Secondo lavoro per gli irlandesi Fontaines D.C.
A Hero’s Death è un disco che mostra una band meno viscerale e strafottente che si dimostra più matura e introspettiva
Se le recensioni di dischi scritte da assoluti maestri di giornalismo musicale (e per fortuna ne abbiamo diversi) possono servire per indirizzarci verso la comprensione e l’ascolto più approfondito di sonorità che ci sono affini, la domanda che mi pongo spesso è quale possa essere l’utilità delle mie. Non perché io tenda a sottostimarmi come autore o come appassionato, ma soprattutto perché recensioni come queste vengono pubblicate esclusivamente da realtà minuscole come Sounds & Grooves. Le webzines musicali, i blog e quant’altro sono proliferate in maniera esponenziale (spesso, purtroppo, a scapito della qualità), quindi a maggior ragione la sensazione che provo talvolta nello scrivere è quella di essere la classica goccia dispersa nell’oceano. In questo caso ho un’ulteriore aggravante: il disco di cui sto per scrivere è uscito da svariati mesi, è stato inserito nella Top 10 di molte classifiche di riviste cartacee e webzines, ed è stato portato in trionfo e ricoperto di merda in egual misura sui tutti i social networks.
Insomma, per farla breve, non c’era alcuna ragione al mondo per cui io dovessi scrivere della seconda opera dei Fontaines D.C. Eppure lo sto facendo. Se potete, prendetela come una specie di sessione psicanalitica, oppure un mio ostinarsi a cercare di capire perché i meccanismi social portano sempre a ricoprire di insulti un gruppo o un artista che hanno avuto un consenso al di fuori dell’ordinario. Il che potrebbe essere un sacrosanto “diritto alla critica” se non fosse che a volte si prende come scusa banale il fatto (alquanto soggettivo) che l’artista o il gruppo “non dice niente di nuovo”. Come se il panorama musicale mondiale, mai così terribilmente frammentato ed inutilmente vasto, fosse pieno di artisti che trovano una via mai percorsa da altri. So bene che probabilmente questa recensione sarà un inutile esercizio di stile, ma per questa mia urgenza personale di (piccola) condivisione, non sono riuscito a fermarmi.
A maggio di un anno fa, quando la pandemia era semplicemente un escamotage cinematografico e non, purtroppo, una cruda realtà, scrivevo entusiasta: “I Fontaines D.C., con la forza dirompente di Dogrel, si aggiungono a Idles, Fat White Family, Shame e Sleaford Mods come esponenti di punta del nuovo “rock” britannico. L’atmosfera sporca, l’istintività sfacciata, la capacità di comporre versi intensi e storie in cui molti possono identificarsi, sono la chiave fondamentale per comprendere il successo di questi cinque irlandesi, oltre all’amore/odio per la propria terra espresso in un accento locale volutamente marcato.”
Eh si, l’esordio della band irlandese mi aveva colpito per moltissimi motivi: per la voce recitativa ed incalzante di Grian Chatten con il suo accento distintivo, per l’empatia che suscitano facilmente nell’ascoltatore con quel loro amore per la poesia, le ritmiche incalzanti, l’amore/odio per una Dublino esplorata passo dopo passo nelle 11 tracce di cui era composto Dogrel, e per una strabordante energia post-punk che, nella mia personalissima sensibilità, avevo percepito come viscerale ed autentica.
Proprio il successo di Dogrel ha proiettato i ragazzi irlandesi in una inaspettata nuova condizione artistica, trascinandoli in una vita quasi esclusivamente on the road, prima in Europa poi negli States, sempre più lontani dalla loro città natale. E così, nella fase di scrittura di A Hero’s Death (il “difficile” sophomore album), la loro appartenenza a Dublino, prima quasi ostentata, si è ridotta ad un breve cameo nel testo di “Televised Mind“. Mettendo la puntina sui solchi del nuovo album e paragonando l’intro cadenzato di “I Don’t Belong” con l’energia febbrile della precedente opener “Big”, ho ritrovato i Fontaines D.C. così uguali e allo stesso tempo così diversi, meno sfrontati, più introspettivi. Più di qualcuno ha messo l’accento sulla mancanza dei personaggi inquieti che hanno preso vita nei solchi dell’esordio, ma Chatten non a caso è cresciuto leggendo i grandi della letteratura irlandese come William Butler Yeats e James Joyce ed è stato capace di regalarci di nuovo testi ipnotici e ispirati, stavolta narrati in prima persona. Sono cambiate le prospettive, ma non la profondità delle suggestioni che stanno dietro ogni canzone.
La vita febbrile in tour e il successivo impatto del Covid ha segnato profondamente la band. Il successo arrivato così in fretta, fortunatamente, non ha avuto l’effetto di farli sentire arrivati. Al contrario li ha fatti mettere in guardia da certi pericoli, facendoli maturare in modo repentino. Il disco è un viaggio scuro, introspettivo, psichedelico, con Grian Chatten che mantiene la voce a galla nel profondo mare dei suoni creati dai compagni con i suoi ritornelli reiterati fino allo sfinimento. Ascoltate gli ossessivi giri di chitarre su un tappeto percussivo ottundente su cui Chatten ripete in maniera quasi esangue, disillusa ed impersonale “Love Is The Main Thing” per capire come il gruppo è riuscito a creare un’atmosfera scura senza appoggiarsi facilmente ad un ritornello che avrebbe aperto e quindi rinnegato il significato del brano. Bastano un paio di secondi di silenzio ed ecco che “Televised Mind” ci riporta alle più classiche frequenze post-punk dell’esordio, raddoppiata da un’aggressiva “A Lucid Dream”. Ma è “You Said” ad essere la cartina di tornasole di un disco ben più introspettivo e di una band capace di cercare e trovare una propria identità ben precisa senza rinnegare l’esordio e i propri riferimenti del passato.
Riferimenti che non mi sono sembrati più ingombranti del dovuto. Quando i ritmi si rallentano nella crepuscolare ballata folk “Oh Such A Spring” che chiude il primo lato, sembra quasi di sentire il profumo e di provare sulla pelle le suggestioni dell’isola verde. Sono i tamburi di Tom Coll ad aprire la title track prima dell’ingresso delle chitarre di Carlos O’Connell e Conor Curley con il loro suono distintivo. Chatten ci mette del suo reiterando fino allo sfinimento il ritornello “Life ain’t always empty” e inserendo un inciso quasi di spoken word, mentre un coretto doo wop, riesce a donare un minimo di ironia. Le lame più affilate sono quelle di “Living In America” e del garage di “I Was Not Born”, mentre la band rallenta i ritmi nel finale prima con l’acustica seduzione psichedelica di “Sunny”, poi con la conclusiva ed emozionale “No” a definire una personalità molto più spiccata di quanto molti possano pensare liquidando la band come “generatore automatico di brani post-punk di gruppi del passato”.
Se Dogrel era un album più immediato, A Hero’s Death ha la capacità di crescere sotto pelle, di crescere ascolto dopo ascolto. Intendiamoci bene: non è un capolavoro, non ha nemmeno la pretesa di esserlo, ma è un disco molto superiore alla media di una band che sta dimostrando di poter e saper crescere maturando in maniera importante. Dalla loro hanno capacità ed intelligenza, oltre ad una spiccata attitudine intellettuale che porta Grian Chatten a scrivere testi profondi e attuali. La loro sensibilità e sfrontatezza, il loro saper portare il passato nella modernità li potrà far andare lontano. O almeno é quello che ci auguriamo, con la speranza che non si perdano per strada come altri irlandesi prima di loro.
TRACKLIST
1. I Don’t Belong 4:31
2. Love Is The Main Thing 3:54
3. Televised Mind 4:10
4. A Lucid Dream 3:54
5. You Said 4:37
6. Oh Such A Spring 2:33
7. A Hero’s Death 4:18
8. Living In America 4:57
9. I Was Not Born 3:49
10. Sunny 4:53
11. No 5:09