Ecco l’undicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa avventura in musica troverete la seconda parte della mia personalissima Playlist 2024 con la Top 15
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questo undicesimo episodio stagionale andremo a scoprire le mille anime diverse della mia personalissima classifica con la TOP 15. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con la posizione #15 dove troviamo un duo proveniente dal Regno Unito, in particolare da Birmingham, che ha appena esordito nel corso del 2024 con un album che contiene ben 15 brani tra cui tutti i singoli che negli ultimi due anni hanno fatto presa su critica e pubblico. Joe Hicklin (voce e chitarra) e Callum Moloney (batteria e voce) hanno preso il nome di Big Special e hanno pubblicato il loro atteso album di esordio intitolato Postindustrial Hometown Blues. I due si sono conosciuti al college quando avevano 17 anni, dopo essersi esibiti insieme sotto varie forme, la loro chimica e l’amore per la scrittura li ha tenuti legati in modo creativo, portandoli a formare i Big Special un decennio dopo per sconfiggere la noia e la frustrazione dell’isolamento.
Un duo come gli Sleaford Mods che vuole esprimere in modo più potente tra punk, soul e blues tutta la frustrazione dell’alienazione della classe operaia moderna e di una generazione di giovani disincantati. Nella situazione attuale del Regno Unito c’è così tanto da ribellarsi, così tanto per cui arrabbiarsi ma non è facile catturare appieno questo spirito. Come ha detto il batterista Callum Moloney: “Chiunque si senta escluso da questo sistema costruito contro di noi capirà la nostra musica”. Un debutto molto coinvolgente e ricco di emozioni, in cui inni di sfida all’orgoglio operaio come “Dig!” si contendono lo spazio con l’incalzante confessionale di blues urbano “Black Country Gothic” inserito in scaletta. Poco lo spazio dato loro dalla stampa musicale italiana, ma sono sicuramente un gruppo da tenere d’occhio con grande, grandissima attenzione.
Quasi a fine anno ecco uscire un album che è entrato subito di diritto nella classifica dei miei preferiti del 2024 arrivando alla posizione #14. Strano pensare a questo disco come ad una sorta di esordio solista di un’artista che è sulla breccia dell’onda da tantissimi anni. Ma c’è un fondo di verità, visto che Kim Deal aveva autoprodotto una serie di vinili in 5 parti e 10 canzoni da 7” nel 2013. Parte fondamentale di una band importantissima come i Pixies, fondatrice di un altro gruppo che ha avuto una certa valenza nella storia del rock alternativo quali le Breeders, a 63 anni la Deal ha trovato il modo di pubblicare finalmente Nobody Loves You More, frutto di un lavoro certosino durato anni.
la capacità di scrittura di un’artista che ha scritto inni come “Gigantic” non può essere messa in discussione, e il suo talento viene fuori sia nelle tracce scritte proprio nel 2011 e pubblicate nel 2013, sia in quelle più recenti, con l’incedere emozionante della conclusiva “A Good Time Pushed” registrata dal compianto Steve Albini che ne ha sempre apprezzato la capacità di scrittura. Tanti gli ospiti ad accompagnarla, dalla sorella Kelley e altri ex Breeders come Mando Lopez, Jim Macpherson e Britt Walford (Slint), a Raymond McGinley dei Teenage Fanclub. Il risultato è un “esordio” tanto inaspettato quanto affascinante ed incantevole.
Lo scorso anno ho voluto premiare con la prima posizione della mia classifica un gruppo che sta rivitalizzando un genere storico come il folk cambiando in corsa le regole del gioco. Il 2023 ha visto il ritorno dei dublinesi Lankum con il loro quarto album intitolato False Lankum, atteso seguito di quel The Livelong Day che nel 2019 gli ha permesso di vincere il RTE Choice Music Prize (equivalente irlandese dei Grammy). Partendo da canzoni folk tradizionali, i Lankum (nome preso dal protagonista della scura folk ballad intitolata proprio “False Lankum” scritta da John Reilly) hanno impresso il loro marchio personale facendo leva su pesanti droni e distorsioni che conferiscono nuova intensità e bellezza a ogni brano. Con questo album il quartetto ha consolidato il suo distacco dal genere folk classico, creando una musica audace e contemporanea che nasce, come detto, da elementi tradizionali ma che suona decisamente nuova.
Nelle 12 tracce dell’album il quartetto irlandese ha utilizzato una nuova tavolozza per colorare il proprio suono in modo sempre più sperimentale, grazie anche all’ausilio del produttore di lunga data John ‘Spud’ Murphy. Solo dopo la registrazione il gruppo si è reso conto che quasi tutte le canzoni dell’album, raccolte o scritte, avevano una sorta di riferimento al mare. A confermare il loro status di nuove superstar del folk, a fine giugno il quartetto ha pubblicato Live in Dublin, un album registrato in tre serate da tutto esaurito al Vicar Street di Dublino dove i Lankum hanno eseguito diversi brani del loro catalogo, tra cui “The Rocky Road to Dublin” che finora non era mai stato pubblicato ufficialmente. Unico neo, dei 9 brani che compongono la scaletta dell’edizione digitale, solo 6 sono finiti sul vinile. La meravigliosa “Go Dig My Brave” è uno dei vertici di un album dal vivo che troviamo al #13.
Il podcast prosegue con la posizione numero 12, dove troviamo il secondo album solista di un’artista che ha scandito lo scorrere del tempo di noi amanti del rock da tantissimi anni. Kim Gordon, 72 anni a fine aprile, è stata un componente fondamentale dei Sonic Youth, gruppo che ha profondamente influenzato varie generazioni di rock americano e non solo. Pur partendo dall’avanguardia newyorchese, i SY non hanno davvero mai ripudiato il formato della canzone rock, sperimentando, usando gli strumenti in modo totale (soprattutto grazie ad un grande uso di effettistica e accordature inusuali a rendere unico il suono della chitarra), e diventando di fatto una vera e propria istituzione della scena alternativa americana e mondiale.
70 anni e non sentirli, per la voglia di esplorare paesaggi sonori più oscuri e dissonanti, riflettendo il suo interesse crescente per la musica sperimentale, per l’avant-elettronica, per i ritmi hip-hop e trap, per il noise industriale, grazie all’apporto di Justin Raisen (Sky Ferreira, Drake) che già aveva collaborato con lei 5 anni fa per il riuscito No Home Record. Il nuovo The Collective se vogliamo flirta con certe suggestioni in maniera ancora più radicale, quasi “normale” per una persona che pensa a se stessa come un’artista a 360 gradi più che come “semplice” musicista. Un album che, non appena uscito, ha scatenato subito una discussione tra chi lo considera una sorta di capolavoro, e chi non è convinto affatto di questo suono così ostico. E dire che la Gordon (e i SY) sono stati spesso e volentieri spiazzanti, nell’accezione positiva del termine. Il disco è potente, perfettamente calato nell’oggi musicale, un disco avventuroso ed intrigante come dimostra la “Psychedelic Orgasm” inserita in scaletta. E voi da che parte state?
Andiamo adesso in Canada per andare in casa Constellation, etichetta che ha pubblicato album meravigliosi nel corso del 2024 tanto da avere tre artisti nella mia TOP 15. Al numero 11 della classifica troviamo Erika Angell, cantante e compositrice svedese, che ha trascorso gli ultimi due decenni nelle scene musicali d’avanguardia di Stoccolma dal 2004 e di Montréal dal 2012. Tra i suoi progetti principali figurano il gruppo art-rock Thus Owls e il trio Beatings Are In The Body. Angell ha pubblicato ad inizio marzo 2024 The Obsession With Her Voice, il suo album di debutto da solista, un lavoro elettroacustico di esplorazione vocale senza freni e composizione avant-elettronica espressionista dove la sua voce e le sue tastiere vengono accompagnate da Mili Hong alla batteria, Andrea Stewart e Audréanne Filion al violoncello e Scott Chancey e Thierry Lavoie-Ladouceur alla viola.
Un art-rock visionario che si regge su una solo apparentemente leggera struttura di archi e soprattutto sulla splendida voce dell’artista svedese di base a Montréal, capace di veleggiare da Laurie Anderson a Jenny Hval. Una narrazione potente e ricercata che può essere solenne e spettrale, capace di inserirsi perfettamente nel solco di casa Constellation. Un esordio già maturo di grande originalità come dimostra la splendida “Up My Sleeve” inserita in scaletta. Se il buongiorno si vede dal mattino…
Arriviamo in TOP 10 con un disco che è stato una sorta di caso al momento della pubblicazione. Andiamo per un attimo a ritroso nel tempo per trovare una formazione canadese chiamata Women capace di pubblicare due ottimi album di sperimentazione noise prima di sciogliersi nel 2010. Il cantante-chitarrista di quella band si chiamava Patrick Flegel, che di lì a poco si reinventerà come drag performer con il nome di Cindy Lee. Dopo alcuni album tanto interessanti quanto “sommersi” che dovevano qualcosa all’ispirazione noise della sua vecchia band, a maggio 2024 ecco uscire Diamond Jubilee, ben 32 tracce per oltre due ore di musica. Il disco è “uscito” per modo di dire visto che le modalità sono state quantomeno curiose. Pubblicato all’inizio solo su YouTube (con una qualità di suono abbastanza scarsa, è approdato successivamente su Bandcamp per poi arrivare su Spotify e al formato fisico (3 LP o 2 CD) solo nel 2025.
Assunto subito a fenomeno di culto per la sua particolarità di pubblicazione, in realtà l’album è davvero tanto eccentrico quanto interessante. Una sorta di compendio della storia del pop lo-fi dagli anni ’50 ad oggi, dal beat alla psichedelia, dalla disco funk patinata alla wave anni ’80. Un viaggio sonoro lungo ma che difficilmente stanca, due ore di musica intriganti e senza tempo che magari non meriterà il 10 attribuito da Pitchfork ma che incanta per lo scintillio degli arrangiamenti e la qualità della scrittura. Un disco in cui Patrick/Cindy suona ogni strumento portandoci in un mondo quasi distopico come nella title track “Diamond Jubilee” inserita nel podcast
Keeley Forsyth nasce come attrice di teatro, salvo poi partecipare a numerose serie tv britanniche. Ma è sempre stata un’artista a 360 gradi, appassionata di poesia e di musica, si è ritrovata a cantare i suoi versi accompagnandosi da uno scheletro musicale. Profondamente ancorata alla realtà e al dramma quotidiano dell’esistenza, Keeley, insieme al compositore Matthew Bourne, aveva dato alle stampe nel 2020 il suo album di esordio intitolato Debris, convincendo critica e pubblico grazie ad una voce profonda che ricorda echi di Nico e Scott Walker e agli arrangiamenti minimali ma di grande profondità. la magia si è ripetuta nel 2022 con il suo secondo disco, intitolato Limbs, così uguale ma così diverso per poi toccare il climax della sua arte e profondità musicale con il nuovo The Hollow che è stato pubblicato dalla 130701, sottoetichetta della Fat Cat.
Il titolo del disco deriva dalla scoperta, durante una passeggiata, di un pozzo minerario abbandonato da tempo. Al tempo stesso allettante e pericoloso, incassato nel fianco di una collina, “come se mi fosse apparsa una stanza e un corridoio sempre più buio scavato nel terreno. Un luogo da cui essere inghiottiti, ma anche da cui emergere”. È questa dinamica che si riflette nel clima, nel linguaggio e nelle tematiche di The Hollow. Il passato che si annida e tormenta il presente in cui viviamo. Un disco seducente e dolente, le atmosfere cupe sottolineate dalla voce profonda della Keeley e dai pochi ospiti selezionati, tra cui spicca Colin Stetson. Arrangiamenti apparentemente fragili e una voce che scandaglia l’animo umano, una sinergia che affascina e avvolge come nella splendida “Horse” inserita in scaletta. The Hollow è senza dubbio uno degli album più interessanti usciti nel 2022 e si posiziona al #9 della mia classifica.
“Scrivere canzoni, per me, è come scolpire. Nasce da una parola, un’emozione o un suono iniziale, che poi costruisco, modellandolo in una forma più raffinata, incollata in una struttura artificiale. Altre volte il mio ruolo è quello di scrostarla, raschiarne l’esterno, per rivelare il suo stato naturale e la sua parte all’interno del tutto.” Così si presentava due anni fa la cantautrice, chitarrista e produttrice di Montréal Vicky Mettler, al suo esordio per l’etichetta Constellation sotto il nome di Kee Avil. La Mettler combina chitarra, voce, elettroacustica e produzione elettronica per creare assemblaggi di canzoni che sembrano collassare da un momento all’altro ma che allo stesso tempo riescono ad evolversi come resina appiccicosa che raccoglie e disperde elementi disparati lungo il suo percorso.
Se già ci aveva colpito l’esordio chiamato Crease, un ascolto non certo facile dove Kee Avil concretizzava la sua musica in una chitarra post-punk lavorata a cesello, in un’elettronica sinuosa di fascia bassa, in una tavolozza di microcampionamenti organici e digitali capaci di creare ritmi alternati e propulsivi e nell’intimità ansiosa del suo lirismo e della sua voce finemente lavorati, anche il nuovo Spine colpisce nel segno. Anche qui ci sono canzoni che non lasciano molto spazio alla melodia, che spiazzano non appena sembra che abbiamo trovato una direttrice. Tra post-punk, electro-industrial e avant-pop, quelli del secondo lavoro di Vicky Mettler sono brani forse più convinti e convincenti, finemente lavorati, meticolosamente assemblati e pronti a celare la realtà. Un album sperimentale che si posiziona al #8 e che ci conferma Kee Avil come un’artista estremamente intrigante come dimostra la “Showed You” inserita in scaletta
Proseguiamo il podcast trovando al #7 Julia Holter, senza dubbio una delle songwriter più talentuose della sua generazione. Californiana, studente in pianoforte e appassionata di letteratura greca, ha già dagli inizi, preferito un approccio onirico e minimalista, cambiando lentamente pelle, album dopo album, aggiungendo beat elettronici, elaborazioni sonore fino ad approdare ad un maturo eclettismo pop. Se già Loud City Song nel 2013 aveva colpito per la piccola rivoluzione sonora dell’artista californiana, tra Laurie Anderson e Kate Bush, Have You In My Wilderness due anni dopo ne ribadisce il cambiamento. Dal riconoscimento come autrice e musicista colta, il passo fatto nel 2015 ha consolidato l’ingresso della Holter in una sorta di paradiso indie-mainstream in cui ha avuto i suoi riconoscimenti anche dal punto di vista commerciale.
Dopo che, con Aviary nel 2018, ha dato vita ad un lavoro complesso e sperimentale, assemblato alla perfezione con cui ha dimostrato per l’ennesima volta il suo straordinario talento, la Holter torna dopo una lunga pausa dovuta alla pandemia e alla maternità con un nuovo lavoro di una bellezza accecante, elegante e magico, ispirato proprio dal capolavoro di Robert Wyatt che abbiamo ascoltato in precedenza. In Something in the Room She Moves, la Holter elabora in modo vivido la complessità, la profondità e lo stupore di una confluenza di esperienze diverse vissute negli ultimi anni. Basandosi su uno spirito di giocosità, la californiana ha scavato a fondo in uno stile di produzione che ricorda le sue prime registrazioni, trovando nella notte il momento ideale per sperimentare la sua creatività. La title track inserita nel podcast è uno dei brani più indimenticabili di un album splendido.
Cambiamo completamente atmosfere andando a trovare al #6 un personaggio notissimo per chi frequenta l’ambiente legato all’improvvisazione. Il batterista e polistrumentista Chris Corsano si è sempre distinto non solo per il suo talento ma anche per la sua visione musicale ad ampio spettro. Corsano ha suonato con il sassofonista Paul Flaherty per più di vent’anni, ha fatto parte dei Rangda (trio con Sir Richard Bishop e Ben Chasny), ed ha collaborato nel corso della sua carriera con Joe McPhee, Dredd Foole, Thurston Moore, Jim O’Rourke, Bill Orcutt, Bill Nace, Nels Cline, Evan Parker, Björk e dozzine di altri musicisti nei progetti più disparati. Tra i circa 150 album a cui ha contribuito il versatile musicista classe 1975 negli ultimi 25 anni, solo sei sono stati accreditati al solo Chris, il che rende la pubblicazione di questo The Key (Became The Important Thing [& Then Just Faded Away]) un raro caso in cui è riuscito ad elaborare in profondità la propria visione musicale.
Un lavoro che porta a compimento l’unione tra l’improvvisazione libera e il rumorismo con esperimenti acustici e idee di riff hard rock e post-punk. Sei brani per poco più di mezz’ora di musica che non lasciano certamente indifferenti, tre tracce dove Corsano agisce come una vera band grazie a sovraincisioni multitraccia di chitarra-basso-batteria-elettronica e altre tre dove invece troviamo percussioni soliste improvvisate dal vivo in studio. Un processo esplorativo legato quasi esclusivamente a ridefinire i confini del suo complesso drumming, già nella “I Don’t Have Missions” che apre il disco, dove il linguaggio del funambolico batterista si apre a nuove avventurose ricerche musicali che spaziano dalla psichedelia al tipico motorik con sfumature garage.
Saliamo ancora di una posizione trovando in 5° posizione il ritorno di una delle band cardine di un certo tipo di avant-rock. Due anni fa Fat Bobby Matador (chitarra, organo e voce, Kid Millions (batteria), Shahin Motia (chitarra), Hanoi Jane (chitarra e basso) e Barry London (synth e organo) erano tornati in maniera prepotente a far risuonare il nome degli Oneida con un album trascinante come Success, capace, come sempre, di entrare facilmente nella mia playlist annuale. E se quel disco era stato inciso quasi per gioco, sfruttando la voglia di suonare di nuovo insieme dopo il lungo blocco dovuto all’emergenza pandemica, stavolta le sedute di registrazione del nuovo lavoro in studio sono state relativamente più calcolate.
Fat Bobby Matador, l’unico dei cinque a vivere a Boston, ha abbozzato alcune canzoni e le ha spedite agli altri quattro nelle loro residenze di NYC. Nemmeno a dirlo, le tracce erano talmente buone che sono state completate, rifinite e confezionate in un nuovo lavoro intitolato Expensive Air. Il “solito” compendio meraviglioso ed irresistibile di punk, garage, kraut, beat e psichedelia, che da qualcuno viene tacciato di “compitino fatto da un gruppo bollito” ma francamente a me fa tutt’altro effetto. 34 minuti di tensione altissima creati da un gruppo che (fortunatamente per noi) non accenna a cali di creatività. Provate a non saltare dalla sedia ascoltando “Salt” e poi ditemi se gli Oneida non hanno sfornato un altro grande disco.
Alla posizione #4, ai piedi del podio, troviamo un artista che dal 2016 ha provato ad esorcizzare anche in musica la drammatica scomparsa della moglie, l’artista Geneviève Castrée, deceduta per un cancro al pancreas. Sto parlando di Phil Elverum, che dopo gli splendidi e strazianti A Crow Looked At Me e Now Only è tornato a fine 2024 con un nuovo splendido lavoro a nome Mount Eerie. Innamorato da sempre del territorio in cui è nato, cresciuto e in cui ha sempre vissuto, Mount Eerie è un luogo che esiste davvero, nello stato di Washington, ai piedi della città di Anacortes nell’isola di Fidalgo, e di una serie di vecchi strumenti analogici, Elverum ha sempre prediletto l’approccio indipendente, anche per quanto riguarda la produzione e il packaging dei suoi dischi. Stavolta ha fatto le cose in grande, copertina realizzata dallo stesso Elverum che ritrae la montagna, due vinili per 82 minuti di musica, un poster apribile, la biografia, le fotografie dei luoghi dove l’album è stato realizzato e i testi.
26 tracce, e che tracce, che probabilmente rappresentano il capolavoro assoluto di un artista che ci ha accompagnato nelle ultime tre decadi dall’inizio dell’esperienza The Microphones nel 1999. Night Palace rappresenta la maturità di un songwriter che ha superato momenti tragici e anche un matrimonio durato appena sei mesi con l’attrice Michelle Williams, approdando ad un disco che rappresenta tutte le sue anime tra blues, indie rock, lo-fi classico ed estroso, psichedelia, e imprevedibilità visto che il brano più breve dura meno di un minuto e quello più lungo più di dodici minuti. “Huge Fire” è solo una delle meraviglie di un disco non certo facile, ma che nasconde (nemmeno troppo) momenti di bellezza indicibili.
Eccoci a scoprire il gradino più basso del podio, dove troviamo un artista che da quando ha iniziato la sua carriera solista ha saputo pubblicare solo album meravigliosi. David Lance Callahan è un personaggio ed un musicista straordinario, fondatore a metà anni ’80 dei Wolfhounds che parteciparono a quella compilation iconica chiamata C86 e, successivamente, creatore della sigla Moonshake che, insieme ad altre band della scuderia Too Pure, ha contribuito con fantasia energica a creare una caleidoscopica scena post-rock in Gran Bretagna. Dopo aver riformato con successo qualche anno fa i Wolfhounds, la pandemia ha portato David a metter mano a molti brani che aveva preparato e a pubblicare, dopo oltre 30 anni di attività, i suoi primi, splendidi album solista: English Primitive I e II che hanno raggiunto la vetta delle mie playlist annuali.
Molto atteso quindi era il terzo capitolo della sua carriera solista, un album intitolato Down To The Marshes. Il disco, registrato a Valencia con il fido collaboratore Daren Garratt (Pram, The Fall, The Nightingales), mostra i consueti elementi di musica folk, africana occidentale, blues, indiana e post-punk, ma amplia la tavolozza sonora con l’aggiunta di una sezione di fiati e di un quartetto d’archi a sottolinearne le melodie. Esemplare in questo senso è l’apertura di “The Spirit World”, con una chitarra acustica e il violino a condurre un brano arioso e rilassato dove anche i testi si mostrano più ottimistici del solito senza disdegnare una punta di sarcasmo nel sottolineare, come sempre, lo stato attuale profondamente preoccupante del Regno Unito (e del mondo). Anche il suo terzo lavoro ci conferma il talento e lo stato di grazia di uno degli artisti più personali e creativi del Regno Unito, capace di creare un suo genere con le sue regole.
Se solo recentemente mi sono riavvicinato a certe sonorità di musica che potremmo definire metal, il merito, tra gli altri, è dei BIG|BRAVE, trio canadese composto da Robin Wattie (chitarra e voce), Mathieu Ball (chitarra) e Tasy Hudson (batteria). Loro si collocano in quel nebuloso spazio tra il metal e la sperimentazione, alternando una schiacciante e drammatica pesantezza con una leggerezza eterea e meditativa, in una modalità che pochi dei loro colleghi riescono a percorrere con successo. Dopo aver sperimentato in ambito dark folk insieme ai compagni di etichetta The Body, lo scorso anno i tre sono tornati a far sentire le loro sonorità ossessive, pesanti e distorte con il loro sesto lavoro in studio intitolato Nature Morte, con cui pensavo che avessero raggiunto l’apice del loro percorso e che aveva raggiunto la Top 30 della mia classifica. Un anno dopo ecco tornare il gruppo di Montreal con un nuovo album intitolato A Chaos Of Flowers, che sembra collegarsi al lavoro precedente già dalla copertina ma che stavolta ho trovato talmente emozionante da posizionarlo al #2, quasi in vetta.
Proprio lo sfondo bianco dell’artwork (quasi una controparte speculare dell’album di un anno fa) rivela l’anima meno violenta del disco, che pur collegandosi in parte al pericoloso e dilatato crocevia tra ambient, metal sperimentale e avant-rock del gruppo che aveva raggiunto l’apice con il lavoro precedente, qui si evolve in un mondo dove il loro “minimalismo estremo” si estende per evidenziare una modalità poetica legata all’emarginazione e alle esperienze che ci rendono vulnerabili. La chitarrista-cantante Robin Wattie ha voluto attingere a piene mani da alcune poesie di donne le cui parole hanno rispecchiato le esperienze di chi, o per la propria origine o per aver sfidato norme e pensiero comune della società, è stata spesso emarginata dalle convenzioni culturali. Alla “canon : in canon” inserita in scaletta spetta giustamente la parte centrale nel disco, un brano dilatato tra droni e la chitarra suggestiva dell’ospite Marisa Anderson che con il suo tocco tra folk e blues rende la voce di Wattie mai così intima, limpida e cristallina. A Chaos Of Flowers, con la sua anima tanto intima e sofferta quanto potente e apparentemente monolitica, ci mostra invece un gruppo ancora in crescita, pronto ad intraprendere un nuovo percorso di enorme intensità emotiva.
Arriviamo finalmente in cima alla classifica per trovare uno dei dischi più originali ed intriganti degli ultimi anni pubblicato dalla Constellation e che vede come protagonista principale un musicista importante come Jason Sharp, da anni una colonna portante della comunità musicale avant-jazz, sperimentale e improvvisata di Montréal. Sassofonista e compositore elettroacustico, il suo lavoro da solista ha prodotto un insieme unico di musica unendo la padronanza della tecnica estesa del sassofono con microfoni personalizzati, elettronica e sintesi modulare. Kaie Kellough è un’acclamato poeta e scrittore, la cui raccolta di poesie Magnetic Equator ha ricevuto il Griffin Poetry Prize 2020 (il principale premio di poesia canadese). Oltre alla scrittura, negli ultimi due decenni la sua pratica principale sono stati lavoro sonoro e le performance dal vivo in innumerevoli manifestazioni di spoken word e multi-media, sperimentazioni e collaborazioni.
Dopo diversi anni di collaborazione, sviluppo, workshop, commissioni ed esibizioni in configurazioni minori, i due artisti hanno creato e perfezionato il progetto FYEAR che, nella sua definitiva configurazione, vede la partecipazione della poetessa/scrittrice Tawhida Tanya Evanson (voce) e dei musicisti Jesse Zubot (violino), Joshua Zubot (violino), Joe Grass (pedal steel), Stefan Schneider (batteria), Tommy Crane (batteria) oltre all’artista/designer Kevin Yuen Kit Lo (video performance e visual design). Il risultato è un album tanto sorprendente quanto complicato da definire e raccontare, dove il collettivo unisce improvvisazione e composizione, strumentazione elettronica e acustica, recitazione vigorosa e vocalizzazione astratta, bilanciando una struttura intensiva con un un intenso spirito esplorativo. La “Pt II Mercury Looms” inserita inel podcast è composta da quasi 8 minuti di magia dove le due voci, il sax e tutta la strumentazione si inseguono a volte in maniera forsennata a volte più estatica in una sorta di caos controllato ed incredibilmente coeso che ci trascina tra alt-jazz e post-rock in un personale ed inedito microcosmo musicale. Una prima posizione meritatissima.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio torneremo alla programmazione regolare con la consueta alternanza tra novità, capolavori della storia del rock e dischi/artisti da riscoprire.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
#15. BIG SPECIAL: Black Country Gothic da ‘Postindustrial Hometown Blues’ (2024 – So Recordings)
#14. KIM DEAL: A Good Time Pushed da ‘Nobody Loves You More’ (2024 – 4AD)
#13. LANKUM: Go Dig My Grave da ‘Live In Dublin’ (2024 – Rough Trade)
#12. KIM GORDON: Psychedelic Orgasm da ‘The Collective’ (2024 – Matador)
#11. ERIKA ANGELL: Up My Sleeve da ‘The Obsession With Her Voice’ (2024 – Constellation)
#10. CINDY LEE: Diamond Jubilee da ‘Diamond Jubilee’ (2024 – W.25th)
#9. KEELEY FORSYTH: Horse da ‘The Hollow’ (2024 – 130701)
#8. KEE AVIL: Showed You da ‘Spine’ (2024 – Constellation)
#7. JULIA HOLTER: Something In The Room She Moves da ‘Something In The Room She Moves’ (2024 – Domino)
#6. CHRIS CORSANO: I Don’t Have Missions da ‘The Key (Became The Important Thing [& Then Just Faded Away])’ (2024 – Drag City)
#5. ONEIDA: Salt da ‘Expensive Air’ (2024 – Joyful Noise)
#4. MOUNT EERIE: Huge Fire da ‘Night Palace’ (2024 – P.W. Elverum & Sun, Ltd.)
#3. DAVID LANCE CALLAHAN: The Spirit World da ‘Down To The Marshes’ (2024 – Tiny Global Productions)
#2. BIG|BRAVE: Canon : In Canon da ‘A Chaos Of Flowers’ (2024 – Thrill Jockey)
#1. FYEAR: Pt I Trajectory – Pt II Mercury Looms da ‘FYEAR’ (2024 – Constellation)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) March 25, 2025