Un piccolo spazio per riscoprire grandi cose
I Brainiac sono stati una delle band più folli e interessanti degli anni ’90
In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Abbiamo l’opportunità di poterci riprendere in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a mettere gli episodi di questa nuova rubrica chiamata Music Room in una semplice doppia cifra. Giornalmente su queste pagine ci sarà un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene
Chissà se il loro nome è stato scelto a caso, o se era tutto calcolato. Il criminale antagonista di Superman che si trasforma in una delle band più istintivamente folli e interessanti degli anni ’90. Il termine Brainiac, mutuato dall’extraterrestre dei fumetti, sta ad indicare nello slang americano una persona estremamente intelligente, quello che noi chiameremmo “cervellone”. Un nome curioso per una band fuori dagli schemi e dal potenziale immenso che sfortunatamente non ha mai fatto in tempo ad esplodere in tutto il suo goliardico genio. Come troppo spesso accade, è stata una tragedia a porre fine alla storia dei Brainiac proprio nel momento in cui stavano raccogliendo i frutti di un duro lavoro e diventare una stella del firmamento musicale.
Tim Taylor e Juan Monasterio, amici già dal liceo, approfondiscono le loro ambizioni musicali all’inizio degli anni ’90 frequentando insieme la Wright State University di Dayton, Ohio. Nella cittadina industriale dello stato che ha dato i natali ad altre gloriose formazioni eccentriche come The Dead Boys, Rocket From The Tombs, Pere Ubu e Devo, i due decidono di formare una band ispirata, incredibile a dirsi, dal glam/hard rock dei Guns ’N’ Roses chiamata Pink Lady. Ma sarà un’altra band a formare il suono dei due. Parallelamente alla nuova band i due infatti si uniscono ad una formazione locale già affermata chiamata Wizbangs, con cui nel 1991 registrano un demo molto interessante. A questo punto i due sono pronti a compiere il grande salto, o perlomeno a provarci seriamente. Tim (voce e tastiere) e Juan (basso) accolgono in gruppo la chitarrista Michelle Bodine e il batterista Tyler Trent, formando il primo nucleo dei Brainiac. In realtà il quartetto inizia a farsi conoscere in giro sotto il nome di We’ll Eat Anything, riempiendo il loro seminterrato di vari strumenti comprati al mercatino dell’usato tra cui i vari pedali e sintetizzatori vintage che caratterizzeranno il loro suono.
Dopo aver passato l’estate del 1992 a suonare devastanti concerti e dopo aver cambiato definitivamente il nome in Brainiac, la band pubblica a settembre il primo 7″ Superduperseven per la Limited Potential. Il singolo vede sul Lato A un brano intitolato Ride, traccia già presente sul famoso primo nastro, insieme a Superdupersonic (Theme From Brainiac), mentre sul Lato B c’è una Simon Says che mostra il versante della band più orientato verso le soluzioni schizofreniche dei quasi compaesani Pere Ubu. Le performance live della band fanno il resto, guadagnandosi l’entusiasmo di chi assiste ai loro coinvolgenti concerti come dimostra questo live report scritto nel luglio 1992 sulla fanzine Imminent dopo un concerto tenuto nella Wright State’s Rathskellar della vicina Cincinnati.
Il primo disco sulla lunga distanza uscirà a luglio 1993 per la Grass Records, etichetta di base a New York che era stata positivamente colpita sia dai singoli usciti che dalla fama crescente delle loro esibizioni live. Smack Bunny Baby mantiene le promesse anche se gli ingredienti usati non sono ancora sapientemente dosati come succederà nelle pubblicazioni successive. A tenere banco è ancora l’acerbo ma trascinante ibrido tra il grunge (il trascinante riff dell’opener “I, Fuzzbot” e il girotondo della title track) e il post punk eccentrico dell’Ohio, con rimandi ai Pere Ubu (“Cultural Zero”) e alla demenzialità dei Devo (“Martian Dance Invasion”). Il fatto che nello svolgimento del loro primo compito non abbiano mostrato tutto il loro potenziale e non abbiano marcato il territorio con la loro impronta specifica non suoni come una critica. L’album è ottimo, energetico, una bomba che racchiude molti suoni dei suono che caratterizzeranno gli anni ’90. Magari non prova a cambiare alcune regole base del rock di quegli anni come faranno i lavori successivi, ma rappresenta appieno una gioventù americana dell’epoca smarrita tra una tecnologia sempre più imperante e varie derive tossiche.
I Jesus Lizard nell’ottobre del 1993 chiamano la band di Dayton ad aprire le date della parte californiana del loro tour americano, accompagnati dai Girls Agains Boys. Il riscontro ottenuto dalla band è eccezionale, le loro performance sul palco infiammano gli spettatori e i Brainiac diventano un gruppo dal grande seguito e dalle enormi aspettative. Questa intensa attività live logora a tal punto la chitarrista Michelle Bodine da fargli prendere la decisione di abbandonare la band. Mentre la Bodine andrà a formare gli O-Matic, il suo posto viene preso da John Schmersal, uno studente in telecomunicazioni che preferisce la musica al college ed è talmente sfacciato da essere reclutato all’istante.
A questo punto la band è pronta per il grande salto, il budget per la registrazione del secondo disco è molto più elevato, ed è ora per la band di Dayton di alzare l’asticella. Nell’agosto del 1994 entrano in sala di incisione con il fido Eli Janney per registrare Bonsai Superstar, disco che lancia la band come una delle “next big things” del rock americano degli anni ’90. Un album carico di tensione già dall’apertura di Hot Metal Doberman’s che mostra una voce filtrata, grandi arrangiamenti di synth ed una feroce aggressività stavolta esposta in maniera molto più nitida grazie all’ottimale lavoro di registrazione e missaggio.
E se la rivoluzione era già iniziata con Bonsai Superstar, per la band di Dayton era arrivato il momento di concentrarsi sui dettagli e limare il suono. Intanto i Brainiac si issano in prima fila nella scena underground a stelle e strisce firmando per la Touch And Go. Il titolo scelto per l’esordio con la nuova label è sempre più nonsense così come il nome del gruppo scritto per la prima volta con l’inserimento di caratteri numerici (3RA1N1AC). Se volessimo davvero tradurre in italiano Hissing Prigs in Static Couture, suonerebbe più o meno come “Bacchettoni Sibilanti in Abbigliamento Statico”. Quello che continua a non essere sicuramente statico è l’andamento tellurico del gruppo e del suo leader. L’album, pubblicato nel marzo del 1996, ma registrato nel novembre 1995 negli studi di Water Music a Hoboken, New Jersey dal solito Eli Janney, tranne una traccia registrata da Steve Albini nel suo seminterrato, presenta 13 brani come il suo predecessore. La struttura delle canzoni è sempre più isterica e psicotica, le tracce sembrano respirare e contorcersi vivendo di vita propria, abbandonando quasi completamente la tradizionale struttura almeno per una buona metà dell’album.
Lo stridulo falsetto di Tim Taylor sbraita raddoppiandosi, le nevrotiche linee di synth lanciano la chitarra in orbita, il basso pulsa vigoroso. Il disco viene chiuso dalla tensione garage di “I Am A Cracked Machine”, dove il cantato di Taylor supera sempre il livello rosso in una veemente interpretazione, degno finale di un album fondamentale per ogni fan che si rispetti dell’Indie Rock anni ’90. Ma il loro quarto album non vedrà mai la luce. La notte del 23 maggio 1997 Tim Taylor perde la vita in un incidente automobilistico mentre stava tornando a casa dallo studio di registrazione. I Brainiac si sciolgono con effetto immediato. Auto-ironici, stravaganti, geniali. Chissà cosa sarebbe successo se la loro storia non si fosse così drammaticamente interrotta.
Se l’ascolto vi ha stuzzicato l’appetito e siete interessati a conoscere più nel dettaglio la storia di questa band sfortunata, potete trovare l’articolo completo a questo link.