Il collettivo britannico GNOD, proveniente da Salford, area di Manchester, è attivo dal 2007 e può già vantare una discografia estremamente densa tra album normali, EP e vari split con band tipo White Hills, A Middle Sex, Bear Bones e altre.
Le loro coordinate sono sfuggenti e sempre in movimento tra psichedelia, industrial, noise, free-jazz, ambient e suggestioni kraut. Ad aumentare il fascino di questo collettivo visionario e surreale dove si sono alternati negli anni oltre 30 musicisti, è arrivato questo pachiderma sonoro intitolato ‘Infinity Machines’, formato da due CD o tre LP, per quasi due ore di musica (se consideriamo i 40 minuti della bonus track “Live @ Gorilla” registrata live a Manchester disponibile in download per chi acquista la versione in vinile). La formazione corrente è formata da Paddy Shine, Chris Haslam, Marlene Ribeiro e Neil Francis. Già dalla copertina possiamo farci un’idea di quello che troveremo nei solchi dell’album, una macchia di Rorschach cui possiamo assegnare qualsiasi forma che la nostra fantasia ci fa venire in mente, dalla sezione di un cervello, ad uno strano volatile o una noce aperta. Il duro motorik del precedente ‘Chaudelande’ non ci aveva preparato a quello che ascoltiamo appena messa la puntina sul primo disco. Una risata lugubre apre la lunga cavalcata di “Control Systems”, seguita da una serie di cupi ed inquietanti rumorismi industrial fino a quando il rumore di vetri rotti non cambia atmosfere immergendoci in un gioco di fender Rhodes e spoken word
“notions of public and private are very mixed up… day dreaming is a kind of private space”
mentre il sassofono di David McLean ricama paesaggi spettrali. Le sagome sonore e visive cambiano di continuo, senza mai trovare una precisa identità. La jam session evolve spesso su una base pulsante di basso, mentre una nebbia di synth si erge compatta, squarciata dal sassofono che ora dipinge, ora taglia netta la tela sonora, rendendo il suono ora minimale, ora free jazz. Le parti di spoken word dei residents di Islington Mill si affacciano qua e là cucendo con un filo invisibile gli strati della jam e chiedendosi
“Should I have faith in politicians?”
fino a quando il ritmo cadenzato della batteria lascia il brano in preda agli spasmi scuri del sax tra Rhodes e droni. Veniamo a contatto con un microcosmo che rappresenta il suono errabondo dei GNOD, una ricerca costante di una meta, un senso psichedelico che è quasi più mentale che musicale. Ancora uno spoken word introduce i 10 minuti di “Inevitable Collateral” che si snodano su un letto di droni cupi e malevoli, con una coda industrial che distrugge tutto quello che incontra. “Desire” chiude il primo disco impattando con una psichedelia dura, primitiva, devastante, industriale, condotta da una ossessiva drum-machine.
Il secondo disco è formato da due lunghe jam, una per lato, a mostrare il lato più cosmico della band. “The Importance Of Downtime” nei primi 10 minuti aggiunge strati su strati ai droni che ricordano i synth di John Carpenter, viaggiando lentamente ed evolvendo in maniera quasi impercettibile, accelerando lentamente nel finale con un drammatico duello finale tra drum machine e synth. “White Privileged Wank” evolve in maniera meno graduale in un personale inferno di rumore che trova un primo approdo in un’isola di synth solo dopo nove minuti, per poi riprendere con un eco in lontananza a martellare ipnotico, distruggendo tutto quello che gli capita a tiro.
Il terzo disco si apre con un incubo pieno di lividi chiamato “Spinal Fluid”, dove i droni cortocircuitano sferragliando ed agonizzando, rendendo ufficiale il passaggio del collettivo di Salford dalle chitarre dure ed epiche ad un percorso più sintetico e strutturato. “Breaking The Hex” è il brano più “normale” del lotto, appena 5 minuti di acida psichedelia, di hard rock squarciato dalle inflessioni del sax, una pura devastazione noise prima del gran finale dedicato alla title track che torna alla variante contemplativa, dilatandosi in pura magia contemplativa e spirituale. Un disco cui bisogna abbandonarsi senza rete e senza controllo per assaporarne tutta la meravigliosa coesione d’intenti che pone i Gnod come band di riferimento per certi suoni altri.