Il nuovo podcast inizia con I viaggi psichedelici di Robert Hampson e dei suoi LOOP. Tre album al loro attivo dal 1987 al 1990 prima della reunion e della conseguente pubblicazione dell’EP Array 1 proprio nel 2015 che si sta per chiudere. La coesistenza di rumore e melodia, la ritmica pesante, la circolarità psichedelica li hanno resi assolutamente imprescindibili, come dimostra questa splendida The Nail Will Burn, tratta dal terzo album in studio A Gilded Eternity del 1990. Canzone che colpisce per pesantezza ed impatto e che proprio quando sempra che stia per esplodere, ecco il diabolico Hampson azionare uno scambio nascosto tra i binari rimandando il treno in corsa sulle medesime coordinate di apertura. Dopo l’esperienza Loop, Hampson cambiò strada con il meraviglioso isolazionismo dei Main, ma quella è un’altra storia, forse più adatta alla rubrica Droni e Bordoni. Il 2015 è stato l’anno di molte reunion, come quella degli stessi Loop, del Pop Group o dei Rocket From The Tombs, o di nuovi album di vecchi gruppi che in realtà non si sono mai sciolti come The Fall o Wire. Il carismatico cantante/bassista John Robb formò i suoi MEMBRANES a Blackpool nel 1977, in piena epoca punk, pubblicando poi sei album dal 1983 al 1989 all’insegna di un post-punk spigoloso ed energico. Robb si fece poi un nome come ottimo giornalista musicale, e i Membranes ebbero un notevole seguito come band di culto. John Peel fu tra i loro fan più accaniti, e Steve Albini, My Bloody Valentine e Mercury Rev tra gli altri, hanno spesso citato la band come fonte di ispirazione. Sei anni fa Robb ha rimesso insieme il gruppo, che arriva nel 2015 alla pubblicazione dell’atteso ritorno dopo ben 26 anni di silenzio. Dark Matter/Dark Energy (leggi la recensione) mostra un Robb in forma spettacolare, come se non fossero passati tutti questi anni, ed i Membranes riescono nell’impresa di attualizzare il loro sound, destreggiandosi con grande abilità tra pesantezze noise, acidi post-punk (ascoltate la trascinante Do The Supernova), numeri wave-funk-psichedelici, chincaglieria dub e strampalate pseudo ballate spaziali come questa Dark Matter. Non ho mai capito del tutto l’inclusione degli AFGHAN WHIGS nel gran calderone del grunge. Certo, il periodo d’oro è il medesimo ma le coordinate sia musicali che geografiche (Cincinnati dista da Seattle più di 3000 km!) sono estremamente distanti. In fondo anche loro sono l’ennesimo gruppo riformatosi dopo un lungo silenzio, anche se il loro ritorno dopo le buone prove offerte da Greg Dulli sia con i suoi The Twilight Singers, sia con il progetto The Gutter Twins condiviso con Mark Lanegan, era stato, almeno per me, assai deludente. Basti leggere la mia recensione dell’atteso comeback, il non entusiasmante Do To The Beast che non soddisfa le alte aspettative. Ma torniamo indietro nel tempo fino al 1993, epoca in cui il gruppo era davvero all’apice della forma, dove Greg Dulli faceva ardere di passione con il suo rock robusto venato di soul. Gentlemen insieme al precedente Congregation, sono stati gli apici della loro produzione, e la title track sta lì a dimostrare quanto focosa, passionale ed irresistibile fosse la loro proposta. Gli SKETELON WRECKS nascono dall’unione tra il polistrumentista di Northampton Gouédé Oussou (musicista che si è sempre mosso nel sottobosco inglese dedito all’industrial-noise) e la cantante e bassista Dora Jahr (ex Distorted Pony, band noise californiana con all’attivo un paio di album tra il 92 ed il 94 e recentemente riformata). Le schitarrate epiche e psichedeliche dal vago sapore mediorentale di Dunedin Star ricordano vagamente la trance californiana proposta da Bruce Licher (Savage Republic, Scenic) e compagnia negli anni ’80, naturalmente virate ai giorni nostri in chiave noise. Anche le altre tracce dell’album sono perfetti affreschi noise-rock scritti ed eseguiti alla perfezione, e se il brano vi ha colpito, il mio invito è di andare sul sito del gentilissimo Gouédé, e di richiedere il CD online visto che è limitato a sole 50 copie. Sulle meraviglie che nel lontano 1968 riuscirono a mettere in musica Joseph Byrd e compagnia, tra i primi a unire elettronica sperimentale e rock, ho già abbondantemente argomentato in fase di rewind. Vi basti sapere che la summa del pensiero Byrdiano che chude l’album autointitolato dei THE UNITED STATES OF AMERICA si chiama The American Way Of Love: sette minuti pirotecnici dove convivono gli ottoni da banda cittadina, la psichedelia, le diavolerie elettroniche, la sezione ritmica jazz, le voci di Byrd e della sua musa Dorothy Moskowitz, e che riesce a sfumare in una nuvola da mago di Oz, tanto plateale quanto riuscita, tanto da chiedersi se tanto ben di Dio è stato reale o semplicemente un sogno diurno. I ROCKET FROM THE TOMBS si formarono a Cleveland nel 1974 e non riuscirono ad incidere nulla, ma dal loro scioglimento nacquero due formazioni fondamentali come Pere Ubu e Dead Boys. Una decina d’anni fa David Thomas ha deciso di riportare in vita la sua vecchia creatura insieme a Eugene “Cheetah Chrome” O’Connor (chitarra), Craig Bell (basso), Richard Lloyd (chitarrista e fondatore dei Television) al posto del compianto Peter Laughner (fondatore dei RFTT e dei Pere Ubu, scomparso nel 1977 a soli 24 anni), e Steve Mehlman dei Pere Ubu al posto del batterista Johnny “Blitz” Madansky. Il quarto album del gruppo è uscito da poco e si intitola Black Record. Della nuova formazione che ha inciso il nuovo lavoro fanno parte i nuovi Gary Siperko e Buddy Akita che hanno sostituito Cheetah Chrome e Lloyd, dando una sferzata di energia al gruppo condotto alla grande da un David Thomas in gran forma sotto le mentite spoglie di Crocus Behemot. Un album pieno di sferraglianti inni acidi e devastanti come le versioni (finalmente) definitive delle “vecchie” Sonic Reducer e Read It And Weep, e l’affascinante Spooky che vi propongo in questo podcast. I THIN WHITE ROPE sono stati un affascinante progetto musicale che attingeva dal Paisley Underground (quella ondata di riproposizione della psichedelia dei ’60 nata in California nei primi anni ’80), ma che da quel genere revivalista riuscì ad uscire con una visione assolutamente personale, condannandosi forse da un punto di vista commerciale ma garantendosi il paradiso per quanto riguarda la qualità dei loro solchi. Guy Kyser e compagni con i loro testi introspettivi e le loro travolgenti esibizioni live fecero presto parlare di loro non solo a Davis, California, dove sono nati. Già l’esordio Exploring The Axis nel 1985 mostrava grande maturità, le chitarre di Kyser e Roger Kunkel a duettare acide, i testi introspettivi che delineano la solitudine dell’individuo nella vastità degli spazi aperti. In seguito il suono si farà meno spigoloso ma sempre estremamente maturo come in Sack Full Of Silver del 1990, disco forse meno immediato ma più equilibrato e maturo da cui ho tirato fuori l’epica Whirling Dervish dal vago sapore mediorientale. Ho già parlato diffusamente di una band romana chiamata 2HURT nata dall’incontro tra il chitarrista/cantante Paolo Bertozzi (ex Fasten Belt) e la violinista Laura Senatore. Incontro proficuo che ha saputo trovare maturità ed equilibrio grazie agli innesti nel corso degli anni di Marco Di Nicolantonio (batterista anche lui ex Fasten Belt), del bassista Giancarlo Cherubini e del chitarrista acustico Roberto Leone. Dopo lo splendido On Bended Knee pubblicato l’anno scorso, la band ha messo insieme 16 tracce prese da vari concerti nel corso degli anni, ed il 1 dicembre ha dato alle stampe questo doppio cd intitolato Live Another Dope per la loro etichetta Lostunes Records. E’ uno splendido viaggio nel tempo e nello spazio, dove la band mostra il suo lato migliore, quello on stage. Lost Soul Train è un meraviglioso blues declinato secondo l’affascinante attitudine on the road della band romana, tra tradizione americana, folk e psichedelia. Originariamente il brano faceva parte del terzo album della band, Heaven Isn’t Gold del 2012, e trova nella veste live la dimensione più consona grazie alla voce spezzata e sofferta di Bertozzi e alla splendida esecuzione di tutta la band. E c’è chi pensa che in italia non si possa fare dell’ottimo rock… Colgo ancora l’occasione per ringraziare Paolo Bertozzi e Valentina Valeri (che appare come guest voice in due brani di questo live) per avermi donato il cd in assoluta anteprima. I MORPHINE sono stati una delle band più innovative geniali ed importanti degli anni novanta. Come definire il suono di un gruppo che mette da una parte lo strumento principe del rock, la chitarra, e basa il suo suono su un sax baritono ed una sezione ritmica? Il basso a due corde e la voce suadente, profonda ed emozionale di Mark Sandman, il sax di Dana Colley e la batteria di Jerome Deupree hanno generato un sound unico, una formula stilistica che attingeva allo stesso tempo dal blues, dalla new wave, dal jazz, ma senza appartenere a nessuno se non a loro stessi. Tenebrosi, affascinanti, energici. Cure For Pain è stato il loro secondo lavoro, album che sta in mezzo ad una triade affascinante e quasi senza eguali tra Good e Yes. Like Swimming del 1997 era stato il primo album debole del gruppo, prima che un maledetto attacco cardiaco si portasse via Sandman in una calda serata di luglio a Palestrina, vicino Roma, dove i Morphine si stavano esibendo all’interno del festival nel Nome Del Rock. Buena riassume in pochi minuti la potente magia che scaturiva da un gruppo davvero unico. KEVIN COYNE è stato un personaggio, fantastico, straccione ma geniale. Vero intellettuale, psichiatra di professione, sapeva usare la sua ugola ed il suo talento come pochi altri. Sarcastico alter ego britannico di Captain Beefheart e capace di slanci vocali appassionati come Van Morrison. Marjory Razorblade è una fantastica raccolta di venti canzoni dedicate alla gente comune e che si muove tra folk, boogie, blues surreali, ballate malinconiche e autentiche meraviglie come la House On The Hill che ho inserito in trasmissione. Ho sempre avuto grande ammirazione per Christy Moore, la sua passione, il suo impegno politico, il suo timbro vocale caldo, passionale. E’ un omaggio alla musica irlandese e alla sua produzione quello che faccio in questo podcast, proponendolo sia nella versione folk classica con i suoi PLANXTY, band fondamentale per il folk revival degli anni ’70, sia con i MOVING HEARTS con cui provava, con successo, nei primi anni ’80 ad unire il folk con il rock, il jazz, il soul. Raggle Taggle Gypsy/Tabhair Dom Do Lãmh è un traditional irlandese interpretato con passione da Moore insieme a Liam O’Flynn (uillean pipes), Andy Irvine (voce, mandolino, bouzouki) e Dónal Lunny (bouzouki, synth e voce), e che apre il mitico “black album” del 1973, vera bibbia del folk revival. Faithful Departed invece è tratta dallo splendido album di esordio dei Moving Hearts, gruppo formato da Moore e Lunny dopo l’esperienza Planxty e recentemente riformatosi ma senza l’apporto fondamentale di Moore. Gli Hearts vedevano anche la presenza di un vero e proprio enfant prodige delle uillean pipes (le tipiche cornamuse irlandesi che si suonano con le mani e non emettendo aria dalla bocca) chiamato Davy Spillane. I BARK PSYCHOSIS sono stati un gruppo tanto formidabile da aver fatto coniare al critico musicale Simon Reynolds il termine post-rock sulle pagine del prestigioso magazine britannico The Wire. Dopo una serie di singoli, poi raccolti in un cd intitolato Independency, Graham Sutton(voce e chitarra) e Daniel Gish (tastiere) insieme a John Ling (basso e sampling) e Mark Simnett (batteria e percussioni) danno alle stampe nel 1994 il loro primo album sulla lunga distanza intitolato Hex. Già dalla copertina (la chiesa di St.John vista dai binari vicini alla stazione di Stratford, est di Londra) è chiaro quello che troveremo nei solchi dell’album, sette tracce dove è possibile perdere ogni riferimento spazio temporale, vagando di notte, mentre l’uso chirurgico delle pause, dei rallentamenti, e la coesistenza di melodia e dissonanza, dipanano una tessitura sonora affascinante e coinvolgente come pochi altri., basti ascoltare in religioso silenzio la meravigliosa Absent Friend. E concludiamo in bellezza con un artista che ha saputo davvero emozionare con la sua ricetta fatta di soul, folk, una voce straordinaria ed un senso della melodia che ha del soprannaturale. TERRY CALLIER è stato un grande cantante/chitarrista cui ho voluto affidare la chiusura di questo podcast con la lunga e meravigliosa Timepeace/No One Has To Tell You/Build A World Of Love che chiudeva anche il suo grande ritorno dopo quasi 20 anni di silenzio: l’album uscito nel 1998 ed intitolato TimePeace.
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TRACKLIST:
- LOOP: The Nail Will Burn da A Gilded Eternity (Situation Two – 1990)
MEMBRANES: Dark Matter da Dark Matter/Dark Energy (Cherry Red – 2015)
THE AFGHAN WHIGS: Gentlemen da Gentlemen (Elektra – 1993)
SKELETON WRECKS: Dunedin Star da Skeleton Wrecks (Gibbon Envy Recordings – 2015)
THE UNITED STATES OF AMERICA: The American Way Of Love da The United States Of America (Columbia – 1978)
ROCKET FROM THE TOMBS: Spooky da Black Record (Fire Records – 2015)
THIN WHITE ROPE: Whirling Dervish da Sack Full Of Silver (Frontier Records – 1990)
2HURT: Lost Soul Train da Live Another Dope (Lostunes Records – 2015)
MORPHINE: Buena da Cure For Pain (Rykodisc – 1993)
KEVIN COYNE: House On The Hill da Marjory Razorblade (Virgin – 1973)
MOVING HEARTS: Faithful Departed da Moving Hearts (WEA – 1981)
PLANXTY: Raggle Taggle Gypsy / Tabhair Dom Do Lãmh da Planxty (Polydor – 1973)
BARK PSYCHOSIS: Absent Friend da Hex (Circa – 1994)
TERRY CALLIER: Timepeace/No One Has To Tell You/Build A World Of Love da TimePeace (Verve – 1998)