Tornano, come ogni 15 giorni le nuove avventure in musica di Sounds & Grooves, come sempre sulle onde sonore di RadioRock.to The Original.
Con voi in questa ora e venti di musica “Fuori dal Bar” ci saranno: la riscoperta dello shoegaze psichedelico degli Swervedriver, la meraviglia di Mark Eitzel e dei suoi American Music Club, l’evoluzione del Paisley portata a compimento dai Thin White Rope, il mestiere di Neneh Cherry, la lentezza dei Codeine ed il superamento dei vincoli del rock da parte degli Slint, il post punk frenetico degli MX-80 Sound, il meraviglioso songwriting di Entrance, la follia dei Mr.Bungle e l’americana revisited dei Wilco, la sghemba meraviglia dei Fell Runner, il sontuoso mestiere di Fred Frith – Charles Hayward – Percy Howard – Bill Laswell, e la meraviglia tra post-rock e musica tradizionale coreana dei Jambinai. Prima di partire con questo viaggio in musica pubblicato come sempre sul sito della migliore podradio italiana www.radiorock.to, potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo con una band che non ha avuto il riscontro di pubblico e media che avrebbe meritato. Sto parlando degli Swervedriver, band di Oxford che all’inizio degli anni ’90, quando ancora non era nata la moda del brit pop, aveva creato una propria interessantissima variante dello shoegaze infarcita di sferzate psichedeliche. Insieme a band come My Bloody Valentine, Slowdive e Ride formavano una specie di quadrilatero fortificato dello shoegaze britannico, potente e creativo. Questa contaminazione del genere con un istinto proto-punk e psichedelico era arrivata a compimento con il loro secondo album, pubblicato dalla storica Creation Records di Alan McGee nel 1993 ed intitolato Mezcal Head. “Last Train To Satansville” è un lungo e sferragliante viaggio sulle rotaie di un gruppo che avrebbe meritato miglior sorte. La band dopo essersi sciolta nel 1999 si è recentemente riformata pubblicando un nuovo album (I Wasn’t Born to Lose You) nel 2015.
Andiamo dall’altra parte dell’oceano. Una band di Bloomington, Indiana, si trasferisce a San Francisco venendo a contatto con un’istituzione della scena sperimentale e underground: i The Residents. Nonostante il mezzo passo falso del debutto Hard Attack (che nel 1977 aveva venduto sì e no un centinaio di copie costringendo la Island a licenziarli), i MX-80 Sound vennero accolti dalla Ralph Records di proprietà degli stessi Residents andando a formare con i signori dell’occulto, i Chrome e i Tuxedomoon il cosiddetto “quadrato di San Francisco”, formato dai quattro gruppi più importanti della scena musicale locale dell’epoca. Bruce Anderson e i suoi compagni d’avventura licenziarono nel 1980 questo Out Of Tunnel, Disco cult, un vorticoso art-punk graffiato da intuizioni rumoriste e dalle scorribande del sassofono suonato dal secondo chitarrista Rich Stim. In “Follow That Car” vengono fuori le influenze del gruppo (Pere Ubu su tutti), ma filtrate da una sensibilità e capacità di scrittura che la rendono una traccia inarrestabile, tumultuosa e entusiasmante. Un disco che sarà importante per molto alternative rock e hardcore americano negli anni a venire.
E a proposito di band che fanno dell’eclettica varietà di stili il proprio punto di forza. I Mr.Bungle sono stati la prima band di Mike Patton, prima di essere messi (momentaneamente) da parte quando il cantante è entrato a far parte dei Faith No More. Nel 1991 vengono messi sotto contratto dalla Warner Bros. e la band può finalmente riversare su disco tutta la propria feroce e dissacrante creatività. Patton insieme al chitarrista Trey Spruance, il bassista Trevor Dunn, il batterista Danny Heifetz, e Clinton “Bär” McKinnon al sassofono e al vibrafono. Primo di una lunga serie di progetti creati da Patton, l’album autointitolato di esordio dei Mr.Bungle era una dissacrante parata di generi, funk, metal, ska, free jazz, il tutto mescolato e prodotto da John Zorn. Un tour de force musicale che trova uno dei suoi apici in questa “The Girls Of Porn” che inizia con dei caratteristici mugolii prima di lanciarsi tra riff funk e il solito caleidoscopio schizofrenico di stili.
Yankee Hotel Foxtrot non è stato solo semplicemente il quarto album in studio dei Wilco, ma il vero punto di svolta della loro carriera. E dire che la gestazione era stata a dir poco complessa. Già pronto nel 2001, vede la data di uscita rimandata a causa del rifiuto della Reprise, loro etichetta dell’epoca, di distribuirlo in quanto poco commerciale. La band non si perde d’animo e prima di rompere il contratto per passare alla Nonesuch (che lo pubblicherà l’anno dopo) decide di divulgare l’album gratuitamente sul proprio sito internet. Paradossalmente rimane tutt’ora l’album più venduto dei Wilco, con oltre 500.000 copie nei soli Stati Uniti, ed è l’ultimo inciso con il multi-strumentista Jay Bennett (morirà nel 2009 per un’overdose accidentale di ansiolitici), ed il primo con Glenn Kotche dietro ai tamburi. L’album è importante anche per la produzione di Jim O’Rourke, e per l’inserimento nel corpo della tradizione del folk/rock americano, di elementi di “disturbo” come rumori digitali e arrangiamenti sghembi e dissonanti che rimarranno come caratteristica della band di americana più importante dell’ultimo ventennio. “I Am Trying To Break Your Heart” è la prima traccia e la perfetta dimostrazione del cambiamento importante della band formata dall’ex Uncle Tupelo Jeff Tweedy.
Nel 2012 quattro giovani musicisti incrociano le proprie strade nella prestigiosa CalArts (California Institute of the Arts) seguendo i programmi musicali di jazz e musica africana e mettendo a frutto i loro talenti ed istinti musicali sia individualmente che come quartetto. Steven Van Betten (chitarra e voce), Gregory Uhlmann (chitarra e voce), Patrick Kelly (basso) e Tim Carr (batteria e voce) crescono quindi in un ambiente di grande creatività e libertà espressiva formando i Fell Runner. Il loro album di esordio è arrivato come un lampo proprio mentre stavo compilando la classifica del 2015, sconvolgendola letteralmente. Il disco (uscito nella sola versione in CD per la piccola etichetta Orenda Records e acquistabile esclusivamente online qui) si apre con “Song Of The Sun”, una canzone apparentemente semplice e melodica, ma che, ad un ascolto più attento, riflette l’abilità del quartetto e spezzare il ritmo per poi ricomporlo, mentre le frasi chitarristiche sono arabeschi nervosi e frammentati di grande effetto. La complessità ritmica e compositiva di questo e di molti altri brani, fanno effettivamente ricordare, in maniera semplificata ed smussata, quanto fatto dal 1997 al 2000 dagli Storm&Stress. Il loro essere tanto lineari quanto magicamente sghembi fanno pensare proprio alla svolta sonora dei Wilco descritta in precedenza.
La lunga e affannosa ricerca di un’identità di songwriter capace di scrivere canzoni perfette da parte di Guy Blakeslee sembra davvero essere arrivata a compimento. La sua inquietudine lo ha portato ad incidere anche un paio di album con il suo vero nome, una sorta di sghembo indie rock cantautorale con il quale però non è mai riuscito ad incidere davvero e ad innalzarsi sopra ad una stiracchiata sufficienza. Cosa sia successo nel frattempo non lo sapremo mai. Se non tutto, molto sembra essere cambiato dopo un decennio durante il quale la sigla Entrance è rimasta ferma ai box. Nei poco più di 40 minuti del suo nuovo album Book Of Changes c’è la vera rinascita di un artista che, inoltrandosi nella profondità dell’anima, riesce a dimostrare prima a se stesso e poi agli altri di essere un vero, grande songwriter. L’artista del Maryland snocciola un parlare d’amore scevro di banalità e di faciloneria. Un’urgenza emotiva che fa trovare spazio anche all’amore non corrisposto, come quello per “Molly”, che non riesce a trovare un suo equilibrio perché si innamora sempre così facilmente. Un amore cantato con un ispirato vibrato su un tappeto di acustica psichedelia ai limiti del flamenco, i cui arrangiamenti ricordano da vicino i mai dimenticati Love di Arthur Lee. Book Of Changes è un disco intimo dall’equilibrio agrodolce e travolgente, un gioiello di scrittura solido e raffinato.
Non mi aspettavo davvero un ritorno discografico così importante da parte di Mark Eitzel. L’ex leader degli American Music Club, aiutato dall’ex Suede Bernard Butler (che oltre a produrre e registrare ha anche suonato e arrangiato basso, chitarra e batteria), ha dato alle stampe questo Hey Mr Ferryman che si rivela uno scrigno pieno di incredibili e preziose gemme. Splendide melodie, pezzi estremamente trascinanti ed emozionanti, come la fantastica ballata in punta di acustica chiamata “Nothing And Everything”. Un ritrovamento inaspettato, un autore che andrebbe riscoperto per i suoi grandi meriti di interprete e di scrittore. Encomio a parte andrebbe fatto per le liriche, sempre argute, ispirate e estremamente a fuoco, con una dedica al compianto Jason Molina.
Andiamo indietro nella carriera di Mark Eitzel andando proprio a ripescare il secondo album degli American Music Club. Engine viene pubblicato nel novembre del 1987 e mostra ancora una volta l’inquietudine del suo leader, un poeta i cui versi ci conducono in un viaggio interiore fatto di tormenti, di piccole scoperte, di letti disfatti, di grandi sconfitte e piccole vittorie. Un universo musicale invece in un suono che parte da una solida impostazione folk-rock, che grazie all’innesto del chitarrista Tom Mallon riesce ad assecondare al meglio le visioni create dal malessere esistenziale di Eitzel, sia nella ballate più psichedeliche sia nei brani più tirati come la splendida “Outside This Bar”.
Una straordinaria sinergia ha portato nel 1998 quattro straordinari musicisti ad unire le proprie forze nei Orange Music Sound Studios di West Orange, New Jersey. Meridiem è un album prodotto da Giampiero Bigazzi per l’etichetta italiana Materiali Sonori, che vede le personalità del cantante Percy Howard, del batterista Charles Hayward (This Heat, Gong, About Group e molti altri), il chitarrista Fred Frith (Henry Cow, Material, Massacre, Naked City, John Zorn e un’infinità di altri progetti), e il bassista Bill Laswell (Golden Palominos, Painkiller, Material Massacre e anche per lui una serie infinita di album e gruppi). Da questo album pervaso da un fascino oscuro e intrigante Hayward prese il nome per un suo progetto sonoro che in tre album e svariate collaborazioni andava a spaziare dallo spoken-word alla sperimentazione. Laswell come sempre è stato il collante di questa nuova entità. Proprio in quel momento insieme a Hayward e Frith stava registrando Funny Valentine, il secondo album dei Massacre, e gli era sembrato giusto, una volta contattato da Howard, portarsi dietro i collaudati compagni di avventura. Il risultato è stato di grande fascino, basti ascoltare questa splendida “Mingle”.
Se il Paisley Underground è stato un importante movimento nato all’inizio degli anni ’80 sulla costa Ovest degli Stati Uniti caratterizzato da una riscoperta e dalla attualizzazione del suono psichedelico, i Thin White Rope capitanati dal cantante/chitarrista Guy Kyser e dal chitarrista Roger Kunkel, ne hanno espresso una originale variante che si discostava dai gruppi dello stesso periodo ed accomunati all’interno della stessa scena. I due leader, irrequieti già nei continui cambiamenti di sezione ritmica, hanno sempre inseguito una visione personale, dalle liriche introspettive, dagli incroci chitarristici dal grande impatto, dalla polverosa identità desertica. Il loro esordio discografico risale al 1985 e si intitola Exploring The Axis, che mette subito in chiaro la visione di Kyser e compagni, la solitudine dell’individuo in grandi spazi aperti, filosofia sviluppata subito dalla splendida cavalcata impazzita di “Down In The Desert”.
Siamo all’alba degli anni ’90, quando tre musicisti John Engle (chitarra), Stephen Immerwhar (Basso e voce), e Chris Brokaw (batteria) ribaltano completamente l’estetica sonora del momento, andando a rallentare fino allo sfinimento i ritmi quando la tendenza, che poi porterà alla nascita del grunge, era di accentuarli rifacendosi all’estetica punk. Dalla musica dei Codeine si è coniato il termine slowcore, per indicare questo modo lento, dilatato ed esaperato di concepire la musica. Due album ed un EP di gran fascino prima di chiudere i battenti e lasciare la propria eredità ai posteri. La splendida etichetta Numero Group ha nel 2013 fortunatamente ristampato i tre album della band, aggiungendo al catalogo un prezioso documento live chiamato What About The Lonely? che vede Engle e Immerwhar affiancati dal nuovo batterista Doug Scharin (poi nei June of 44) esibirsi sul palco del Lounge Ax di Chicago il 15 ottobre del 1992, accompagnati in un paio di brani da David Grubbs. Malinconia, incomunicabilità, espresse da una lentezza celebrale ed emotiva, come in questa “Loss Leader” tratta dal loro ultimo album in studio The White Birch.
«Sfortunatamente ‘Spiderland’ è il canto del cigno degli Slint, che come tanti gruppi non hanno saputo resistere alle pressioni interne tipiche della vita di ogni band. Ma è un disco fantastico, che chiunque sappia ancora farsi coinvolgere dalla musica rock non dovrebbe perdere. Tra dieci anni sarà una pietra miliare e bisognerà fare a botte per comprarne una copia. Battete tutti sul tempo»
Così scriveva profeticamente Steve Albini sul Melody Maker (il più antico magazine musicale del mondo, che dal 2000 in poi si è unita con il NME), ed aveva perfettamente ragione. Spiderland degli Slint esce sottotraccia nel 1991, e sarà presto travolto dall’onda in piena del grunge, ma il tempo fortunatamente saprà essere galantuomo, e l’album resterà sempre lì, a galla come i componenti del gruppo nella famosa foto di copertina scattata da Will “Bonnie Prince Billy” Oldham. Spiderland saprà essere a suo modo estremamente influente nei suoni a venire, per il suo modo di scardinare tutti i dogmi del rock così come era conosciuto fino a quel momento: dall’abbattimento della strofa-ritornello al cantato recitativo privo di emozione. I timbri armonici della chitarra di David Pajo, il contrappunto dell’altra chitarra di Brian McMahan (ex Squirrel Bait), la batteria ottundente e matematica di Britt Walford, l’ipnotico basso di Todd Brashear e la voce dello stesso McMahan a cucire il tutto, ora recitativa, ora isterica. Ascoltate “Washer” per essere trasportati all’interno del vortice del suono che sarà di fondamentale importanza per il rock degli anni ’90.
Parliamo sempre di post rock, ma lo aggiorniamo ai giorni nostri con una variante che rende tutto molto affacinante. i Jambinai vengono da Seoul, Corea del Sud, ed il loro approccio visionario li porta ad affiancare strumenti della tradizione coreana alla tradizionale struttura rock (chitarra, batteria). Ecco che Kim Bo-Mi, suona una specie di violino chimatao haegeum, Lee Il-Woo, divide il proprio lavoro tra chitarra e piri, un flauto fatto di bambù e Sim Eun-Yong si destreggia alla grande con un altro curioso lungo strumento formato da 11 corde chiamato geomungo. Accompagnati da una sezione ritmica formata da altri due musicisti coreani, la band ha pubblicato lo scorso anno il suo secondo album in studio A Hermitage, pubblicato dalla Bella Union. Il risultato è di grande fascino, le due strumentazioni collidono andando a creare silenzi e rumori, ad unire tradizione coreana e post rock in un flusso emozionale come dimostra la splendida ed evocativa“For Everything That You Lost”.
Chiudiamo il podcast con un’artista di cui abbiamo parlato in altre occasioni, quando giovanissima militava nei Rip Rig & Panic, band del marito Bruce Smith, cui prestava spesso e volentieri la sua splendida voce. Nata come Neneh Mariann Karlsson ha utilizzato il cognome del padre adottivo, il celebre trombettista jazz Don Cherry. Dopo l’esperienza con la celebre band, Neneh Cherry prova con successo l’avventura solista negli anni ’90 con due buoni lavori come Homebrew e Man. raggiungendo il successo nel 1994 con “7 Seconds”, duetto con il senegalese Youssou N’Dour. Ancora un decennio di silenzio prima di formare una nuova band chiamata CirKus con Burt Ford (soprannome dell’attuale marito Cameron McVey). Molte collaborazioni, prima di tornare ad incidere insieme al gruppo avant-jazz The Thing un album di cover intitolato The Cherry Thing, in cui esplorava avidamente le sue radici. Il suo primo album solista dopo 18 anni è uscito nel 2014 e si intitola Blank Project, realizzato con la complicità di un genio dell’elettronica come l’inglese Kieran Hebden aka Four Tet. Un disco dove le atmosfere e i ritmi tribali si sposano perfettamente con la splendida voce di Neneh Cherry come dimostra la “Naked” che chiude il podcast.
E anche per stavolta è tutto. Nel prossimo podcast che sarà online venerdi 30 giugno andremo a riascoltare le meravigliose storie di Laura Nyro, ad ascoltare il fingerpicking di Ryley Walker per poi tuffarci nel passato del suo modello John Martyn e raccontare molte altre storie. Tra l’altro non perdetevi lunedi 26 giugno il primo episodio della Rock ‘N’ Roll Time Machine, dove riscopriremo al partire dal 1967 l’intera epopea del Rock!
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Vi do quindi appuntamento a tra due settimane, con un nuovo podcast da scaricare e nuove storie da raccontare, ma non mancate di tornare ogni giorno su RadioRock.to The Original. Troverete un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod. Siamo anche quasi in dirittura di arrivo per quanto riguarda l’atteso restyling del sito, e per questo (e molto altro) un grazie speciale va a Franz Andreani, che ci parla dei cambiamenti della nostra pod-radio e della radio in generale nel suo articolo per il nostro blog. Tutte le novità le trovate aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. SWERVEDRIVER: Last Train To Satansville da ‘Mezcal Head’ (Creation Records – 1993)
02. MX-80 SOUND: Follow That Car da ‘Out Of The Tunnel’ (Ralph Records – 1980)
03. MR. BUNGLE: The Girls Of Porn da ‘Mr. Bungle’ (Warner Bros. Records – 1991)
04. WILCO: I Am Trying To Break Your Heart da ‘Yankee Hotel Foxtrot’ (Nonesuch – 2002)
05. FELL RUNNER: Song Of The Sun da ‘Fell Runner’ (Orenda Records – 2015)
06. ENTRANCE: Molly da ‘Book Of Changes’ (Thrill Jockey – 2017)
07. MARK EITZEL: Nothing And Everything da ‘Hey Mr Ferryman’ (Merge Records – 2017)
08. AMERICAN MUSIC CLUB: Outside This Bar da ‘Engine’ (Zippo Records – 1987)
09. P. HOWARD – C. HAYWARD – F. FRITH – B. LASWELL: Mingle da ‘Meridiem’ (Materiali Sonori – 1998)
10. THIN WHITE ROPE: Down In The Desert da ‘Exploring The Axis’ (Frontier Records – 1985)
11. CODEINE: Loss Leader da ‘What About The Lonely?’ (Numero Group – 2013)
12. SLINT: Washer da ‘Spiderland’ (Touch And Go – 1991)
13. JAMBINAI: For Everything That You Lost da ‘A Hermitage’ (Bella Union – 2016)
14. NENEH CHERRY: Naked da ‘Blank Project’ (Smalltown Supersound – 2014)