Tornano le avventure in musica di Sounds & Grooves con il 2° Episodio della 13° Stagione di RadioRock.to The Original
Meno novità ma tante cose da riscoprire in questo episodio di Sounds & Grooves
Sounds & Grooves arriva al 2° Episodio della 13° Stagione di www.radiorock.to, ed è per me a distanza di anni sempre meraviglioso registrare e dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Massimo Di Roma, Flavia Cardinali, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare il mio contributo dal 1991 al 2000. La Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni abbiamo cercato nel nostro piccolo di tenere accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata. Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi.
Il secondo Episodio di Sounds & Grooves va in controtendenza rispetto al primo. Sono pochi i brani davvero recenti che troverete in questi 82 minuti di podcast: l’immenso e scuro nuovo album dei Low, la capacità degli Shame di esportare da Brixton riff e ritornelli anthemici, e il disco della maturità dei Protomartyr uscito lo scorso anno. Per il resto c’è un viaggio nel passato per esplorare territori che non frequentavo da un po’, come la new wave dei Talking Heads e le meravigliose intuizioni di Brian Eno. Il post punk industriale dei Killing Joke e la micidiale unione di kraut-canterbury-art rock-elettronica che ha reso così devastante ed influente la parabola dei This Heat. E ancora l’hardcore di un personaggio come Henry Rollins, la sinergia di quattro straordinari musicisti come Percy Howard, Charles Hayward, Fred Frith e Bill Laswell, il pop britannico scintillante e perfetto della premiata ditta XTC e quello americano più cerebrale e caleidoscopico messo in moto da David Longstreth con i Dirty Projectors. La conferma di un trio che sfugge a molte definizioni capitanato da Thalia Zedek e chiamato semplicemente E, per poi concludere il tutto con due songwriters dal talento enorme che non smettono a distanza di anni dalla loro prematura e tragica scomparsa di spargere emozioni come Elliott Smith e Vic Chesnutt. Lunga vita a RadioRock The Original. #everydaypodcast
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con un personaggio che mancava da troppo tempo su questa pagine sonore. Henry Rollins muove i primi passi con gli State Of Alert a Washington DC, e si fa notare per la sua carica sul palco da una band in rampa di lancio che era momentaneamente senza cantante. I Black Flag con Rollins diventano una macchina da guerra ed una della band cardine del punk hardcore californiano. Il loro album di esordio, Damaged, è tuttora considerato una pietra miliare. Terminata nel 1986 l’avventura Black Flag, Rollins chiama il suo amico chitarrista Chris Haskett e i due decidono di mettere su una nuova band.
Con l’aggiunta di due componenti dei Gone, side-project di Gregg Ginn, chitarrista dei Black Flag, Andrew Weiss al basso e Sim Cain alla batteria, la Rollins Band era bella che pronta. Weight è il quarto album a portare il nome di Rollins Band, e contiene una della canzoni più famose della band: “Liar”. La canzone, che inizia calma per poi esplodere in un dirompente ritornello, era diventata famosa per uno splendido video diretto da Anton Corbijn e soprattutto per aver fatto spesso parte di Beavis and Butt-head, il famoso programma di MTV.
Con il quarto lavoro in studio (il primo per la Domino), pur mantenendo inalterati i riferimenti storici (The Fall, Birthday Party), i Protomartyr da Detroit sembrano voler attenuare l’impeto violento dei primi lavori per andare di pari passo con le liriche del proprio frontman che raccontano con crescente malinconia e preoccupazione della situazione sociale in generale e degli Stati Uniti in particolare. Joe Casey e compagni ci consegnano direttamente il loro album migliore. Relatives In Descent è un disco tanto impegnato intellettualmente quanto viscerale nel suo schietto espressionismo. Le nuove 12 canzoni del gruppo di Detroit brillano nel buio, nascono per l’urgenza di esprimere le nevrosi, le insicurezze di un mondo che cambia, talvolta esplicitamente, a volte creando città e luoghi immaginari, ma sempre con lucide dinamiche emozionali che confermano e sanciscono il ruolo portante che hanno i Protomartyr nel mondo dell’alternative rock a stelle e strisce.
Difficile scegliere un brano che si eleva al di sopra media, impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla voce baritonale di un leader che è capace di creare scenari straordinari sia nell’incedere recitativo che nei refrain ossessivi. (Leggi la recensione) Alla fine la scelta è caduta sul racconto recitato con vigore e maestria della splendida “A Private Understanding” che apre il disco come meglio non si potrebbe. Un ottovolante emozionale tra salite acustiche e ripide discese elettriche ispirato parzialmente da “L’anatomia della malinconia” del saggista inglese Robert Burton che già nel 1600 lottava con la tristezza che permeava l’esistenza e le ingiustizie del mondo, esprimendole non di rado con pungente sarcasmo.
Quando alla fine degli anni ’70 Jaz Coleman forma il primo nucleo dei futuri Killing Joke, non immaginava la portata che avrebbe avuto la sua visione musicale negli anni a seguire. L’evoluzione del post-punk portato alle estreme conseguenze industriali. Ritmi ossessivi, tribali, sferzate elettroniche e scure, il loro album di esordio è un pugno che stordisce. Jaz Coleman, insieme al batterista Paul Ferguson, al chitarrista Kevin “Geordie” Walker e al bassista Martin Glover costruisce una macchina perfetta che demolisce tutto quello che incontra. Accelerazioni e bordate ritmiche sotto una pioggia incessante. Trent Reznor si mostrerà debitore nei confronti della band londinese nella formazione dei Nine Inch Nails, e parecchio metal attingerà a pene mani dalla ritmica incessante di Glover e Ferguson.
Dimostrazione di questo è stato la rivisitazione del ritmo incalzante di “The Wait” fatta dai Metallica nel loro EP di cover The $5.98 E.P.: Garage Days Re-Revisited.
Queen’s Head Pub, Brixton, sud di Londra. In questo locale, primo quartier generale dei Fat White Family, il cantante Charlie Steen insieme ai suoi quattro compagni di avventura hanno dato vita al progetto Shame. La band fa dunque parte di questa nuova scena molto interessante nata nel sud della capitale britannica, insieme ad altre realtà come Goat Girl e Dead Pretties. Nel corso dell’ultimo anno, queste formazioni sono riuscite tutte ad ottenere un contratto discografico, creando qualcosa di nuovo per la scena musicale britannica: un nutrito gruppo di musicisti giovani concentrati sulla creazione di un personale suono guitar-oriented. A scanso di equivoci non possiedono la feroce aggressione verbale di Idles o Sleaford Mods, ne l’anarchia sghemba e “malata” dei Fat Whites, ma il loro approccio di insofferente strafottenza rende il loro album di esordio Songs Of Praise estremamente godibile.
Quando l’assalto si fa più sfrontato, abrasivo e rumoroso, il gruppo sembra perdere colpi e lucidità, soprattutto rispetto a conterranei come i più maturi Idles. Ma quando fanno prevalere le loro urgenti melodie e la capacità di far esplodere riffs e ritornelli come nella “Friction” inserita in scaletta, riescono ad essere assolutamente irresistibili. La mia speranza è che Charlie Steen e compagni possano mantenere non solo la loro genuina strafottenza stradaiola, ma soprattutto l’attitudine a sfornare con facilità dirompenti e memorabili ritornelli. È li che la band del sud di Londra riesce a fare davvero la differenza.
Una straordinaria sinergia ha portato nel 1998 quattro straordinari musicisti ad unire le proprie forze nei Orange Music Sound Studios di West Orange, New Jersey. Meridiem è un album prodotto da Giampiero Bigazzi per l’etichetta italiana Materiali Sonori, che vede le personalità del cantante Percy Howard, del batterista Charles Hayward (This Heat, Gong, About Group e molti altri), il chitarrista Fred Frith (Henry Cow, Material, Massacre, Naked City, John Zorn e un’infinità di altri progetti), e il bassista Bill Laswell (Golden Palominos, Painkiller, Material Massacre e anche per lui una serie infinita di album e gruppi). Da questo album pervaso da un fascino oscuro e intrigante Hayward prese il nome per un suo progetto sonoro che in tre album e svariate collaborazioni andava a spaziare dallo spoken-word alla sperimentazione. Laswell come sempre è stato il collante di questa nuova entità. Proprio in quel momento insieme a Hayward e Frith stava registrando Funny Valentine, il secondo album dei Massacre, e gli era sembrato giusto, una volta contattato da Howard, portarsi dietro i collaudati compagni di avventura. Il risultato è stato di grande fascino, basti ascoltare questa splendida “Mingle”.
Visto che abbiamo nominato Charles Hayward, come non tornare indietro nel tempo fino al 1975, quando il suo incontro con Charles Bullen (chitarra, clarinetto, viola) e Gareth Williams (tastiere, basso, nastri) diede vita al progetto This Heat. I tre decisero di sviluppare il rock in opposition di alcune band di Canterbury portandolo verso la strada della sperimentazione, smontando e rimontando le tracce in studio giocando con i nastri. Il loro album autointitolato esce nel 1979, e colpisce subito per la ricerca formale di un gruppo che cerca l’unione di un certo progressive con l’elettronica, la classica contemporanea, il minimalismo. Una musica che pur mantenendo freddezza e distacco risulta stranamente empatica e con un’anima. Ascoltate le prime due tracce del disco “Testcard” e “Horizontal Hold” per entrare subito nelle atmosfere scure del gruppo. I tre album dei This Heat sono stati (e sono tuttora) manifesto e nave scuola per chi vuole provare ad unire alcuni dettami di rock e jazz all’elettronica e a l minimalismo.
Alle volte devo fare mea culpa… Ci sono artisti che sono stati di grande importanza nella storia del rock, e pur riconoscendone la valenza e avendoli citati in più di un’occasione, non li inserisco nelle mie scalette da tanto, troppo, tempo. Questo è sicuramente il caso di Brian Eno, innovatore, teorico, produttore. In una sola parola: genio. Dagli inizi come supervisore elettronico dei Roxy Music alla creazione della musica ambient. Passando per le collaborazioni con Robert Fripp e David Byrne e la produzione della trilogia berlinese di David Bowie. Il suo percorso, che è continuato con la compilazione della raccolta No New York, comprendente le band più famose della scena no-wave di NYC (tra cui i DNA di Arto Lindsay), continua fino ai giorni nostri e per raccontarlo tutto ci vorrebbe un’enciclopedia.
Allora andiamolo a trovare con uno dei suoi lavori più riusciti. Il suo primo capolavoro si chiama Taking Tiger Mountain (By Strategy) ed esce nel 1974. Il disco vede la collaborazione di Robert Wyatt e di Phil Manzanera. Il nostro è già un maestro dell’uso della consolle in studio, ed usa questa sue maestria per plasmare un suono che inserisce nervature etniche e sperimentali in una struttura pop consolidata, giocando in maniera irresistibile con il rock e l’avanguardia. “Third Uncle” è uno dei vertici di questa meraviglia, con il suo incedere martellante ed irresistibile.
Visto che lo abbiamo nominato prima, e soprattutto che insieme ad Eno ha dato alle stampe un capolavoro come My Life in the Bush of Ghosts, andiamo a ripercorrere le prime orme di David Byrne e dei suoi Talking Heads. David Byrne insieme alla sezione ritmica (che poi diventerà coppia nella vita) formata da Chris Frantz (batteria) e Tina Weymouth (basso), si incontrano alla Rhode Island School Of Design e dopo essersi trasferiti a NYC, fanno un rodaggio impgnativo sul difficile palco del CBGB’S. Stranamente la compostezza intellettuale della band, così poco punk, colpì a fondo facendo diventare Byrne e compagni alfieri del neonato movimento new wave. In realtà del punk rimane solo l’impianto scarno e una sorta di alienazione urbana.
Talking Heads: 77 è il loro album di esordio, dove Byrne mette in campo a modo suo tutte le sue suggestioni sonore, dal funk alla psichedelia, dai ritmi martellanti alla semplicità dell’impianto sonoro. Con le liriche che, nonostante l’apparente semplicità quasi frivola della musica, va a scavare nella profondità dell’animo umano. Sebbene il disco sia conosciuto per la trascinante “Psycho Killer” con il suo memorabile ritornello, il disco presenta moltissime altre meraviglie, tra cui la splendida ed ironica “The Book I Read” che apre la seconda facciata dell’album.
Una delle band pop rock più scintillanti del Regno Unito, gli XTC da Swindon, nella contea del Wiltshire. L’incontro nel pieno della maturità compositiva della coppia Andy Partridge e Colin Moulding con un mago della produzione e del suono pop rock in generale come Todd Rundgren. C’erano tutti i presupposti per un capolavoro assoluto, ed effettivamente sarà così ma… A sentire i diretti interessanti sembra che le session in studio siano state allucinanti, liti continue su come arrangiare i pezzi, incomprensioni e divergenze come se piovessero. Eppure quando si mette la puntina sui solchi di Skylarking, non c’è traccia di quello che deve essere accaduto nello studio di registrazione.
La classicità pop del gruppo raggiunge la perfezione formale con i riferimenti scintillanti ai maestri del suono anni ’60 come i Beach Boys. L’ottavo album in studio del gruppo britannico non è appannaggio esclusivo dei soliti Partridge e Moulding (con il primo a firmare 9 brani su 14), ma significativo è anche stato l’apporto del chitarrista Dave Gregory nella fase di arrangiamento. Ho voluto (a malincuore) deviare dal classico “Dear God”, brano stranamente escluso dalla scaletta definitiva del disco originale, per virare su un’egualmente splendida “Big Day”, uno dei 5 brani firmati da Moulding.
I Dirty Projectors di David Longstreth hanno sempre percorso la propria personale via verso un pop d’autore. Il folk pop viene declinato dal leader della band in maniera multiforme, ora direttamente, ora utilizzando schegge impazzite e schizofreniche tra jazz ed elettronica. Da poco è uscito il nuovo caleidoscopico ed elettrizzante album intitolato Lamp Lit Prose, ma io sono voluto andare a ritroso nel tempo per trovare un album che sei anni fa, mi aveva davvero entusiasmato. Swing Lo Magellan è stato davvero il culmine di una parabola artistica tra le più interessanti dell’ultimo decennio, un suono mai scontato, in continua mutazione.
Longstreth usa tutti i trucchi del mestiere, strumenti usati con maestria e precisione chirurgica, cori irresistibili e ritornelli che entrano in mente e non ne escono più. “Offspring Are Blank” è il brano che apre un album che rimane su un ipotetico podio di tutte le loro uscite.
Una curiosa sinergia tra musicisti ha portato alla creazione di una band chiamata semplicemente E. L’unione tra Thalia Zedek (Come, Uzi, Live Skull), Jason Sanford (Neptune), e Gavin McCarthy (Karate), ha prodotto già due album. I tre hanno saputo assemblare la forza esplosiva del suono industriale con la calma dei songwriters più esperti. I membri della band hanno suonato in band che hanno esplorato più campi della scena rock, dal noise dei Neptune al post rock dei Karate. Ognuno ha portato in dote le proprie esperienze, e il nome scelto significa che i tre componenti hanno lo stesso peso specifico all’interno della band, come dimostra la lunghezza uguale delle tre “stanghette” della lettera E. Certo, scegliere un nome così è un po’ una cattiveria, provate voi a trovarlo sui negozi online o su Spotify…
Tra sperimentazione e maturità espressiva, il trio ha sviluppato un suono che vuole essere tanto meccanico quanto emozionale e che loro stessi hanno descritto come “soul music for machines”. Il secondo lavoro si intitola Negative Work, e se possibile migliora ancora i meccanismi che sembravano già oliati nell’eponimo album di esordio. Ascoltiamo insieme “Hole In Nature” per capire cosa intendono.
A volte mi piacerebbe molto avere il dono di trasformare le emozioni in parole di senso compiuto. Double Negative, il nuovo album dei Low è un buco nero che inghiotte senza pietà. Detriti e schegge elettroniche che nascondono una bellezza indicibile. Incredibile pensare come Alan Sparhawk (chitarra e voce) e la sua consorte Mimi Parker (batteria e voce) abbiano esordito nel 1994 con un capolavoro come I Could Live In Hope e a distanza di 24 anni riescano ancora a sorprenderci. Il duo di Duluth si fa accompagnare dal bassista Steve Garrington (con loro da un decennio), per uno dei viaggi più coraggiosi che abbiano mai intrapreso. L’elettronica, da un po’ di tempo compagna del trio, stavolta muta il DNA della band, alterandolo senza possibilità di ritorno. Gocce di sangue, macerie fumanti di canzoni talmente celate sotto gli spasmi di feedback e la pioggia di detriti cibernetici che quando la voce dei nostri emerge senza filtri è come se una luce celestiale illuminasse all’improvviso la distesa funerea di Mordor. La triade iniziale “Quorum – Dancing And Blood – Fly” rivela la bellezza sublime di questo lavoro più di mille parole, soprattutto delle mie…
Lui ci manca, ci manca sempre molto. Sono già passati praticamente 15 anni da quel giorno tremendo in cui Elliott Smith ha deciso di porre fine alla sua esistenza terrena in un modo che ancora oggi non è stato mai del tutto chiarito. Nel 1994 Smith, non rispecchiandosi più nel suono rumoroso indie-punk-grunge dei suoi Heatmiser, ha deciso di imbracciare la chitarra acustica per permettere al suo animo e alle sue sensazioni di venire fuori in maniera più naturale. Dallo schietto e sincero folk cantautorale dell’esordio Roman Candle in cui gli accordi si succedevano con intensità e purezza sottolineando i testi malinconici e densi dei problemi quotidiani e del mal di vivere, era passato ad incidere dischi con fisionomia e arrangiamenti più corposi, ma la meraviglia e la semplicità dei suoi brani non hanno mai smesso di incantare. Either / Or è stato il suo terzo lavoro in studio, e “Ballad Of Big Nothing” è tuttora una delle sue cose più belle in assoluto. Elliott Smith ci ha lasciato tante meraviglie, scritte ed interpretate da un artista fragile e incompreso, la cui delicata e malinconica creatività ci manca ogni giorno di più.
A cavallo tra i ’90 e gli anni 2000, oltre a Elliott Smith, ci sono stati diversi songwriters che hanno saputo tracciare una linea importante e toccare le corde giuste dell’emozione. In particolare tre ragazzi tanto talentuosi quanto fragili psicologicamente sono riusciti ad emozionarmi in maniera importante, tre ragazzi che sono stati vittime della loro stessa fragilità interiore scegliendo la medesima strada per allontanarsi da questo mondo. Vic Chesnutt, Mark Linkous aka Sparklehorse e Jason Molina. Anche se quest’ultimo non ha proprio volontariamente lasciato questo piano dell’esistenza ma in qualche modo è come se lo avesse fatto lentamente ma inesorabilmente, aveva grandi problemi con l’alcool e purtroppo non aveva l’assicurazione sanitaria: questo negli Stati Uniti difficilmente perdona… Tornando a Chesnutt, nel 1983 fu vittima di un tremendo incidente stradale mentre guidava sotto effetto di alcool. Perse il controllo della vettura finendo in un canale, uscendone con gli arti inferiori paralizzati e rimanendo su una sedia a rotelle per il resto della sua vita.
Questo non impedì a Chesnutt di iniziare una carriera musicale che trovò una svolta con il trasferimento a Athens, Georgia, e l’interesse di Michael Stipe che produsse i suoi primi due lavori. North Star Deserter è il suo penultimo lavoro, uscito per la Constellation, e che vede la sinergia con i Silver Mt. Zion e con Guy Picciotto dei Fugazi. Quattro facciate dove si mescolano perfettamente il songwriting dolente di Chesnutt con le atmosfere cinematiche e tragiche del collettivo canadese. “Everything I Say” è solo una delle meraviglie di questo album di cui consiglio assolutamente l’ascolto. Una scrittura magistrale ed ipnotica, tormentata e affascinante. Sono passati 9 anni d quel tragico giorno, ma Vic Chesnutt non smette mai di mancarci.
Un grazie speciale va sempre a Franz Andreani per la nuova veste grafica attiva già dallo scorso anno. A cambiare non è solo la versione web2.0 del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Ci rivediamo tra due settimane con il terzo episodio che andrà ad esplorare il suono australiano di Rolling Blackouts Coastal Fever e Blank Realm in bilico tra il rock più elementare e grezzo, la psichedelia dei grandi spazi aperti, e brillanti intuizioni pop, la classicità a stelle e strisce di Big Star e Tom Petty, il post rock britannico targato Too Pure di Moonshake e Pram, due meraviglie italiane come Vonneumann e Ant Lion e molto altro.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. ROLLINS BAND: Liar da ‘Weight’ (1994 – Imago)
02. PROTOMARTYR: A Private Understanding da ‘Relatives In Descent’ (2017 – Domino)
03. KILLING JOKE: The Wait da ‘Killing Joke’ (1980 – Malicious Damage)
04. SHAME: Friction da ‘Songs Of Praise’ (2018 – Dead Oceans)
05. PERCY HOWARD, CHARLES HAYWARD, FRED FRITH, BILL LASWELL: Mingle da ‘Meridiem’ (1988 – Materiali Sonori)
06. THIS HEAT: Testcard / Horizontal Hold da ‘This Heat’ (1979 – Piano)
07. BRIAN ENO: Third Uncle da ‘Taking Tiger Mountain (By Strategy)’ (1974 – Island Records)
08. TALKING HEADS: The Book I Read da ‘Talking Heads: 77’ (1977 – Sire)
09. XTC: Big Day da ‘Skylarking’ (1986 – Virgin)
10. DIRTY PROJECTORS: Offspring Are Blank da ‘Swing Lo Magellan’ (2012 – Domino)
11. E: Hole In Nature da ‘Negative Work’ (2018 – Thrill Jockey)
12. LOW: Dancing And Blood / Fly da ‘Double Negative’ (2018 – Sub Pop)
13. ELLIOTT SMITH: Ballad Of Big Nothing da ‘Either / Or’ (1997 – Kill Rock Stars)
14. VIC CHESNUTT: Everything I Say da ‘North Star Deserter’ (2007 – Constellation)