Se avete lo stomaco debole, il consiglio è quello di fuggire da questo disco a gambe levate, ma se riuscite ad usare la curiosità come leva, avrete l’opportunità di scoperchiare un vero e proprio vaso di Pandora, un mondo ammaliante, la cui atmosfera riesce a trasportare in uno stato mentale completamente differente.
Heather Leigh nasce nel West Virginia, ma si trasferisce presto a Houston dove già da piccola mostra uno straordinario interesse verso la musica, sperperando tempo e soldi in vari negozi di dischi. Un’infanzia difficile la sua, il patrigno è un uomo violento ed irascibile (la Leigh lo descrive come un vero tiranno), e le violenze subite hanno, come prevedibile, un forte impatto sulla sua psiche e sulla sua musica, anche se lei ha sempre rifiutato l’assioma che le sue composizioni siano un atto puramente confessionale.
Alla fine degli anni ’90 l’incontro com Tom e Christina Carter (i Charalambides) è la prima svolta della sua vita. I due vengono stregati dalla tecnica della ragazza alla slide guitar, e non esitano ad unirla al gruppo. Durante un concerto dei Charalambides (con cui la Leigh registrerà ‘Joy Shapes’ nel 2004), tra gli spettatori è presente la famosa chitarrista di pedal steel Susan Alcorn che rimase talmente estasiata dalla perizia della ragazza da volerla incontrare nel backstage dopo il concerto. La Alcorn gli disse pressapoco così:
“Heather, ti regalo una mia pedal steel guitar, a patto che tu scelga il tuo personale approccio allo strumento. Non prendere lezioni, devi semplicemente assecondare il tuo straordinario talento ed istinto.”
Detto, fatto. La ragazza segue i consigli alla lettera e dall’inizio degli anni 2000 inizia a collaborare con musicisti del calibro di Chris Corsano, Thurston Moore, Alan Licht, Jandek, David Keenan (batterista e giornalista del magazine The Wire, che successivamente diventa suo marito), e più recentemente con Peter Brötzmann. Dal 2004 si trasferisce in Scozia insieme al marito ed in breve tempo diventa il riferimento alla pedal steel di tutto il movimento avant-improv-noise, capace di esibizioni ed improvvisazioni selvagge, audaci e sperimentali. Proprio in chiusura di 2015, esce per la Ideologic Organ (l’etichetta di Stephen O’Malley dei Sunn O))), distribuita da Edition Mego) il suo primo album solista intitolato ‘I Abused Animal’, dove riesce a togliersi di dosso la patina più noise e a (ri)scoprisi eterea cantautrice, senza però dimenticare la forza travolgente della sua ispirazione sperimentale.
Già dall’iniziale title track la sua voce recita un’intima litania a cappella. Spiega la Leigh: “Il titolo può essere letto in due maniere. Non ho messo la virgola deliberatamente, in modo che si possa leggere sia come se ci fosse – I, Abused Animal – oppure no – I Abused Animal – come se io sia stata maltrattata o sia quella che maltratta. Mi interessa molto comprendere come controlliamo i nostri istinti animali, come creiamo l’idea di ‘noi stessi’ che incorpora l’infanzia, i geni e l’ambiente in cui cresciamo secondo criteri sempre diversi.”.
In “Quicksand” echeggiano note di pedal steel ripetute con pochissime variazioni mentre la sua voce mette i brividi soprattutto quando raggiunge le tonalità più alte. “All That Heaven Allows” inizia facendoci sobbalzare dalla sedia…come se il Jimi Hendrix di Woodstock si fosse reincarnato in una ragazza bionda che stupra la pedal steel. Un approccio personale e visionario che fa di lei una dei migliori interpreti di questo particolare strumento. “Passionate Reluctance” è un’altra visione solitaria a cappella mentre in “The Return“ la sua voce vaga in uno scuro paesaggio dove le bordate reiterate di steel si fanno più rumorose ed urgenti come fossero la sirena di un allarme e il suo dark-noise-folk diventa un vorticoso viaggio in un mondo che disorienta e spiazza ma dove “indirizza le sue idee di abusi, sesso e violenza come un pugno di ferro dentro un guanto di velluto.” L’album si chiude con la lunga e ammaliatrice “Fairfield Fantasy”, dove la pedal steel volteggia nell’aria tanto dolce quanto distorta, mentre la voce va in picchiata e si impenna di nuovo sopra le nostre teste come fosse una reincarnazione alternativa e felicemente sghemba di antiche e mai dimenticate muse del folk come Judee Sill o Karen Dalton.
In definitiva, un album fantastico, dove Heather Leigh riesce nella doppia impresa di far rivivere una certa stagione folk stravolgendola e rigirandola, e di suonare clamorosamente originale. Un disco che al primo ascolto sconcerta, al secondo avvolge come una nebbia densa e perturbante, dal terzo in poi rapisce e conquista inesorabilmente come il più irresistibile degli incantesimi.