentali (da leggersi con la voce di Fantozzi) “YYZ”. Mentre la band cercava di rinnovarsi prima inserendo con sempre più frequenza le tastiere poi tornando negli anni ’90 all’hard rock delle origini, io perdevo sempre più interesse in quel tipo di sonorità finendo (fortunatamente) per abbandonarle del tutto.
Nonostante l’allergia sempre più potente verso un certo tipo di musica, non fatico ad ammettere che i Rush abbiano continuato a starmi simpatici ed in particolare, essendo un amante dello strumento, il drumming di Neil Peart (anche il principale autore dei testi del gruppo, capace di spaziare con intelligenza e profondità dalla fantascienza alla storia, dalla politica alla filosofia) ha sempre suscitato in me grande ammirazione, uno dei pochi assoli di batteria che riescono a non tediarmi, viste le notevoli variazioni apportate nel corso degli anni e la passione/talento del canadese. Se a questo uniamo anche le tragedie che hanno costellato la sua vita personale (la morte della figlia diciannovenne nel 1997 in un tragico incidente stradale, e della sua compagna di una vita appena 10 mesi dopo per un brutto male), ecco che era difficile non essere travolti anche empaticamente dal talentuoso musicista. Successivamente alla scomparsa di compagna e figlia, Peart si era preso un lungo periodo sabbatico, aveva preso la sua motocicletta viaggiando attraverso Canada, Stati Uniti, e America Centrale per ben 88,000 km, mettendo poi il suo viaggio per iscritto nel libro Ghost Rider: Travels on the Healing Road (in italiano: Il Viaggiatore Fantasma). Al suo ritorno Peart aveva ripreso in mano la propria vita, era tornato a suonare con la sua band, aveva conosciuto la fotografa Carrie Nuttall con cui si era sposato, ed era diventato papà della piccola Olivia Louise nel 2009. Ma evidentemente il destino non aveva finito di prenderlo di mira.
Nel dicembre 2015 Peart aveva annunciato il proprio ritiro dal mondo musicale. Sembrava una scelta dettata dalla tendinite cronica che lo affliggeva e dal desiderio di essere genitore a tempo pieno. La realtà purtroppo era diversa. Un glioblastoma, una forma molto aggressiva di tumore cerebrale lo aveva colpito e dopo tre anni e mezzo di lotta non gli ha lasciato scampo, portandolo via dall’affetto della sua famiglia, di Lee e Lifeson e da tutti i fan dei Rush il 7 gennaio 2020, anche se la notizia è stata data solo tre giorni dopo.
“È col cuore spezzato che condividiamo la terribile notizia che il nostro amico, fratello e partner Neil ha perso martedì la sua battaglia di 3 anni e mezzo contro il glioblastoma”, hanno scritto i Rush su Twitter. “Coloro che desiderano esprimere le proprie condoglianze possono scegliere un’organizzazione di ricerca sul cancro e fare una donazione per conto di Neil”.
Peart aveva una tecnica incredibile ed eclettica, e nel suo sviluppo musicale era stato influenzato soprattutto da due drummers apparentemente agli antipodi come Buddy Rich e Keith Moon. Era senza ombra di dubbio uno dei batteristi più rispettati e apprezzati dai suoi colleghi e musicisti. Molti i messaggi di cordoglio e i ricordi nel mondo del rock da Brian Wilson a Dave Grohl a Paul Stanley dei Kiss, passando per Slash, Brian Wilson, i Metallica e Bryan Adams. Una tecnica di rullante sbalorditiva, l’innesto di ritmi africani e tributi alle big band ed al suo idolo Buddy Rich avevano reso il suo drum solo sempre più spettacolare e completo, forse unico nel suo mutare senza annoiare l’ascoltatore. Anche se i Rush non sono da tempo tra i miei ascolti, Neil Peart rimarrà come uno dei migliori batteristi di sempre nel variegato mondo del rock. Ciao Neil.