Tornano le avventure in musica di Sounds & Grooves con il 3° Episodio della 13° Stagione di RadioRock.to The Original
Meno novità ma tante cose da riscoprire in questo episodio di Sounds & Grooves
Sounds & Grooves arriva al 3° Episodio della 13° Stagione di www.radiorock.to, ed è per me a distanza di anni sempre meraviglioso registrare e dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Massimo Di Roma, Flavia Cardinali, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare il mio contributo dal 1991 al 2000. La Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni abbiamo cercato nel nostro piccolo di tenere accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata. Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi.
Il terzo episodio di Sounds & Grooves presenta due anime ben distinte spalmate sui 82 minuti di podcast La prima parte è appannaggio di un suono diretto, dalle chitarre scintillanti. Si va dal suono australiano di Rolling Blackouts Coastal Fever e Blank Realm in bilico tra il rock più elementare e grezzo, la psichedelia dei grandi spazi aperti, e brillanti intuizioni pop, alla classicità a stelle e strisce di Big Star e Tom Petty, passando per i trascinanti The Men. E ancora la riscoperta di un grande autore come Mark Eitzel, da solo e con gli American Music Club. La seconda parte è più “complessa”, il suono si fa più ricco di riferimenti in un gioco caleidoscopico. Ecco allora il post rock britannico targato Too Pure di Moonshake e Pram, e i saliscendi emozionali dei Rodan da Louisville. E se pensate che la musia italiana è di un piattume senza speranza, allora a risvegliare la corteccia cerebrale ci pensano gli Ant Lion e i Vonneumann con due album enormi! (e proprio oggi per l’etichetta dei vonneumann esce la meravigliosa creatura degli Ask The White, ovverosia Isobel Blank e Simone Lanari degli Ant Lion in libera uscita). Il tutto si conclude con due artisti che graffiano e accarezzano il cuore spargendo emozioni come Daniel Blumberg e Mark Hollis. Lunga vita a RadioRock The Original. #everydaypodcast
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
La storia del rock in Australia è sempre stata estremamente affascinante per il suo essere costantemente in bilico tra il rock più elementare e grezzo (le prime cavalcate punk dei The Saints e dei Radio Birdman negli anni ’70), la psichedelia dei grandi spazi aperti, e brillanti intuizioni pop. Negli anni ’80 ci fu un vero e proprio boom della musica australiana, con etichette come Citadel, Mushroom o Greasy Pop, e band come Died Pretty, The Moffs o Lizard Train, per non parlare dei nomi più conosciuti come The Celibate Rifles, The Church o i Birthday Party di Nick Cave. I Rolling Blackouts Coastal Fever vengono da Melbourne e sono formati dai tre chitarristi e cantanti Fran Keaney, Joe White e Tom Russo. A completare la line up sono arrivati il bassista John Russo, fratello di Tom, e il batterista Marcel Tussie, coinquilino di Joe White.
“Hope Downs” è il loro album di esordio, che esce per la Sub Pop ed è un perfetto bignami di pop rock guitar oriented, con melodie sempre perfette ed avvolgenti, ed una qualità di scrittura superiore alla media. “Sister’s Jeans” è la dimostrazione del potenziale di questa band che aspettiamo alla conferma con il difficile secondo album.
Da Melbourne a Brisbane ci sono quasi 1800 km di costa, per andare a trovare un gruppo che presenta anche in questo caso dei fratelli in formazione. Tutte le molteplici influenze del rock australiano negli anni sono state ben assorbite da un quartetto chiamato Blank Realm e formato da tre fratelli veri (Daniel, Luke e Sarah Spencer), ed uno acquisito (Luke Walsh). La band è rimasta per anni ancorata a produzioni indipendenti ed etichette underground come la Not Not Fun Records , ma da un paio d’anni la Fire Records ha deciso di dargli la giusta e meritata visibilità anche in Europa ristampando i precedenti Go Easy (2012) e Grassed Inn (2014) e pubblicando nel 2015 Illegals In Heaven che, con un lavoro in studio finalmente pulito ed accurato, riesce a ripulire un po’ il suono grezzo della band rendendo più godibile la freschezza delle melodie e degli arrangiamenti.
“Flowers In Mind” è un irresistibile uptempo con un refrain memorabile; una canzone facile, immediata, capace sempre di restare in bilico su una sottile linea di confine di una possibile esplosione sonora, sia nel meraviglioso ritornello, sia nel vorticoso incedere finale. Illegals In Heaven è un disco semplice ma mai banale, con il pop psichedelico declinato in quasi tutte le sue possibili forme e varianti, dove il quartetto di Brisbane espone un manifesto di come è possibile ai giorni nostri fare un album di canzoni assolutamente perfette.
Restando in tema di chitarre sfavillanti e di rock senza troppi fronzoli, ci spostiamo a Brooklyn, dove un quintetto chiamato The Men porta a compimento nel 2012 una curiosa mutazione genetica con un album chiamato quasi ironicamente Tomorrow’s Hits. Se con il precedente New Moon Nick Chiericozzi e compagni avevano ripulito il suono dalle scorie noise-rock degli esordi, con questo album è ancora più evidente il guardarsi indietro (e qui sta l’ironia del titolo) verso un’americana perfetta formalmente con cavalcate chitarristiche, armonica a bocca, ritmi forsennati, pianoforte rotolante e addirittura una sezione di fiati ad accompagnare l’incendiaria “Another Night”.
E se parliamo di musica americana, di rock classico a stelle e strisce, di power-pop, chitarre scintillanti, melodie cristalline, chi meglio dei Big Star può incarnare questo suono così classico e allo stesso tempo intramontabile. La band si form a Memphis, nel Tennessee grazie all’incontro di due personalità come Alex Chilton e Chris Bell. Il loro esordio discografico avviene nel 1972 con l’album #1 Record, in bilico perfetto tra le anime dei due leader. “Feel” sintetizza perfettamente questa sinergia, un brano scritto a quattro mani da Bell e Chilton che mostra una incredibile perfezione formale, con le armonie vocali ad accarezzare il cuore. Bell soffrirà la voglia di leadership di Chilton lasciando la band subito dopo l’esordio, lasciandoci poi molte inedite meraviglie fino alla sua morte tragica avvenuta nel 1978 in un incidente stradale.
Chilton terrà le redini dei Big Star fino allo scioglimento avvenuto nel 1974. Nel 1993, Chilton ed il batterista Jody Stephens riformano il gruppo insieme a Jon Auer e Ken Stringfellow dei Posies, registrando un concerto all’Università del Missouri. La band successivamente è rimasta attiva, suonando in Europa e Giappone e registrando nel 2005 anche un nuovo album in studio. Chilton è morto nel marzo del 2010, per l’aggravarsi dei suoi problemi cardiaci.
Diciamocelo chiaramente, ci sono artisti che hanno lasciato un segno indelebile e la cui assenza è tuttora un sentimento quasi insopportabile. Questo è sicuramente il caso di Tom Petty, autore che ha sempre avuto la capacità di scrivere storie, e di scriverle bene, con il dono della semplice magia da artigiano che possedeva. Per ricordarlo degnamente ho scelto Full Moon Fever, che non è solo il primo album a suo nome senza la sigla associata dei The Heartbreakers, ma soprattutto il disco della maturità di un grande artista. Profondamente attaccato alle sue radici Tom Petty è sempre stato una sorta di eroe americano, e questo primo album che porta il suo nome è la summa delle esperienze maturate con la sua band e di quelle fresche create insieme ai Traveling Wilburys, una sorta di supergruppo di eroi del rock provenienti dalle decadi passate (George Harrison, Bob Dylan, Roy Orbison, Jeff Lynne e lo stesso Petty) creato con il compito di riprendere i modelli del rock anni ’60 e rivederli aggiornandoli agli anni ’80.
L’esperienza con questi mostri sacri è confluita in questo album, dove si alternano cavalcate veloci e fiammeggianti come “Runnin’ Down A Dream” a ballate meravigliose come “A Face In The Crowd”, con un fantastico Mike Campbell alla chitarra e un Jeff Lynne raffinato regista. La Gibson Flying V rappresentata sulla copertina del suo album di esordio con gli Heartbreakers è piantata nel cuore di ognuno di noi.
Lo scorso anno è stata una gradita sorpresa il ritorno discografico ad alti livelli da parte di Mark Eitzel. L’ex leader degli American Music Club, aiutato dall’ex Suede Bernard Butler (che oltre a produrre e registrare ha anche suonato e arrangiato basso, chitarra e batteria), ha dato alle stampe questo Hey Mr Ferryman che si rivela uno scrigno pieno di incredibili e preziose gemme. Splendide melodie, pezzi estremamente trascinanti ed emozionanti, come la fantastica ballata in punta di acustica chiamata “Nothing And Everything”. Un ritrovamento inaspettato, un autore che andrebbe riscoperto per i suoi grandi meriti di interprete e di scrittore. Encomio a parte andrebbe fatto per le liriche, sempre argute, ispirate e estremamente a fuoco, con una dedica al compianto Jason Molina.
Andiamo indietro nella carriera di Mark Eitzel andando proprio a ripescare il secondo album degli American Music Club. Engine viene pubblicato nel novembre del 1987 e mostra ancora una volta l’inquietudine del suo leader, un poeta i cui versi ci conducono in un viaggio interiore fatto di tormenti, di piccole scoperte, di letti disfatti, di grandi sconfitte e piccole vittorie. Un universo musicale invece in un suono che parte da una solida impostazione folk-rock, che grazie all’innesto del chitarrista Tom Mallon riesce ad assecondare al meglio le visioni create dal malessere esistenziale di Eitzel, sia nella ballate più psichedeliche sia nei brani più tirati come la splendida “Nightwatchman”.
Sui Moonshake ho scritto un lungo articolo che ne ripercorre tutti i passi dagli esordi allo scioglimento. La band è stata formata da David Callahan e Margaret Fiedler nel 1990 scegliendo un nome che ne sancisse in maniera inequivocabile il legame con il krautrock (come abbiamo ascoltato prima, “Moonshake” non è altro che uno dei brani che compongono il seminale Future Days dei Can). I due leader trovano presto un loro equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa.
Eva Luna è il loro splendido esordio che si snoda in tredici meravigliose tracce dove Pop Group, Can, Public Image Ltd. e My Bloody Valentine si stringono in un caleidoscopico girotondo. I quattro mettono a fuoco un disco che, nei suoi tratti scarni e scheletrici, colpisce con le sue schegge new wave, con le sue argute bizzarrie, le poliritmie kraut, i fiati jazz e i suadenti innesti dub. Gli intricati ritmi di “Mig” Moreland e l’ipnotico basso dub di John Frenett, sono la migliore base possibile su cui possono partire brani fantastici come la torrenziale “Spaceship Earth”, I Moonshake, inseriti nel filone post-rock britannico, sono stati semplicemente uno dei gruppi più originali degli anni novanta il cui unico torto è stato di essere stati troppo facili per l’avanguardia e troppo intellettuali per la massa.
Il concetto iniziale di post rock codificato da Simon Reynolds sulle pagine del prestigioso The Wire, partiva dalle formazioni provenienti dalla Gran Bretagna, e da quello che è stato il suono dell’etichetta di riferimento, ovverosia la Too Pure, fondata a Londra nel 1990 da Richard Roberts e Paul Cox, e salita improvvisamente alla ribalta grazie alla pubblicazione di Dry, l’album di esordio di PJ Harvey. La label londinese era diventata in breve tempo il punto di riferimento per gli ascoltatori e gli addetti ai lavori meno allineati e usuali. Le band che incidevano per l’etichetta (come i Moonshake di cui abbiamo parlato poco fa) da una parte non si somigliavano affatto, ma allo stesso tempo erano pervase dalla stessa comune voglia di sperimentare, rifacendosi a band come Pop Group o Rip Rig + Panic, ripercorrendo le strade del krautrock, usando lo studio di registrazione come nuovo strumento e delegittimando di fatto il simbolo principe del rock: la chitarra.
I Pram venivano da Birmingham, ed erano formati dalla cantante Rosie Cuckston, il bassista Sam Owen, il batterista Andy Weir e Max Simpson alle tastiere e campionamenti. Helium è il loro secondo album in studio uscito per la Too Pure, e vede la band andare a briglie sciolte con la fantasia tra rock e jazz, avanguardia e trip-hop con brani elaborati e sofisticati, come “Dancing On A Star”. Dopo un ulteriore splendido lavoro per la Too Pure la band si muoverà su binari più semplici e consueti. Dopo dieci anni di silenzio, la band è tornata nel 2018 on uno splendido album intitolato Across The Meridian.
Ogni tanto qualcuno si lamenta che attualmente si produce solo musica di merda. Affermazione che può essere corretta solo se si osserva il mondo musicale solo da un punto di vista superficiale semplicemente ascoltando quello che propongono le radio commerciali o il mainstream in generale. La situazione probabilmente è ancora più evidente nella nostra penisola, sconvolta musicalmente dai talent show e dai fenomeni da baraccone su YouTube e sui social networks. Proprio in una situazione così complicata, è importante che la passione e la curiosità non vengano mai meno, per andare a cercare le proposte davvero interessanti che invece ci sono sempre, nel mondo come in Italia.
Spero di non essere tacciato di conflitto di interessi se parlo strabene di un mio (quasi) omonimo, Stefano Amerigo Santoni, che dopo averci deliziato con i Sycamore Age ha messo in campo una nuova band con cui proporre un suono coraggioso insieme ad altri tre musicisti della scena toscana: Simone Lanari (Walden Waltz), Alberto Tirabosco (Punk Lobotomy) e Eleonora Giglione aka Isobel Blank (Vestfalia). Gli Ant Lion arrivano all’album di esordio intitolato A Common Day Was Born facendo subito centro grazie a 10 tracce splendidamente anarchiche dove convivono moltissime influenza sonore che attraversano trasversalmente anni di rock-funk-jazz passando per le poliritmie di un certo post rock britannico di marca Too Pure e con spruzzate leggere di wave e prog. Detto così sembra un inestricabile labirinto, ma ascoltate le differenze stilistiche di ogni brano e lasciatevi trasportare dalle storie raccontate con passione dalla splendida voce di Isobel Blank come questa scura e melodica “Last Day Of Night”.
Quanto detto per gli Ant Lion vale anche per il trio romano dei Vonneumann! “NorN è un omaggio ad uno degli errori lessicografici più famosi della storia: la parola inesistente dord. Siccome vonneumann ha tante N nel suo nome, ci piaceva omaggiare dord sostituendo la simmetria delle D con le N.” Questa la spiegazione del titolo, ma per quanto riguarda la musica, beh, quella è tutta un’altra storia. NorN è un disco funk, anzi no, un disco elettronico, anzi no, un disco rock, anzi no. Forse è tutte queste cose insieme, forse è un ibrido tanto coraggioso quanto eccitante, soprattutto pensando che è stato prodotto in Italia. Una ricerca sonora in continua mutazione, un linguaggio sonoro nuovo, non perdeteli, sarebbe un delitto! Tante le collaborazioni in questo splendido album mutante, da Lucio Leoni a Vera Burghignoli, dal sax di Sonia Scialanca alla batteria di Andrea Cerrato. Per rimanere conquistati dal sound del gruppo basta seguire il ritmo di questa incredibile “Bassodromo”.
Negli anni ’90 i due poli del post rock a stelle e strisce erano senza dubbio Chicago e Louisville. Nel suono dei gruppi che venivano dalla cittadina del Kentucky era preponderante la ritmica spigolosa dei Can o la spinta motoristica dei Neu!. La scena era estremamente vitale e comprendeva svariate collaborazioni tra musicisti, che portarono alla creazione di diversi side projects. Molti degli album registrati in quel periodo non ebbero all’epoca la meritata dimensione mediatica solo per la quasi contemporanea esplosione del movimento grunge che, almeno a livello mainstream, ne oscurò la visibilità. Fortunatamente il tempo si è rivelato galantuomo e con il passare degli anni ha reso giustizia a gruppi come i Rodan. La band era formata da Jeff Mueller (chitarra/voce), Jason Noble (chitarra/voce), Tara Jane O’Neil (basso/voce) e Kevin Coultas (batteria).
Il loro unico album Rusty è una delle pietre miliari del post rock statunitense, con l’evocativa alternanza di melodie lente e strappi violenti. Fifteen Quiet Years è una compilation uscita nel 2013, 19 anni dopo il loro unico album in studio. L’album comprende alcune tracce registrate per raccolte varie ed alcune registrazioni fatte per le famose BBC sessions con il leggendario John Peel. “Sangre” è stata registrata proprio per lo storico speaker radiofonico britannico ed è uno specchio fedele del suono della band, un crescendo in perfetto equilibrio tra paesaggi ammalianti e tempeste travolgenti.
Daniel Blumberg è un musicista londinese, tanto irrequieto da nascondersi dietro una sfilza di nomi come Cajun Dance, Hebronix, Oupa, o Heb-Hex. Non contento ha anche creato una band estremamente interessante chiamata Yuck, con cui ha pubblicato 3 album tra il 2011 ed il 2016. Durante lo scorso anno, Blumberg insieme a Ute Kanngiesser (violoncello), Tom Wheatley (contrabbasso) e Billy Steiger (violino), ha dato vita ad una residency molto interessante presso un locale famoso per le sue jam session di improvvisazione jazz, il Cafe OTO di Londra. Insieme ai suoi fidati musicisti, Blumberg è andato in Galles a registrare il suo album di esordio come solista. Minus è un album crudo, dolente, a tratti straziante, sincero, suonato con passione.
Solo in una traccia (i 12 minuti di “Madder”), i musicisti si lasciano andare ad un’improvvisazione free-form, nelle altre 6 canzoni è la poetica, il romanticismo a volte doloroso, la fragilità emotiva ad avere la meglio, come in “Stacked”. Un disco che entrerà nella playlist di fine anno di molti di voi, senza dubbio, un disco dell’anima impreziosito dalle illustrazioni create dallo stesso songwriter.
Mark Hollis alla guida dei Talk Talk è stato protagonista di un’incredibile parabola artistica, una vera e propria mutazione genetica che ha trasformato la sua creatura da crisalide a meravigliosa farfalla. Partito da spartiti che lo vedevano accomunato alla corrente synth-pop, il gruppo progressivamente andò a dilatare le proprie composizioni contaminando il suono con innesti sperimentali e quasi jazz, finendo con l’essere precursore del nascente post-rock. Dopo lo scioglimento del gruppo nel 1992, Hollis ha inciso il suo personale canto del cigno sei anni più tardi, un album solista che riprendeva le atmosfere sognanti e appese al cielo di Laughing Stock, in un afflato crepuscolare, intimo. Un ultimo battito in levare, l’impeto accennato di “Watershed” che poi si ritrae, disinnescando l’energia timidamente quasi a disagio per l’aver mostrato una tale tavolozza di colori, per poi tornare al bianco e nero, e al silenzio. Il silenzio di Mark Hollis dura da quel 1998, ma è meraviglioso poterlo interrompere ogni tanto.
Un grazie speciale va sempre a Franz Andreani per la nuova veste grafica attiva già dallo scorso anno. A cambiare non è solo la versione web2.0 del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Ci rivediamo tra due settimane con il quarto episodio dove troverete gli spasmi noise rock di Membranes e Terminal Cheesecake, i saliscendi emozionali di June of 44 e Shipping News, le scure ambientazioni da fine del mondo della svedese Anna von Hausswolff. C’è spazio per la straordinaria conferma del post-Brexit-punk degli Idles, il ponte tra due mondi di Arto Lindsay, lo splendido songwriting di Ryley Walker e il ripescaggio dei britannici Gomez. C’è anche un fantastico viaggio nel centro italia tra Toscana ed Emilia con la psichedelia dei Julie’s Haircut e l’esordio (tutto da ascoltare) degli Ask The White (Simone Lanari e Isobel Blank) a riconciliarci con la musica prodotta nella nostra derelitta penisola. E se i Cave vi porteranno in un mondo dove il funk e la black music cambiano pelle, il trio Anne-James Chaton + Thurston Moore + Andy Moor e gli Horse Lords di Baltimora vi sballotteranno con le loro proposte tanto apparentemente ostiche quanto cerebralmente stimolanti.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto

TRACKLIST
01. ROLLING BLACKOUTS COASTAL FEVER: Sister’s Jeans da ‘Hope Downs’ (2018 – Sub Pop)
02. BLANK REALM: Flowers In Mind da ‘Illegals In Heaven’ (2015 – Fire Records)
03. THE MEN: Another Night da ‘Tomorrow’s Hits’ (2014 – Sacred Bones Records)
04. BIG STAR: Feel da ‘#1 Record’ (1972 – Ardent Records)
05. TOM PETTY: A Face In The Crowd da ‘Full Moon Fever’ (1989 – MCA Records)
06. MARK EITZEL: Nothing And Everything da ‘Hey Mr Ferryman’ (2017 – Merge Records)
07. AMERICAN MUSIC CLUB: Nightwatchman da ‘Engine’ (1987 – Zippo Records)
08. MOONSHAKE: Spaceship Earth da ‘Eva Luna’ (1992 – Too Pure)
09. PRAM: Dancing On A Star da ‘Helium’ (1994 – Too Pure)
10. ANT LION: Last Day Of Night da ‘A Common Day Was Born’ (2017 – Ibexhouse)
11. VONNEUMANN: Bassodromo da ‘NorN’ (2017 – Ammiratore Omonimo Records)
12. RODAN: Sangre (Peel Session) da ‘Fifteen Quiet Years’ (2013 – Quarterstick Records)
13. DANIEL BLUMBERG: Stacked da ‘Minus’ (2018 – Mute)
14. MARK HOLLIS: Watershed da ‘Mark Hollis’ (1998 – Polydor)