Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 14° Stagione di RadioRock.TO The Original
Un viaggio nel post-rock anni ’90 e molti altri suoni fanno parte del menu di questo episodio di Sounds & Grooves
Sono stato davvero orgoglioso di aprire, con Sounds & Grooves, la 14° Stagione di www.radiorock.to. Sembra davvero ieri che abbiamo iniziato questa fantastica avventura e, a distanza di anni, è sempre meraviglioso registrare e dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. La Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, nonostante tutto, non ci è mai passata. Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Quella libertà in musica che è diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Senza dover aderire ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma lasciandoci guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Negli oltre 84 minuti di “The Promise” non troverete molte novità, anzi, a dire il vero non ne troverete alcuna. La compilazione della scaletta è andata in maniera massiva a pescare nelle ultime tre decadi. Partendo dal rock venato di folk e stoner di Woven Hand e Arbouretum, sono andato ad approfondire la caleidoscopica e pulsante attività musicale di NYC nei primi anni ’80 con Lounge Lizards ed il collettivo mutante Golden Palominos per passare alla new wave di Roxy Music e Simple Minds. Dopo un piccolo break con le follie sghembe ma coinvolgenti di Stephen Tunney aka Dogbowl e dei People della piovra ritmica Kevin Shea, mi sono tuffato indietro nel 1967 con uno dei dischi più influenti della storia, The Velvet Underground & Nico, e uno dei migliori album della stessa cantante tedesca: Desertshore. Aperitivo di quello che sarà la RNR Time Machine dedicata al 1970. Sono riemerso negli anni 0 con il cantautorato delicato e riccho di orchestrazioni e di piccole trovate del dimenticato Dave Fischoff e di Bon Iver prima di rientrare in pieno post rock anni ’90 con i suoni onirici e meravigliosi di Labradford e Bark Psychosis. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Un gran personaggio David Eugene Edwards. Circondato da un’aura di spiritualità sin dalla nascita, essendo figlio di un pastore metodista. Il giovane David Eugene ha deciso di esprimere la propria concezione religiosa in modo completamente diverso da quello del genitore. Trasferitosi in California da Denver all’inizio degli anni ’90, non perde tempo creando una band dove poter convogliare le sue esperienze musicali e religiose. I 16 Horsepower, già dal debutto avvenuto nel 1995, mostrano un personale e viscerale impasto di folk e blues mescolato con l’oscura spiritualità del leader. Dopo 5 album che hanno saputo mantenere un ottimo livello qualitativo, Edwards crea un side project che in breve tempo diventa il suo progetto principale visto il quasi immediato scioglimento della sigla 16 Horsepower nel momento della creazione dei Wovenhand. L’inizio della nuova sigla non è propriamente indimenticabile, ai più sembra che il nuovo progetto non abbia la stessa intensità emotiva e la stessa profondità musicale della band precedente. Ma dopo due album di rodaggio Edwards riprende a fare sul serio da Consider The Birds del 2004, trovando la quadratura del cerchio con il suo personale mix tra il recupero delle radici folk, la sperimentazione, le atmosfere scure e quasi gotiche e il suo profondo credo religioso. The Threshingfloor esce nel 2010 e mantiene tutta la potenza evocativa e l’intensità di un uomo che conosce come pochi la magia di evocare un’emotività epica capace di mostrare l’oscurità dell’animo umano, come nella meravigliosa “A Holy Measure”.
Un gruppo che si è sempre ispirato ai classici e che, disco dopo disco, è riuscito a diventare a sua volta un classico. Questo è quello che mi sono sentito di dire su Dave Heumann e i suoi Arbouretum dopo aver ascoltato il loro Coming Out Of The Fog pubblicato nel 2015. Il gruppo di Baltimora con quel disco aveva grosso modo ricalcato il sound del loro precedente The Gathering, con quel perfetto e ormai riconoscibile mix tra tradizione folk, psichedelia, stoner, blues e un certo cantautorato attinto a piene mani da quel Will Oldham di cui il leader della band è stato fido scudiero per anni. La scrittura è rimasta sempre fluida ed ispirata, le chitarre affilate, robuste e corpose, ma allo stesso tempo Heumann, insieme ai suoi fidati Corey Allender (basso), J.V. Brian Carey (batteria), e Matthew Pierce (tastiere e percussioni), era riuscito a deviare il corso della sua creatura accorciando gli assoli e aggiornando la tradizione, come in “The Promise” una delle tracce migliori del lotto. Pur essendo dipendenti da modelli ormai stabiliti, gli Arbouretum avevano trovato una propria personalità, spiccata e riconoscibile, una matura classicità capace di rendere la band davvero unica. Peccato che da quel disco ai giorni nostri la band abbia saputo sfornare solo il debole Song Of The Rose un paio di anni fa. Chissà se Heumann e compagni saranno in grado di tornare ai livelli di eccellenza cui ci avevano abituato.
Alla fine degli anni ’70 si sviluppò nella Grande Mela quell’incredibile movimento intellettuale e musicale che prese il nome di no-wave. Il sassofonista, regista e pittore John Lurie decise di prendere parte a quel movimento in maniera del tutto particolare, infilandoci dentro grandi dosi di jazz, ironia e spirito punk creando uno dei gruppi più originali e interessanti del periodo: The Lounge Lizards. Ad accompagnare il leader in scorribande schizofreniche e stralunate c’erano il fratello Evan Lurie al pianoforte e organo, il batterista Anton Fier (The Feelies), il chitarrista Arto Lindsay (la cui chitarra abrasiva era il simbolo dei DNA, una delle migliori bands della scena no-wave) ed il bassista Steve Piccolo. Il loro album di esordio autointitolato esce nel 1981 ed è il manifesto di un modo nuovo di fare musica. Un equilibrio miracoloso tra la dissonanza armonica della chitarra e delle tastiere e la sezione ritmica prettamente jazz, un equilibrio che il sax di John Lurie si divertiva a spostare da una parte o dall’altra in modo competente, ironico e dissacrante. “Incident on South Street” è la perfetta introduzione di un album che, a distanza di quasi 40 anni, ancora oggi stupisce e diverte per ispirazione, abilità tecnica, sperimentazione e capacità compositiva: un vero capolavoro.
Rimanendo nella stessa posizione geografica e nello stesso periodo storico, Anton Fier, batterista non solo degli appena citati Lounge Lizards ma anche di alcune delle formazioni storiche del rock più sperimentale dell’epoca (Pere Ubu, The Feelies), decide proprio nel 1981 di creare una sorta di collettivo mutante chiamato The Golden Palominos. La prima formazione che pubblicò l’album d’esordio comprendeva Bill Laswell al basso, John Zorn al sax, Fred Frith alla chitarra ed al violino. Il loro stile iniziale, ispirato dai Material di Bill Laswell e dalla no-wave, comprendeva molti elementi diversi: ritmi funk, minimalismo, tribalismi africani. Dopo un esordio eponimo trascinato da musicisti del calibro di Arto Lindsay, Fred Frith, David Moss, John Zorn, Mark Miller, Michael Beinhorn, Bill Laswell e James Ladeen Tacum, per il secondo lavoro intitolato Visions Of Excess il leader lascia i nuovi musicisti a briglie sciolte. Così facendo Richard Thompson, Henry Kaiser, Syd Straw, Bill Laswell, John Lydon, Jody Harris, Chris Stamey, Carla Bley, Jack Bruce e Michael Stipe spostano il tiro più sulla forma canzone che sulla libera improvvisazione, mantenendo però quella carica eversiva che li aveva già resi una band di culto. E’ proprio il cantante dei R.E.M. a condurre da par suo la splendida “Clustering Train” inserita in scaletta.
Che batterista Kevin Shea! Polipo di estrazione jazzistica, è uno dei musicisti più conosciuti ed apprezzati nella scena sperimentale e di improvvisazione musicale di New York City. Shea ha prestato le sue mani tentacolari e i suoi poliritmi ad alcune delle più interessanti mutazioni jazz e rock degli ultimi anni come gli Storm & Stress con Ian Williams dei Don Caballero, i Talibam! insieme a Matt Mottel, Puttin On The Ritz, Mostly Other People Do The Killing e molti altri musicisti. Nel 2005 Shea ha creato il progetto People con Mary Halvorson, straordinaria chitarrista che vanta numerose collaborazioni tra avanguardia e jazz con artisti del calibro di Anthony Braxton, Trevor Dunn, Marc Ribot, Susan Alcorn, Yo La Tengo, Tomas Fujiwara, e Michael Formanek. Il loro terzo lavoro insieme è arrivato nel 2014 a sette anni di distanza dal precedente, si intitola 3x a Woman – The Misplaced Files e vede il duo ampliato a trio grazie all’ingresso del bassista Kyle Forester. In realtà, grazie anche alla presenza di una piccola sezione di fiati composta da Peter Evans (tromba), Sam Kulik (trombone) e Dan Peck (tuba), il gruppo agisce come una piccola orchestra miscelando jazz e improvvisazione in modo intelligente, una sorta di crossover mutante dove l’improvvisazione si fonde con la forma canzone, dando vita ad una musica sempre in cambiamento ma stranamente orecchiabile, come dimostra la splendida “A Song With Melody And Harmony And Words And Rhythm” inserita in scaletta.
Gruppo tanto importante quanto da me ingiustamente dimenticato per molto tempo in fase di registrazione, i Roxy Music sono riusciti davvero a creare un nuovo genere musicale. La band si forma a Londra all’inizio degli anni ’70, creata dal cantante Bryan Ferry e dall’amico bassista Graham Simpson. Presto si aggiunge a loro Andy Mackay, tastierista e sassofonista con un grande interesse per la musica di avanguardia. Mackay aveva conosciuto al Winchester College of Art uno studente che condivideva i suoi stessi interessi, Brian Eno, e lo convinse facilmente ad unirsi alla band per sviluppare il suono del sintetizzatore analogico VCS3. Con l’ingresso di Paul Thompson dietro ai tamburi e del chitarrista Phil Manzanera ecco pronto l’organico dei Roxy, costretti presto a cambiare il nome in Roxy Music per non confondersi con una band americana che aveva lo stesso nome. Il primo album autointitolato e prodotto da Peter Sinfield (paroliere dei King Crimson), già mostra tutte le carte vincenti in possesso di Ferry e compagni. Una miscela perfetta di avanguardia e ritornelli orecchiabili, ritmi tanto pulsanti quanto ballabili, una scrittura ed una voce straordinariamente eleganti, schizzati dagli interventi precisi ed aggressivi del sax di Mackay. Nel 1973 esce il secondo lavoro, For Your Pleasure, a confermare la band su livelli stellari. Il disco, che vede una sconosciuta Amanda Lear in copertina intenta a portare a guinzaglio una pantera nera, è anche l’ultimo a vedere la presenza di Brian Eno e il primo senza l’apporto del dimissionario bassista Graham Simpson. Il travolgente incipit di “Do The Strand” è il modo migliore per farmi perdonare dell’assenza di Bryan Ferry e compagni da molti podcast a questa parte.
Se i Roxy Music a modo loro avevano già tracciato le coordinate della new wave, un gruppo scozzese, alla fine degli anni settanta, iniziava la sua parabola musicale proprio rifacendosi alle medesime sonorità. Anche se il loro nome è associato al pop-rock da classifica degli anni ’80, i Simple Minds degli inizi erano un gruppo molto interessante, dal grande talento melodico espresso da Jim Kerr (voce), Charlie Burchill (chitarra) e Mick MacNeil (tastiere) in una maniera decadente, glam e classicheggiante. Se i primi quattro album avevano catturato anche Peter Gabriel che li aveva voluti più di una volta come gruppo spalla, la prima piccola grande svolta dalla new wave al synth pop avviene con la pubblicazione nel 1982 di New Gold Dream (81–82–83–84), l’album che li consacrerà anche presso il grande pubblico. Il disco, che vede alla batteria per la prima volta Mel Gaynor al posto di Brian McGee, è un perfezionamento del loro sound che troverà il suo compimento commerciale con l’uscita del singolo “Don’t You (Forget About Me)” e dei due lavori Sparkle In The Rain e Once Upon A Time che li renderanno insieme agli U2 tra i maggiori esponenti del pop-rock da stadio. “Someone Somewhere in Summertime” è il brano che apre New Gold Dream e tuttora uno dei cavalli di battaglia di Jim Kerr e compagni on stage.
Stephen Tunney, in arte Dogbowl è uno straordinario personaggio. Bislacco, sarcastico e geniale, capace di strizzare l’occhio a tutti i maestri del sarcasmo e della parodia, dalla Bonzo Dog Doo-Dah Band a Frank Zappa passando per Kevin Ayers. Chitarrista e compositore della prima incarnazione dei King Missile di John S. Hall, ha intrapreso all’inizio dei ’90 una carriera solista trovando con il secondo album Cyclops Nuclear Submarine Captain del 1991 l’apice creativo della sua carriera. Tratto proprio da quell’album, pervaso da una straordinaria fantasia nella ritmica e nella costruzione sonora, “Love Bomb” è uno dei suoi più riusciti arrangiamenti tra melodie irresistibili, musicisti sgangherati ma allo stesso tempo fiabeschi, e una costante psichedelia di fondo. Impossibile non volergli bene, non apprezzare le sue costruzioni naif. Un personaggio eccentrico e a suo modo geniale come pochi, da riscoprire e da riassaporare di tanto in tanto.
Christa Päffgen è stata una modella ed attrice tedesca che si è avvicinata piano piano alla musica grazie alla sua amicizia con Bob Dylan e alla sua relazione con Brian Jones dei Rolling Stones. Conosciuta con lo pseudonimo di Nico, grazie a Dylan conobbe Andy Warhol, che la coinvolse come attrice in alcuni dei film sperimentali che stava girando in quel periodo e a frequentare la sua Factory. Diventata presto la sua musa, Warhol la convinse ad unirsi ai The Velvet Underground, con cui restò solo per l’album di esordio, un album memorabile intitolato semplicemente The Velvet Underground & Nico in cui l’artista tedesca cantò nei brani “Femme Fatale”, “All Tomorrow Parties” e “I’ll Be your Mirror”. Difficilmente Lou Reed poteva accettare quella presenza nel gruppo e Nico aveva bisogno di intraprendere una carriera solista. Nico restò molto amica di John Cale e dopo due album notevoli come Chelsea Girl e The Marble Index, con Desertshore (prodotto proprio da Cale) il suo canto cupo e solenne trova il proprio apice creativo. Il fronte e il retro della copertina dell’album mostrano immagini tratte dal film La Cicatrice Interieure diretto dal suo compagno di allora, il regista francese Philippe Garrel. L’ipnotica “The Falconer” è una delle migliori testimonianze del modo in cui Nico riusciva ad esprimere con lucidità e lugubre distacco la tragedia del genere umano grazie anche allo splendido e maestoso organo suonato da John Cale.
Visto che ne abbiamo appena parlato anche se parzialmente, va assolutamente approfondita la storia di un gruppo che, probabilmente, è stato il più influente e saccheggiato per i decenni successivi da generazioni di gruppi del rock cosiddetto alternativo. Paradossalmente il loro esordio nel 1967 venne accolto con indifferenza dal pubblico. Non dimentichiamo che in quegli anni era di moda la West Coast, i movimenti hippie e flower power, per cui l’avanguardia, i racconti di strada e gli artisti di una New York disperata non potevano certo avere un grande appeal presso il grande pubblico. Il primo nucleo dei The Velvet Underground venne formato da Lou Reed, Sterling Morrison e John Cale, ma come detto il loro approccio è troppo crudo e scandaloso per piacere. Dopo aver sostituito il batterista originario Angus MacLise con Maureen “Moe” Tucker, è un concerto al Café Bizarre, un locale del Greenwich Village, a cambiare le carte in tavola. Tra il pubblico sono presenti alcuni frequentatori della Factory di Andy Warhol: i registi Barbara Rubin e Paul Morrissey ed il ballerino Gerard Malanga. Dopo averli ascoltati dal vivo sono proprio loro che suggeriscono a Warhol di assumerli come possibile resident band della sua Factory.
Warhol suggerisce alla band di prendere come cantante una sua pupilla, l’attrice e modella tedesca Christa Päffgen più conosciuta come Nico, arrivata negli USA come compagna del chitarrista dei Rolling Stones, Brian Jones. Ritmi ossessivi, largo uso della dissonanza, il cantato di Lou Reed, che recitava testi che toccavano spesso temi come morte, solitudine, alienazione urbana, droga e sesso: questi erano gli elementi portati su disco grazie alla Verve Records che pubblicò in un freddo 12 marzo newyorkese The Velvet Underground & Nico. Anche l’artwork entrò nella storia. Priva di riferimenti alla band, la copertina disegnata e firmata dallo stesso Warhol, rappresentava una banana invitando chi la guardava a “sbucciare lentamente e vedere” (peel slowly and see). Infatti nelle prime copie stampate togliendo l’adesivo si poteva vedere un’allusiva banana rosa. Dalla dolcezza sinistra di “Sunday Morning” alla tossicodipendenza di “Heroin”, dalla sperimentazione di “The Black Angel’s Death Song” alla perversione bondage di “Venus In Furs” (prima descrizione esplicita di un rapporto sadomaso padrone-servo mai apparsa in un brano di musica rock), fino alla martellante “I’m Waiting For The Man”, dove uno studente bianco si reca in un quartiere nero di Harlem a comprare dell’eroina dal suo spacciatore di fiducia che lo fa sempre aspettare. Lou Reed racconta a modo suo i brutti incontri fatti dallo studente prima di riuscire ad avere la sua dose.
Tutto l’album è un viaggio scuro e crudo, condotto dalla viola elettrica di Cale, dal tribale mantra percussivo di Moe Tucker, dalla seducente Nico e dal fascino perverso di Reed. Vibrante, seducente, un mix di amore e dolore, un disco che nonostante le poche copie vendute (anche a causa di un problema legale) diventa presto mito, culto. Una sperimentazione sonora così diversa da quello che andava di moda in quegli anni da diventare una vera e propria pietra miliare e disco fondamentale per comprendere molto, moltissimo rock alternativo dei decenni a seguire.
Ogni tanto capita di tirare fuori dagli scaffali dei dischi acquistati anni prima ma di cui avevamo perso completamente le coordinate fisiche e sonore. Tra il 1998 ed il 2006 il songwriter Dave Fischoff ha pubblicato tre album per la Secretly Canadian prima di sparire nel nulla. Il suo cantautorato atipico in realtà aveva più di un motivo di interesse. Un flusso di coscienza, un collage di squisiti arrangiamenti e piccoli frammenti di suono. Melodie pop snocciolate con l’ausilio di una drum machine e arpeggi delicati. The Ox And The Rainbow è stato il suo secondo ed ultimo lavoro: un occhiata al mondo filtrato a suo modo e mai narrato in prima persona senza mai perdere di vista romanticismo ed empatia. La delicata “How Things Move In The Wind” è un modo bellissimo di rivisitare le sue melodie fluttuanti e non rispedire Fischoff nell’oblio.
Il barbuto Justin Vernon, in arte Bon Iver è riuscito a diventare da un decennio a questa parte una delle figure cardine del folk a stelle e strisce. Dopo il successo dell’esordio For Emma, Forever Ago non era facile per lui tornare e confermarsi. Il suo sophomore album porta il nome da lui scelto come moniker addirittura raddoppiato (Bon Iver, Bon Iver) e vede una decisa sterzata a livello sonoro. Il suo folk rurale si stratifica, viene alimentato e popolato da intrusioni elettroniche, nuove suggestioni, con interventi e collaborazioni misurate ed evocative come quelle del sassofonista Colin Stetson. Un disco onirico, evocativo, che non disdegna alcune sterzate verso ritornelli ed ambientazioni pop di facile presa. D’altro canto prima di entrare in studio per registrare il disco, Vernon aveva collaborato con Kanye West, e questa avventura in territori inusuali ha sicuramente influito nel processo compositivo. Il disco è un viaggio più all’interno di se stessi che geografico, anche se i titoli delle tracce dell’album stanno ad indicare un percorso specifico, come la splendida “Perth” che apre l’intero lavoro.
Un duo di Richmond composto da Carter Brown (tastiere) e Mark Nelson (chitarre, nastri e voce) chiamato Labradford ha inaugurato nel 1993 con un album meraviglioso come Prazision LP la stagione della Kranky, etichetta di culto e riferimento del genere tra elettronica e post-rock. C’è molto nei gruppi della Kranky dell’estetica post-rock codificata da Simon Reynolds e di cui abbiamo già parlato: il recupero del krautrock tedesco, del folk britannico, della psichedelia più chitarristica, dell’elettroacustica, e, più di tutto, dell’elettronica analogica e del minimalismo. I droni elettronici di Brown e Nelson sono lenti ma inesorabili, le chitarre spesso mandate in loop, i riferimenti ai Tangerine Dream molto chiari, con pochissimo rumorismo e molto ambient. Nel successivo A Stable Reference c’è in aggiunta il basso di Robert Donne a rendere il sound più corposo e nel loro Labradford del 1998 c’è anche una drum machine, il suono che si fa più solido e la voce che non si limita a bisbigliare. La loro trance si sublima in “Pico”, con una voce che sussurra in sottofondo, una scura linea di basso, un malinconico organo e un flauto sintetizzato che evoca paesaggi malinconici o spettrali come quello della copertina. Mark Nelson abbandonerà il progetto Labradford nel 2000 proseguendo però fino ai giorni nostri la strada inaugurata nel 1998 sotto il nome di Pan•American.
Chiudiamo il podcast con un quello che, lo ammetto spudoratamente, è uno dei miei album della vita. Gli incubi e sogni dei Bark Psychosis hanno ispirato il critico Simon Reynolds a coniare uno dei termini più abusati in musica negli anni ’90, “post-rock”. Quando si parla della band di Graham Sutton (chitarra e voce), Daniel Gish (tastiere e piano), John Ling (basso e campionatore), e Mark Simnett (batteria e percussioni) la mente va sempre a vagare di notte nei sobborghi londinesi descritta in capitoli cinematici di rara suggestione onirica all’interno di quel tesoro nascosto chiamato Hex (1994). In copertina c’è la chiesa di St. John at Hackney vista di notte dai binari vicino alla stazione di Stratford, mentre sul terreno si stagliano le ombre dei componenti del gruppo, una zona che recentemente ha visto la costruzione del Parco Olimpico di Londra. I paesaggi industriali urbani, desolanti e crepuscolari che hanno ispirato l’artwork li ritroviamo tra i solchi del disco, in un’alternanza di silenzi e di miniature sonore, cortometraggi immaginifici. Quando si ascolta “Eyes & Smiles” tra arpeggi di chitarra, tastiere avvolgenti e voce sussurrata, una lacrimuccia si fa strada tremante, tratteggiando un paesaggio sonoro che quando esplode nel finale con le urla filtrate e l’assolo di tromba, provoca la catarsi dell’anima. Graham Sutton tornerà a sorpresa solo 10 anni più tardi a rispolverare il nome Bark Psychosis con un album, Codename: Dustsucker, che provoca qualche sussulto per le atmosfere simili al predecessore pur non eguagliandone l’impatto sonoro ed onirico. Album che vede dietro i tamburi Lee Harris dei Talk Talk.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da un paio di anni. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Da giugno 2019 è attivo lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo! Naturalmente ogni aggiornamento e notizia sarà nostra premura comunicarla sulla nostra pagina Facebook.
Nel 10° Episodio di Sounds & Grooves troverete la prima parte della temutissima classifica dei migliori dischi del 2018 secondo il giudizio insindacabile della redazione di Sounds & Grooves…che poi sarei io. 🙂 In quasi 100 minuti di musica andremo ad ascoltare le posizioni dalla 30° alla 16° dove troverete ii suoni più “classici” di E, Parquet Courts, Shame, Reverend Horton Heat e Ty Segall, e quelli più complessi di Dwarfs of East Agouza, Young Mothers, Heather Leigh. Passando per la (quasi) disco music in chiave funk-kraut dei Cave, le sonorità cupe di Wrekmeister Harmonies e Skull Defekts, l’inaspettato ritorno dei Wingtip Sloat, l’eccitante suono dei Moon Relay e l’eleganza di Neneh Cherry. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. WOVEN HAND: A Holy Measure da ‘The Threshingfloor’ (2010 – Glitterhouse Records)
02. ARBOURETUM: The Promise da ‘Coming Out Of The Fog’ (2013 – Thrill Jockey)
03. THE LOUNGE LIZARDS: Incident On South Street da ‘The Lounge Lizards’ (1981 – Editions EG)
04. THE GOLDEN PALOMINOS: Clustering Train da ‘Visions Of Excess’ (1985 – Celluloid)
05. PEOPLE: A Song With Melody And Harmony And Words And Rhythm da ‘3 X A Woman: The Misplaced Files’ (2014 – Telegraph Harp)
06. ROXY MUSIC: Do The Strand da ‘For Your Pleasure’ (1973 – Island Records)
07. SIMPLE MINDS: Someone Somewhere In Summertime da ‘New Gold Dream (81-82-83-84)’ (1982 – Virgin)
08. DOGBOWL: Love Bombs da ‘Cyclops Nuclear Submarine Captain’ (1991 – Shimmy Disc)
09. NICO: The Falconer da ‘Desertshore’ (1970 – Reprise Records)
10. THE VELVET UNDERGROUND & NICO: I’m Waiting For The Man da ‘The Velvet Underground & Nico’ (1967 – Verve Records)
11. DAVE FISCHOFF: How Things Move In The Wind da ‘The Ox And The Rainbow’ (2001 – Secretly Canadian)
12. BON IVER: Perth da ‘Bon Iver, Bon Iver’ (2011 – Jagjaguwar)
13. LABRADFORD: Pico da ‘Labradford’ (1996 – Kranky)
14. BARK PSYCHOSIS: Eyes & Smiles da ‘Hex’ (1994 – Circa)