Tornano le avventure in musica di Sounds & Grooves per l’inizio della 13° Stagione di RadioRock.to The Original
Ben 8 canzoni 8 su 14 all’interno del podcast sono state pubblicate nel 2018
Iniziare la 13° stagione di www.radiorock.to è per me ancora una volta un onore, un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Massimo Di Roma, Flavia Cardinali, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare il mio contributo dal 1991 al 2000. La Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni abbiamo cercato nel nostro piccolo di tenere accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata. Tutto questo e molto altro è www.radiorock.to The Original, e sono davvero orgoglioso di aprire la nuova stagione e di tirare la volata a questo gruppo di “matti” fuori dal tempo.
Questo è il 1° episodio di Sounds & Grooves, che (come detto ampiamente) è anche il primo mio #everydaypodcast per la 13 stagione di radiorock.to. Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi.
Ci sono ben 8 dischi usciti nel 2018 sui 14 presenti in scaletta. Dal gran ritorno degli Idles (i miei preferiti), all’indie interessante dei canadesi Jo Passed, dalla conferma dei Parquet Courts a quella dei Beach House. Dalla meraviglia a sei corde di Marisa Anderson al post rock moderno dei Tangents, l’interessante esordio di una performer di personalità come Mattiel e la conferma del grande Gouédé Oussou alla guida dei suoi Skeleton Wrecks. In più le suggestioni oniriche di A.R.Kane e degli Hood, il Paisley Underground dei sottovalutati Green On Red, i favolosi R.E.M. di Lifes Rich Pageant, i Tortoise di TNT e l’unione incredibile del maestro John Fahey con i post-rockers Cul De Sac.
Tutto questo in 90 minuti di podcast. Spero che mi perdonerete il “pistolotto” iniziale, ma era doveroso come il finale dedicato ad una amica di molti che ci ha lasciato da poco con un macigno nel cuore e un amore infinito per la musica. Ciao Luisa.
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con una delle band più interessanti uscite negli ultimi anni nella terra di Albione. Gli Idles nascono a Bristol nel 2010 con una spiccata attitudine punk e uno sguardo a 360 gradi verso l’evolversi della situazione sociale e politica in Gran Bretagna. Il cantante Joseph Talbot, i chitarristi Mark Bowen e Lee Kiernan, il bassista Adam Devonshire e il batterista Jon Beavis, assorbono mano mano rabbia ed urgenza facendola poi defluire lentamente, scandendo le uscite e preparandole con grande meticolosità. Dopo tre EP, il devastante esordio sulla lunga distanza fra post-punk e post-hardcore della formazione di Bristol si è materializzato nel 2017 e si intitola Brutalism. Un album che aveva colpito per la capacità del gruppo di Bristol di aggiornare il vocabolario post-punk facendo leva su una capacità empatica e comunicativa fuori dal comune.
Come sempre quando si ha un’aspettativa molto alta, si temeva un calo nel famoso complicato secondo album. Joy As An Act Of Resistance spazza via tutti i dubbi e le paure. E’ un lavoro uguale ma diverso, mantiene tutti i cromosomi che hanno legittimato il successo dell’esordio, aggiungendo (se possibile) ancora più carica drammatica. Sempre cinici, sempre sarcastici, forse con ancora più consapevolezza dell’enorme potenziale che hanno in mano. “Samaritans” è solo una delle frecce avvelenate che compongono il loro enorme sophomore album.
Gli Skeleton Wrecks nascono dall’unione tra il polistrumentista di Northampton Gouédé Oussou, musicista che si è sempre mosso nel sottobosco inglese dedito all’industrial-noise con band come Terminal Cheesecake, e la cantante e bassista Dora Jahr (ex Distorted Pony, grande band noise di Los Angeles). Nel loro album di esordio autointitolato del 2015 c’erano schitarrate epiche e psichedeliche dal vago sapore mediorentale, ricordi della trance californiana proposta da Bruce Licher (Savage Republic, Scenic) e compagnia negli anni ’80, naturalmente virate ai giorni nostri in chiave noise e altri perfetti affreschi noise-rock scritti ed eseguiti alla perfezione. Fortunatamente il buon Gouédé non cambia troppo strada, proponendo anche con il secondo Skeleton Wrecks II un compendio di noise e darkwave dalla trascinante percussività e brani tiratissimo come la splendida apertura chiamata “Wildfire”.
Jo Hirabayashi, cognome giapponese ma lineamenti caucasici, dopo essersi stabilito in Canada, e più precisamente a Montreal, ha deciso di formare una band insieme al suo amico e batterista Mac Lawrie. I Jo Passed nascono nel 2016, dopo il ritorno dei due nella natia Vancouver, accogliendo prima la polistrumentista Bella Bébé, e successivamente l’artista multimediale e bassista Megan-Magdalena Bourne. Il debutto della giovane band si intitola Their Prime, ed esce per un’etichetta importante come la Sub Pop. Il loro è un lavoro interessante, certo non fa a gridare al miracolo, ma l’alternative rock sghembo e velato di psichedelia dei canadesi di adozione farà sicuramente breccia in alcuni cuori. Le paure di iniziare una nuova vita e ricominciare da capo affrontate da Jo e Mac nel trasferimento da Vancouver a Montreal sono la base lirica di molti brani.
In realtà Jo appare un leader più ambizioso che pauroso, e il disco è un interessante saliscendi tra riff potenti e improvvisi cambi di ritmo. “Repair” è uno dei brani chiave dell’album, un rincorrersi nervoso di chitarra e batteria, riffoni tamarri di chitarra hard-rock, ed una distensione finale in un mare di sognante melassa pop. Se manterranno le promesse potrebbero davvero rivelarsi una band con cui fare i conti.
Il percorso dei Parquet Courts da Brooklyn, dopo lo splendido Human Performance del 2016, si arricchisce di un nuovo ed eccitante capitolo. Wide Awake! è un album dove si miscelano ancora una volta in maniera perfetta tutte le loro suggestioni e ispirazioni: indie rock, psichedelia e spruzzate post-punk. Il tutto condito da uno spiccato senso della melodia e da una capacità di scrittura che riescono ad elevare la band al di sopra della media, come dimostra la trascinante accelerazione punk della “Total Football” inserita in scaletta. Pochi hanno la loro personalità, pochi riescono a rendere così attuali generi che hanno avuto il loro apice nel passato. Il loro suono è spesso spigoloso ma capace di aprire squarci melodici di grande effetto, il tutto condito da gran un senso dell’ironia. L’album, prodotto da Danger Mouse, è il compimento di tutte le loro esperienze ed influenze, tra post punk e funk noise, pop e lo fi, tutto espresso con una lucidità ed una bravura disarmante.
Tucson, Arizona. E’ qui che muovono i primi passi i The Serfers, gruppo formato da Dan Stuart (chitarra e voce), Jack Waterson (basso), Van Christian (batteria) e Sean Nagore (organo). Dopo aver cambiato il nome in Green On Red ed essersi spostati a sud-est, in una Los Angeles culla del Paisley Underground, la band subisce i primi due cambi di formazione con Chris Cacavas all’organo e Alex MacNicol dietro ai tamburi. Il suono della band si inseriva in quella nascente tradizione che vedeva l’unione della tradizione classica rock-psichedelica con le scorie del punk. Il leader dei Dream Syndicate, Steve Wynn, li accoglie subito nella sua etichetta Down There, per poi portarli insieme alla sua band all’interno della più importante Slash Records di Chris Desjardins (The Flesh Eaters). Ed è proprio per la Slash che il quartetto esordisce nel 1983 con l’album Gravity Talks.
Il disco è uno dei più importanti dell’intera scena californiana degli anni ’80, un folk elettrico e psichedelico innestato di garage punk con il tratto distintivo dello splendido organo di Chris Cacavas. “Blue Parade” apre la seconda facciata dimostrando l’enorme talento di una band che con l’innesto del chitarrista Chuck Prophet si muoverà in ambiti più desertici.
Cosa si può dire degli R.E.M. che non sia già stato detto? Una carriera trentennale, quindici album in studio, tutti nessuno escluso (anche gli ultimi due nella fase di minore ispirazione) di grande coerenza ed onestà artistica. Michael Stipe e compagni hanno portato con classe, sensibilità ed enorme capacità di scrittura, l’indie rock nel mainstream, vendendo quasi 90 milioni di dischi. Lifes Rich Pageant è il loro quarto album in studio, penultimo con la I.R.S. prima di passare alla major Warner Bros. Se durante le registrazioni del precedente Fables Of The Reconstruction lo studio in Gran Bretagna e le tensioni interne avevano portato la band sull’orlo dello scioglimento, stavolta i quattro decidono di tornare in USA e di lavorare con Don Gehman, il produttore di John Mellencamp. Lo studio dello stesso Mellencamp, i Belmont Mall Studios di Bloomington nell’Indiana, è il luogo ideale per far scivolare via le tensioni del disco precedente e ritrovare le loro scintillanti armonie.
Il disco è energico, il sound corposo, Stipe è particolarmente ispirato. Se la musica è più diretta, anche i testi vanno nella direzione di un attivismo politico più accentuato. In questo senso è esplicativa “Cuyahoga”, fiume drammaticamente ricordato per essere stato teatro di una delle più inumane carneficine ai danni dei nativi americani. Una canzone che esprime nei testi una vibrante protesta verso l’America di ieri e di oggi, mentre la musica sembra non assecondare questa invettiva, sviluppandosi in maniera tranquilla e rilassata fino al trascinante ritornello. Lifes Rich Pageant sarà anche il primo disco d’oro per la premiata ditta Stipe, Mills, Buck, Berry.
Mattiel Brown è una illustratrice ed una designer, vive ad Atlanta ma è cresciuta in una fattoria rurale a Brooks, Georgia, dove la mamma gli faceva sentire la sua collezione di dischi. Sua madre era appassionata soprattutto di artisti folk e pop degli anni ’60: Donovan, Peter Paul and Mary, e Joan Baez. La passione per la musica è rimasta, come la voglia di cantare, soprattutto nel tragitto in macchina da Brooks ad Atlanta: Screamin’ Jay Hawkins, Bob Dylan, Marc Bolan, Sister Rosetta Tharpe, e Jack White tra i suoi idoli. La strada era segnata ed era solo questione di tempo per iniziare una carriera parallela, quella di cantante. La scintilla è stata l’incontro con gli InCrowd, un team di produttori ed autori di base proprio ad Atlanta.
Il punto in comune tra Mattiel e produttori è l’amore per la soul music, rivista, corretta, interpretata con passione in una fresca versione mischiata ad un pop rock di gran classe. Dodici brani che suonano freschi e nuovi, nonostante i riferimenti e i rimandi siano espliciti. “Just A Name” è solo una delle irresistibili canzoni che compongono questo splendido esordio autointitolato!
I Beach House sono tornati dopo aver pubblicato nel 2016 ben due album usciti a stretto giro di posta: Depression Cherry e Thank Your Lucky Stars. Lo scorso anno il duo aveva pubblicato una compilation di inediti intitolata B-Sides and Rarities., e stavolta tocca al nuovo lavoro, che come sempre esce per la Bella Union in Europa e per la Sub Pop in USA. Alla registrazione di 7 hanno collaborato Sonic Boom degli Spacemen 3 e James Barone, il batterista che da anni accompagna la coppia formata da Victoria Legrand e da Alex Scally in tour. Molti trovano stucchevole e ripetitivo il loro placido ed apparentemente immutabile dream pop. In realtà ho sempre trovato la loro levigata proposta estremamente affascinante. In questo nuovo album tentano di cambiare il contrasto del loro bianco e nero, avvalendosi di Peter “Sonic Boom” Kember dietro alla consolle, che gli dona creatività ed energia. Ascoltate la meravigliosa “Lose Your Smile” e verrete avvolti da un’aura di shoegaze sognante.
Cloud Corner è l’atteso esordio della chitarrista Marisa Anderson per la Thrill Jockey. Luoghi della mente, panorami minimalisti, tradizione prewar-folk. Sembra tutto così lontano dalla percezione che abbiamo della California, dove Marisa è nata nel 1971. Dopo quattro album dove ha saputo cambiare sempre leggermente pelle Marisa, unendo mano mano alla passione per il folk Appalachiano ed il blues, un talento ed un amore sconfinato per l’improvvisazione, il nuovo album è una perfetta summa di tutti gli stili che la Anderson ha saputo mirabilmente spalmare sulla sua discografia. In più, è stata capace di aggiungere nuove suggestioni che rendono le 10 tracce assolutamente uniche.
In passato la Anderson ha avuto il piacere di suonare con musicisti africani come i nigeriani Mdou Moctar e Kildjate Moussa Albadé (ex bassista di Bombino) apprendendo da loro i fraseggi tipici della musica Tuareg. Nuovi approcci dunque nella fase compositiva, ma anche una voglia di smentire una sua presunta predilezione per le atmosfere depresse. In questo solco colpisce positivamente il piglio country della title track. Stupisce la varietà di stili e l’abilità di Marisa Anderson di saper toccare l’anima con così pochi strumenti. Le sue composizioni sono capaci di emergere dalla nebbia in tutta la loro meraviglia. Tra la tradizione country-blues-folk e nuove suggestioni che si muovono tra gli Appalachi ed il popolo Tuareg, passando per il Messico e la Bolivia, la chitarrista è riuscita a creare una discografia in costante progressione, consegnandoci con Cloud Corner il suo lavoro più ispirato e commovente.
I Tortoise sono stati uno dei gruppi più importanti di quella scena vitale chiamata post-rock, che aveva le sua grandi direttrici in Chicago e Louisville. Nati proprio nella windy city dalle ceneri di grandi gruppi (Squirrel Bait, Bastro, Slint, Bitch Magnet), sono stati capaci di prendere varie suggestioni rock, elettroniche, dub, e farle confluire in un suono “altro” che comprendeva anche i benefici influssi delle due scene più interessanti e creative degli anni ’70, la scena di Canterbury da una parte ed il kraut-rock dall’altra. La band, dopo i primi tre esplosivi album, aveva iniziato a diradare l’esposizione discografica, forse per mascherare un’evidente calo creativo che aveva toccato il fondo con Beacons Of Ancestorship del 2009 e forse per permettere ai musicisti di espandere le loro esperienze soprattutto nel campo della scena improv ed alternative jazz.
TNT era il loro terzo lavoro, primo album che vedeva il cambio della guardia tra David Pajo e Jeff Parker. Grazie all’innesto di Parker viene smussata la componente elettronica per dare più spazio allo stile jazz del nuovo arrivato. “I Set My Face To The Hillside” ricorda a tratti con il suo andamento, alcune composizioni di Ennio Morricone per alcuni film spaghetti western, naturalmente cucinate in salsa post rock.
E se parliamo di post-rock, c’è un quintetto di stanza a Sidney, Australia che ha fatto uscire un album molto interessante. In realtà i Tortoise sono solo una delle influenze che hanno contribuito a creare il suono dei Tangents. Il primo nucleo della band si forma dall’incontro del chitarrista Shoeb Ahmad con il violoncellista Peter Hollo. La scintilla per creare qualcosa di nuovo è stato l’incontro con Ollie Bown, mago dell’elettronica al computer. Bown ha rielaborato le sessions dei due ed il risultato è stato talmente oltre le aspettative che è diventato il primo album della band, intitolato semplicemente I ed uscito nel 2013. Con l’innesto di Adrian Lim-Klumpes (piano, Rhodes, vibrafono e marimba) e del batterista e percussionista Evan Dorrian il mosaico si completa.
New Bodies è il loro quarto lavoro in studio, dove vengono fuori tutte le influenze del gruppo: dai Tortoise ai Can passando per i conterranei The Necks. C’è l’approccio jazz, l’interplay di improvvisazione, le suggestioni quasi breakbeat. Il suono è ricercato, contaminato, immaginifico, alla costante ricerca di plasmare nuovi mondi (come i pianeti della suggestiva copertina) e nuovi suoni che possano andare semplicemente “oltre”. “Terracotta” è una delle tracce più suggestive, con l’incedere jazz che diventa incessante a metà del brano prima di distendersi in un oceano di piano e contrabbasso. Il brano è stato anche remixato da Jim O’Rourke, stabilendo così un ulteriore punto di contatto con la Chicago post-rock degli anni ’90.
La riscoperta grazie alle molte ristampe che si sono succedute dopo l’avvento del CD del folk blues metafisico di John Fahey ha davvero marchiato a fuoco gli anni ’90. Anche se, da misantropo quale è sempre stato, probabilmente l’etichetta di “padre del post-rock” non gli è mai piaciuta considerando la gran parte dei musicisti degli anni ’90 non alla sua altezza. In ogni caso Fahey dovrebbe ringraziare quei musicisti che lo hanno riportato in auge, e soprattutto i Bostoniani Cul De Sac con cui ha addirittura inciso un album dalla preparazione laboriosa e non affatto semplice proprio per il carattere del chitarrista. I Cul De Sac sono stati forse il miglior gruppo dell’era post-rock a non provenire dall’asse Chicago-Louisville. Il loro rock esclusivamente strumentale, il suono pieno di tensione ritmica, con le partiture chitarristiche tra psichedelia, folk e suggestioni mediorentali di Glenn Jones, e i fremiti dissonanti e kraut del synth di Robin Amos, ha creato una via avventurosa e mai virtuosistica di interpretazione del post-rock.
La loro miscela diventa perfetta nel loro terzo lavoro intitolato “China Gate” e un anno dopo viene dato alle stampe proprio un album inciso insieme al loro idolo John Fahey intitolato The Ephiphany of Glenn Jones. Il leader dei Bostoniani, il chitarrista Glenn Jones, nelle note di copertina va a svelare prima la storia delle prime lettere e dei primi incontri con Fahey, poi le frustrazioni dei primi momenti insieme in sala di incisione, visto il carattere non propriamente docile del maestro del folk blues metafisico. In ogni caso il risultato è spettacolare, sia nei brani originali come la splendida “The New Red Pony”, sia nelle riletture. Il loro blues oscuro, ancora più incupito dal synth, sferzato da tribali ricami percussivi sa diventare pura magia. Curioso pensare che anche il leader dei Cul De Sac ha sempre rifiutato di accostare il suo gruppo all’etichetta post-rock. Non è il primo e non sarà l’ultimo.
Quasi tutti ricorderanno un tormentone che arrivò in vetta alle classifiche nel 1987, la canzone era “Pump Out The Volume” e gli autori/esecutori erano nascosti dietro il nome M|A|R|R|S per un progetto voluto dal deus ex machina della 4AD, Ivo Watts-Russell. I M|A|R|R|S erano due polistrumentisti provenienti dalla zona est di Londra, Alex Ayuli e Rudi Tambala, insieme ad alcuni membri dei compagni di etichetta Colourbox. Ayuli e Tambala avevano scelto un nome diverso per il loro gruppo, A.R. Kane, ed il loro suono fu propedeutico per una certa rivoluzione in Gran Bretagna che solo anni più tardi trovò la sua definizione in post rock.
Laddove Kevin Shields e i suoi My Bloody Valentine trovavano la strada della catarsi e dell’estasi nei muri di chitarre creando densità sonora, i due londinesi la trovavano nell’equilibrio delle varie forze messe in campo: dub, strumentazione rock, elettronica, pop, minimalismo. 69 esce nel 1988, trovando consensi solo poco più avanti nel tempo, ma il limbo celestiale di “Sperm Whale Trip Over” non ha davvero tempo ne spazio.
Chiudiamo il podcast rimanendo in Inghilterra e andando ancora a rovistare nello scrigno segreto del post-rock britannico. Gli Hood vengono fondati a Wetherby, cittadina non distante da Leeds, dai due fratelli Richard e Chris Adams che cercano di mediare i movimenti che in quel momento andavano per la maggiore in Inghilterra (shoegaze e britpop) con l’indie rock statunitense. Dopo alcuni 7″ e tre lavori sulla lunga distanza abbastanza acerbi e confusi, la band trova finalmente la quadratura del cerchio collaborando con Matt Elliott (all’epoca con i Third Eye Foundation) e pubblicando Rustic Houses Forlorn Valleys. E se già quest’album aveva rivelato l’alba di un mondo dimenticato, un orizzonte immaginario dove abbandonarsi ai sogni, il seguente The Cycle Of Days And Seasons dilata il suono esprimendo come il suo predecessore il meglio del post-rock Made in England. Le pause ed i silenzi riescono a vivisezionare l’anima, per i crescendo emozionali, i field recordings, i brevi giri chitarristici. Gli Hood hanno come paesaggio immaginario l’isolazionismo della campagna, con i rintocchi ovattati e la ricchezza di suoni che vanno a dipingere una serie di spettrali paesaggi rurali. “September Brings The Autumn Dawn” esprime perfettamente in musica l’estate che si stempera nell’autunno.
Un grazie speciale va sempre a Franz Andreani per la nuova veste grafica attiva già dallo scorso anno. A cambiare non è solo la versione web2.0 del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Ci rivediamo tra due settimane con il secondo episodio che andrà ad esplorare l’immenso e scuro nuovo album dei Low, la capacità degli Shame di esportare da Brixton riff e ritornelli anthemici, il disco della maturità dei Protomartyr uscito lo scorso anno, due songwriters dal talento enorme che non smettono a distanza di anni dalla loro prematura e tragica scomparsa di spargere emozioni come Elliott Smith e Vic Chesnutt, e molto altro.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. IDLES: Samaritans da ‘Joy As An Act Of Resistance’ (2018 – Partisan Records)
02. SKELETON WRECKS: Wildfire da ‘Skeleton Wrecks II’ (2018 – Gibbon Envy Recordings)
03. JO PASSED: Repair da ‘Their Prime’ (2018 – Sub Pop)
04. PARQUET COURTS: Total Football da ‘Wide Awake!’ (2018 – Rough Trade)
05. GREEN ON RED: Blue Parade da ‘Gravity Talks’ (1983 – Slash)
06. R.E.M.: Cuyahoga da ‘Lifes Rich Pageant’ (1986 – I.R.S. Records)
07. MATTIEL: Just A Name da ‘Mattiel’ (2018 – Heavenly Recordings)
08. BEACH HOUSE: Lose Your Smile da ‘7’ (2018 – Bella Union)
09. MARISA ANDERSON: Cloud Corner da ‘Cloud Corner’ (2018 – Thrill Jockey)
10. TORTOISE: I Set My Face To The Hillside da ‘TNT’ (1998 – Thrill Jockey)
11. TANGENTS: Terracotta da ‘New Bodies’ (2018 – Temporary Residence)
12. JOHN FAHEY & CUL DE SAC: The New Red Pony da ‘The Epiphany Of Glenn Jones’ (1997 – Thirsty Ear)
13. A.R. KANE: Spermwhale Trip Over da ‘69’ (1988 – Rough Trade)
14. HOOD: September Brings The Autumn Dawn da ‘The Cycle Of Days And Seasons’ (1999 – Domino)